Capitolo VI
Era
in cammino da diversi giorni; in tutto quel tempo non aveva incontrato
molte
persone sul sentiero che stava percorrendo, soltanto qualche viandante
o
commerciante. Si era fermata in qualche piccolo e povero villaggio tra
i
boschi; lì aveva incontrato gente onesta e perbene, che
l’aveva accolta
volentieri nonostante la scarsità dei mezzi. Piccole oasi di
felicità nel mezzo
del nulla, poi nient’altro di eclatante.
Suo
padre aveva ragione: il mondo fuori dalla foresta, dove avevano sempre
vissuto,
era diverso; ma, non riusciva a trovarlo migliore o più
interessante. L’unica
cosa che l’aveva stupita in positivo, era l’enorme
quantità di vegetazione e di
fauna che aveva potuto osservare. Aveva letto di quelle cose soltanto
sui libri
dei suoi genitori, ma vederle dal vivo era tutt’altra storia:
i profumi che
emanavano, i colori che avevano, la morbidezza che si poteva percepire
al
tatto, nessun libro, per quanto accurato e dettagliato, poteva
eguagliare o
restituire. Era rimasta ore incantata ad osservare quelle meraviglie
della
natura e altrettanto tempo aveva speso a chiedersi sul
perché gli uomini non si
soffermassero a godere di quello spettacolo. Aveva provato a chiederlo,
nella
sua ingenuità, ma come risposta aveva ricevuto solo qualche
grugnito, nel
migliore dei casi. Infatti, alla compagnia di quei pochi sparuti umani
che
aveva incrociato sulla strada maestra, aveva preferito quelle degli
abitanti
del bosco. Cervi, pettirossi, donnole, volpi, ricci e marmotte le
avevano
tenuto compagnia durante il giorno, mentre gufi, civette, barbagianni e
lupi,
la notte. Nei momenti di sconforto, quando la mancanza dei suoi
genitori si
faceva sentire maggiormente, stringeva nel palmo della mano destra il
pendente
che le avevano regalato e subito si sentiva rincuorata.
Avanzando,
osservò che il paesaggio intorno a sé cominciava
a cambiare aspetto, gli alberi
si facevano sempre più radi e la natura sempre
più silenziosa. Nuovi suoni
giungevano alle sue orecchie: meno armoniosi, meno carichi di gioia e
di voglia
di vivere. Ora, dei rumori metallici
erano preponderanti, seguiti dal legno che scricchiolava
sotto il peso
di chissà cosa e di liquidi che venivano versati in enormi
contenitori di
terracotta. Nonostante il suo udito l’avesse vagamente
preparata, non riuscì a
non rimanere sbigottita nel vedere di cosa effettivamente si trattasse.
Rimase
sbalordita nell’osservare un mulino ad acqua; ora le era
chiaro perché il legno
facesse quello strano rumore. Notò, con suo immenso stupore,
che il corso del
fiume era stato deviato per permettere al meccanismo di funzionare. Era
affascinata ed atterrita allo stesso tempo. Apprezzava ciò
che l’ingegno umano
era riuscito a creare, come aveva plasmato e piegato una porzione della
natura
per i propri scopi; era sgomenta, perché diverse piante ed
animali erano stati
sacrificati per quel benessere. Fece vagare lo sguardo attorno per
curiosare
fra le varie attività che popolavano quel luogo. Vide fornai
e panettieri
all’opera, bottai che approntavano botti che, molto presto,
avrebbero contenuto
al loro interno del prezioso vino. Più in lontananza, vide
un fabbro intento
nel martellare dei ferri di cavallo su un’incudine, mentre il
suo apprendista
si dava da fare con il mantice per ravvivare il fuoco. Alla sua
sinistra
sorgeva una vetreria; osservò con interesse i vari operai
darsi da fare intorno
all’enorme fornace, che aveva ben quattro bocche.
Esaminò con attenzione i
giovani apprendisti maneggiare la fritta e metterla a riscaldare nel
primo
forno e, nel mentre, ascoltare il loro maestro che li istruiva sulle
successive
fasi lavorative. Cominciò a camminare per quello che doveva
essere il quartiere
produttivo della cittadina, che si apprestava a raggiungere. Prima che
si
potesse fermare a chiedere indicazioni, il suo olfatto fu attratto da
un odore
acre, pungente; seguì quella scia per poter capire di cosa
si trattasse.
Quando,
finalmente, riuscì a districarsi da quell’intrico
di stradine, seguendo
quell’odore che diventava sempre più persistente
ad ogni passo che faceva,
rimase sbalordita nel vedere l’edificio che aveva di fronte.
Era quattro o
cinque volte più grande dei fabbricati che aveva osservato
fino a quel momento.
La fucina del fabbro e quella del mastro vetraio potevano
tranquillamente
convivere nell’ampio piazzale, delimitato dalle basse mura di
cinta. In quel
cortile vi erano oltre cinquanta persone, tra uomini e donne, che
lavoravano
senza un attimo di sosta. Le enormi vasche, che potevano contenere fino
a venti
uomini in contemporanea, emanavo quell’olezzo che si spandeva
per tutta l’area.
Si guardò bene intorno, per verificare che non la stesse
osservando nessuno e
pronunciò una formula magica sottovoce. Finalmente
riuscì a capire perché quel
posto risultava tanto sgradevole all’olfatto: in quelle
vasche era contenuta
una soluzione di acqua, soda e, con suo gran sconcerto, urina umana e
animale.
Trattenne un conato di vomito; quella magia, purtroppo, le rendeva
anche molto
più sensibile il suo senso. L’annullò,
passando la mano sul naso, con un
movimento rapido. Si avvicinò con circospezione alle vasche
per vedere cosa
contenessero; rimase alquanto stupita nel constatare il contenuto:
vestiti, di
ogni taglia, forma e colore. Sentì dei passi alle sue
spalle, si girò e quello
che vide la lasciò a bocca aperta. Uomini e donne le cui
articolazioni delle
mani e dei piedi erano orribilmente deformate, gonfie e con la pelle di
un
colore che tendeva al rosso, come fosse ustionata. Il suo cervello fu
rapido
nel collegare a cosa erano dovute quelle menomazioni, quando li vide
entrare
nella vasca centrale, quella che conteneva la maggior
quantità di abiti. Gli
uomini pestavano con i piedi i vestiti, mentre le donne con le mani li
passavano su di uno stricaturo in pietra. Si portò le mani
al volto, come a voler
mascherare l’espressione di orrore che, lentamente, si stava
facendo largo.
Quella
soluzione, per quanto ottima per pulire le vesti, stava causando dei
danni
orribili a quelle persone. Provò ad avvicinarsi ma altri
uomini, che
trasportavano su dei lunghi pali di legno le varie vesti bagnate, le
impedirono
il passaggio. Continuò a girovagare per l’ampio
spiazzo; per quanto la visione
precedente l’avesse abbastanza scossa, era affascinata de
come gli uomini
avessero dato vita a varie attività, senza l’uso
della magia.
Degli
enormi pentoloni in peltro destarono la sua attenzione. Erano posti
sopra un
fuoco la cui fiamma circondava tutta la parte inferiore. In ognuno di
essi
ribolliva un liquido di diverso colore, mentre degli uomini con dei
lunghi pali
in legno rimestavano il contenuto. Da una porta di quello che doveva
essere il
magazzino, vide uscire dei bambini che trasportavano delle pesanti
cassette in
legno. Inorridì. Cosa ci facevano in quel posto?
Perché trasportavano quelle
casse pesanti? Perché non erano a giocare da qualche parte o
con qualcuno che
gli insegnasse a leggere e scrivere? Li vide avvicinarsi accanto agli
operai in
attesa. Dagli enormi pentoloni estrassero della lana colorata per poi
essere
malamente caricata in quelle casse. Dalle diverse smorfie sui visi dei
ragazzini, poté intuire che il carico, da traportare
chissà dove, era notevole.
Avanzavano lentamente, gravati da quel fardello, verso la parte
retrostante
dell’edificio da cui erano usciti. Iniziò a
seguirli per vedere dove fossero
diretti, quando sentì un tonfo seguito da delle urla
provenire da dietro
l’angolo della costruzione, a cui si stava avvicinando con
circospezione. La
scena che le si presentò davanti agli occhi la fece
raggelare. Un bambino era
caduto rovinosamente a terra, poiché era inciampato su una
pietra sporgente dal
terreno, cadendo sul compagno che gli era davanti. La cassa che
trasportava era
caduta rovinosamente sulla gamba di quest’ultimo,
fratturandola. Un uomo uscì
furente dal magazzino, avvicinandosi al capannello che si era formato.
«Chi
è che urla in questo modo?»
«Padrone,
Settimo è inciampato, nella caduta la cassa gli è
sfuggita finendo sulla gamba
di Quinto, che gli era poco avanti.» Disse il bambino che
sembrava essere il
capo di quella piccola combriccola.
L’uomo
li raggiunse, preoccupato, per comprendere meglio la situazione. Quando
vide il
prezioso contenuto delle due casse versato a terra, il colore del volto
virò da
pallido a rosso nel giro di pochi secondi; del bambino che urlava dal
dolore e
dell’altro che cercava di prestargli soccorso non gli
interessava molto.
«Tu»
sibilò verso Settimo «a causa della tua
goffaggine, delle preziose vesti rosso
porpora sono invendibili. Riesci a comprendere il danno che mi hai
causato?»
Gli tirò un manrovescio sul viso. Il labbro del bambino
cominciò a sanguinare
copiosamente. Successivamente, prese il bastone di legno che portava
attaccato
alla cintura e cominciò a picchiarlo.
Eir
sentì montare la rabbia dentro di sé, corse verso
quell’uomo, nonostante fosse
il doppio della sua taglia e la superava in altezza di diversi
centimetri.
Bloccò il suo braccio che era pronto a colpire nuovamente
l’inerme ragazzino.
«E
tu cosa vuoi, biondina?»
«Fermarti!»
«E
con quale autorità? Questi sono i miei schiavi e li tratto
come voglio.»
«Sono
solo dei bambini.»
«Sono
schiavi e sono miei. E ora vattene, mi stai facendo perdere tempo. E
poi chi ti
ha fatto entrare? Guardie!» Urlò, ma nessuno
arrivò, poiché il trambusto che vi
era lì intorno sovrastava ogni voce.
Eir
non si fece intimorire; lasciò andare il braccio e si
allontanò di qualche
passo, guardandosi attentamente intorno. Oltre all’uomo e al
gruppetto di
bambini non c’era nessun’altro. Poi
cominciò a mormorare una formula magica
sottovoce. Lentamente i suoi occhi virarono dal verde verso
l’azzurro ghiaccio.
Sferrò un pugno all’altezza della bocca dello
stomaco dello schiavista, che
svenne sul colpo. Quell’incantesimo aveva aumentato a
dismisura la sua forza ma,
in compenso, le prosciugava velocemente tutte le energie. Prima che
fosse
troppo tardi, si avvicinò al muro di cinta e con un colpo
ben assestato ne fece
crollare una piccola porzione, abbastanza larga da farci passare i
bambini.
Annullò
la magia, l’iride ritornò verde.
Inspirò ed espirò lentamente; era abbastanza
provata, ma aveva ancora energie sufficienti per qualche altro
trucchetto.
Raggiunse il bambino che era ancora disteso a terra, si
accovacciò accanto a
lui ed iniziò ad esaminare la gamba con attenzione. Era
rotta, ma
fortunatamente la frattura non era scomposta, chiuse gli occhi e si
concentrò.
Posò le mani sull’arto e mormorò
qualcosa. Dai palmi scaturì una luce bianca
che durò qualche secondo.
«Alzati.»
Pronunciò con un fil di voce, visibilmente provata dallo
sforzo.
«È
guarita. Grazie! Sei una fata?» Chiese stupefatto il bambino.
Eir
sorrise a quella domanda, mai nessuno le aveva dato della fata prima
d’ora; la
cosa la divertiva.
«Beh,
se pensi che lo sia, allora lo sono!» E gli diede un bacio
sulla guancia. «Ora
va! Anche voi» disse agli altri bambini che le erano intorno
«andate, fuggite
via.»
«Non
possiamo» ribadì Settimo «non sappiamo
dove andare e poi…lui ha i nostri
contratti.»
«Che
contratti?»
«Quelli
della nostra vendita.»
«Capisco…Ci
penso io. Però, voi andate, su!»
«E
dove?» Insisté Settimo.
«Seguite
la strada che porta al bosco, quando vedrete gli alberi farsi
più fitti
noterete un bivio; prendete la strada che va a destra, vi
condurrà all’interno
della foresta. Inoltratevi, troverete un piccolo villaggio al suo
interno, non
è molto grande, ma è gente onesta e vi
accoglierebbe volentieri.» Vide gli
occhi dei bambini illuminarsi per la gioia. «Ora
andate.»
«Grazie
fatina bionda» Risposero in coro.
Rise.
Quel nomignolo che le avevano affibbiato la faceva sentire piena di
gioia.
«Mi
chiamo Eir, ma fatina bionda va bene lo stesso.» Li vide
andare via, quando
l’ultimo di loro uscì, posò la mano
vicino al muro e lo fece tornare integro.
Si
avvicinò all’uomo che era ancora svenuto a terra.
Mise la mano sulla sua fronte
e cominciò a sondargli la mente; in pochi secondi
riuscì a scoprire dove fossero
i contratti. Prima di avviarsi verso la sua meta prese il corpo
dell’uomo e lo
trascinò sotto una capannina di legno lì vicino,
prese gli abiti sparsi a terra
e lo ricoprì; poi, con uno schiocco delle dita,
trasformò quel mucchio di
vestiti in balle di fieno. Non sarebbe durata molto quella magia, ma
sarebbe
stata sufficiente per ciò che aveva in mente.
Sbocconcellò
un po’ di pane prima di attuare l’ultima fase del
suo piano, aveva bisogno di
recuperare le energie. Si pulì la bocca dalle briciole, poi
giunse le mani
davanti al suo volto. Una luce verde cominciò ad avvolgerla
ed in pochi secondi
si ritrovò trasformata nel padrone di quel luogo.
Entrò nella casa che sorgeva
adiacente al magazzino. Al contrario della parte esterna, lì
dentro regnava la
quiete ed il silenzio. Si avvicinò alle scale in legno e
salì. Ad ogni suo
passo gli assi emettevano degli scricchiolii; non era abituata a quei
rumori,
nonostante la sua casa nel bosco fosse in legno, non emetteva nessun
rumore
simile. Si addentrò nella stanza dov’era contenuta
la cassaforte; lesta, chiuse
la porta alle sue spalle. Sigillò anche le imposte delle
finestre e poi, con
uno schiocco delle dita, accese le candele di sego lì
presenti. Aprì l’armadio
che conteneva lo scrigno e con una magia divelse il lucchetto.
Cominciò a
scorrere i vari contratti; dopo una breve ricerca, finalmente
riuscì a trovare
quelli che le interessavano. Sorrise ironica; l’idea di
chiamare i bambini in
base al progressivo del loro numero di registrazione contrattuale, solo
un uomo
senza scrupoli poteva partorire un’idea simile. Mise i sette
fogli di papiro in
una ciotola di ferro presente sulla scrivania, avvicinò una
candela e gli diede
fuoco. Raggiunse nuovamente l’armadio per richiudere il
forziere, quando i suoi
occhi notarono uno strano sacchetto sul fondo. Incuriosita, lo prese e
lo aprì:
era pieno di monete d’oro. Lesta, lo attaccò alla
cintura che portava alla
vita. Rimise la stanza in ordine, riaprì la finestra ed
uscì.
Una
volta all’aperto riprese le sue sembianze, sistemò
il denaro nel suo zaino,
annullò l’incantesimo che nascondeva
l’uomo e guadagnò l’uscita da quel posto
infernale. Era ormai a diversi metri dalla fullonica, quando
sentì delle urla
di una voce a lei nota, provenire dal posto che si era lasciata alle
spalle. Alzò
il passo, mentre un sorriso beffardo
lentamente si faceva largo sul suo volto.
Forse
suo padre aveva ragione, dopotutto il mondo dei senza magia poteva
rivelarsi
molto interessante.