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Autore: Enchalott    28/06/2021    5 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a tutti! :)
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Dopo una guerra ventennale, i Salki vengono sottomessi dalla stirpe demoniaca dei Khai. Negli accordi di pace figura una clausola non trattabile: la primogenita del re sconfitto dovrà sposare uno dei principi vincitori. La prescelta è tanto terrorizzata da implorare la morte, ma la sorella minore non ne accetta l'ingiusto destino. Pertanto propone un patto insolito a Rhenn, erede al trono del regno nemico, lanciandosi in un azzardo del quale si pentirà troppo tardi.
"Nessuno stava pensando alle persone. Yozora non sapeva nulla di diplomazia o di trattative militari, le immaginava alla stregua di righe colorate e numeri su una pergamena. Era invece sicura che nessuna firma avrebbe arginato i sentimenti e le speranze di chi veniva coinvolto. Ignorarli o frustrarli non avrebbe garantito alcun equilibrio. Yozora voleva bene a sua sorella e non avrebbe consentito a nessuno di farla soffrire."
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fronti di guerra
 
Mahati ricevette Eskandar nei suoi appartamenti.
Quando era rientrato all’ala est, si era aspettato di trovare la principessa in preda alla disperazione, invece le schiave avevano riportato che era uscita per visitare il luogo in cui sarebbe vissuta: un ottimo segnale. Era stato precipitoso nel giudicarla, avveduto a concederle di rifiatare affinché l’indole naturale trovasse il varco.
A mente fredda avrebbe intrapreso la conversazione traendo spunto dalle sue prime impressioni, per poi passare alle questioni che li avrebbero condotti al matrimonio. Se avesse rinvenuto un pretesto per evitarlo, lo avrebbe afferrato.
Non avere la mente sgombra era uno svantaggio alla reggia come in battaglia. Nulla avrebbe dovuto interferire con l’incarico di stratega supremo. Invece le dorei avevano iniziato a mormorare di ben altro argomento e, cogliendone il tema, aveva visto rosso. Aveva persino meditato di rimandare l’incontro con il suo braccio destro, poi aveva riordinato le priorità. Si sarebbe occupato in seguito della ragazza e delle sue sconfortanti iniziative.
 
Eskandar attendeva, latore di pessime notizie. L’uniforme scarlatta era impolverata e macchiata di sangue a prova del fatto che fosse partito a precipizio.
«Bevi con me, reikan
Il guerriero accettò e adottò un registro informale.
«Perdona il modo frettoloso in cui mi presento. L’ultimo attacco non è andato come previsto, non procederemo senza la tua autorizzazione.»
Mahati aggrottò la fronte. Concordò sul fatto che il pareggio fosse insolito e si prefissò di ponderarne le cause.
«Avete attuato il piano, la mia soddisfazione non è scalfita dal casuale insuccesso.»
 
«Sheratan ha concentrato l’azione sul campo per sbaragliare la cavalleria minkari, certo che il tempo inclemente avrebbe reso inefficaci gli attacchi dall’alto. Al momento è superfluo usare il ladi, la pioggia estinguerebbe le fiamme.»
Il principe annuì, passeggiando lungo l’arcata delle finestre. La resistenza nemica era una spina nel fianco, però non era la prima volta che qualcuno gli dava del filo da torcere. L’istinto suggeriva di agire con precauzione, gli equilibri erano stati stravolti, confidare alla cieca nella destrezza dei Khai equivaleva ad abbassare la guardia. Non era nella sua natura lasciarsi condurre dall’esperienza, ogni contesto possedeva le sue particolarità: quelle descritte da Eskandar gli procuravano una sensazione negativa.
Si fidava dell’abilità dei suoi, non li avrebbe sminuiti inviando nuovi contingenti. Se le sorti erano incerte, significava che Belker non era pago del sangue versato. Nessun problema esaudire la sua volontà, parimenti necessario impedire che l’occasionale bilanciamento rinvigorisse le speranze degli avversari.
Rinfocolare la resistenza è l’inizio della sconfitta.
Per quanto esauriente, il rapporto conteneva il punto di vista dell’osservatore: nulla era come verificare di persona, ma avrebbe dovuto trattenersi a Mardan. Aggrottò la fronte, contrariato dalle incombenze non previste.
«La regina Amshula ha risposto all’ultimatum?»
«No, Kharnot
Il Šarkumaar emise il fiato. Tagliare gli approvvigionamenti agli avversari o passare a fil di spada i prigionieri era un mezzuccio antitetico al concetto di gloria in battaglia. Ma assorbire la mentalità dell’antagonista e carpire quali atti instillassero paura e rassegnazione era, al contrario, una dimostrazione di agilità mentale.
Sono uno stratega prima di essere un guerriero, l’intelletto è una virtù supplementare, non esiterò a servirmene.
«Condurremo il re Namta all’ingresso della capitale. Se non si arrenderà, lo restituiremo un pezzo alla volta.»
«Consideralo fatto.»
«E mentre i Minkari assisteranno all’esecuzione dilazionata, i vradak caricheranno il bastione sud. È il punto meno esposto delle difese, gli assediati tendono a diventare spavaldi quando le mura resistono. Tieni pronto l’olio incendiario, la faremo finita con quelle catapulte.»
«Ai tuoi ordini.»
Eskandar si congedò con il cuore colmo di fiducia. Il principe gli aveva riconsegnato l’aspettativa, altrimenti sarebbero stati i comandanti Khai a morire in lente rate.
Rievocò con lucidità un episodio avvenuto durante la presa di Seera: certo della vittoria, uno dei reikan aveva contravvenuto i comandi e si era fatto consegnare dagli sconfitti ricchezze in cambio di impunità. Quando ne era stato messo al corrente, il Šarkumaar l’aveva privato del grado e della vita.
Aveva comminato la pena di persona, davanti all’armata schierata e ai Salki sconfitti: non aveva concesso l’onore della spada, al sorgere del sole aveva squarciato la gola del condannato con un colpo degli artigli. Forse era la ragione per cui vantava l’appellativo di signore dell’aurora: uccideva allo sbocciare rosato del nuovo giorno. Il corpo del giustiziato era stato dato alle fiamme, ma le ceneri non erano state ricondotte in patria. Una chiazza imperitura sul suo nome, oblio sul suo ricordo. Nonostante il rodaggio secolare, l’immagine del principe ricoperto di sangue era indelebile.
Percorse il corridoio che sboccava alla terrazza inferiore del lato orientale, dove la cavalcatura alata era appollaiata in paziente attesa. Le piume grigio ferro erano distinguibili sull’amaranto delle mura, i finimenti luccicavano come specchi. Uno sprovveduto li avrebbe ritenuti facili bersagli, ma i vradak erano addestrati ad abbrancare i rostri e non si facevano spaventare dai proiettili incendiari.
Sebbene gli fossero stati concessi il riposo e il cambio, pensò di ripartire subito. Discese i bastioni, assorto nelle riflessioni. Quasi non si accorse dell’Ojikumaar: si inginocchiò, ma fece in tempo a scorgere la giovane straniera che lo seguiva. Lo stupore gli fece bofonchiare un omaggio meno sentito del dovuto, tuttavia l’erede al trono non se ne curò.
Eskandar si rialzò solo quando Rhenn sparì dalla visuale, considerando l’insieme per prassi: la contingenza era straordinaria, la ragazza bellissima, il principe distratto.
 
Yozora percorse in solitudine l’ultimo tratto del corridoio che l’avrebbe riportata all’ala est, rimuginando sulla scommessa con il principe della corona e sul suo improvviso mutismo. Forse un residuo dell’irritazione a fronte del ginepraio da lei originato.
Le loro strade si erano divise al primo bivio, ma era riuscita a orientarsi senza aiuti.
Quando fece cenno alle dorei di rialzarsi, solo Naiše accolse l’invito. L’espressione ansiosa cercò di comunicarle qualcosa come un allarmato “sappiamo tutto”. Capì di essere in errore quando le schiave abbandonarono la stanza.
Mahati interruppe la scrittura del documento su cui era chino e la inchiodò con lo sguardo: la sfumatura nocciola delle iridi era scura, come se lo sdegno ne avesse velato il colore morbido. Yozora s’inchinò, incerta su cosa aspettarsi. Nulla di positivo a giudicare il gelo che saturava l’ambiente.
«Non fatelo. Siamo promessi.»
La lunga camicia di garza bianca ricadde sulle gambe fasciate nei pantaloni sabbia, sfiorando il pavimento: una trasparenza interrotta dal cinto candido che la chiudeva al torace. Calzava stivali leggeri, portava bracciali ai polsi, orecchini ai lobi e al collo lo stesso ciondolo del giorno prima. Attraente e pericoloso come una fiera selvaggia.
«Cosa diavolo pensavate di ottenere?» domandò senza preamboli.
La voce fendeva come la lama che stava sfiorando.
«I-io…»
La voce le morì in gola, il contrasto degli artigli bianchi sul metallo brunito fu l’unico elemento che la occupò. Era diverso trovarsi a tu per tu con il Šarkumaar, con Rhenn avrebbe rischiato il castigo per fornire il proprio punto di vista.
Yozora individuò la differenza nel proprio atteggiamento: con il primogenito si era mostrata coraggiosa, con Mahati non aveva fatto che tremare e supplicare, poiché il terrore nei suoi confronti la soffocava. Si impose maggiore intraprendenza per abolire l’immagine pietosa che aveva dato di sé. Ma restare viva, al suo feroce cospetto, era tutt’altro che una certezza.
«Vorrei rispondervi che mi dispiace ma mentirei.»
«Buon per voi. Pronunciare il falso o rammaricarsi è superfluo. Ciò non vi dispensa dal fornirmi la spiegazione che mi è dovuta.»
«Vi risulterebbe assurda. L’ho sperimentata con vostro fratello, il torto resta mio da qualsiasi punto lo si osservi.»
Sul viso di Mahati transitò una collera profonda. Batté i pugni sul tavolo, facendola sobbalzare.
«Non è Rhenn che avete messo in discussione! Il vostro colpo di testa è intollerabile! Inoltre declinate le responsabilità con la comoda scusa del già risolto! Mi ponete nella condizione di impartirvi un insegnamento esemplare!»
La squadrò inferocito, poi le scagliò addosso l’arma infoderata, che la colpì in pieno causandole una fitta di panico più che di dolore.
«Raccoglietela! Se continuate a fissarmi imbambolata, giuro che non risponderò di me!»
A contatto con l’arma lo sconvolgimento della ragazza aumentò. Brandì la spada che non sapeva – non voleva - usare contro un avversario che era avvezzo a maneggiarla come una parte del corpo. Sentì incrementare il pizzicore delle lacrime.
Mahati arricciò con scherno un angolo della bocca.
«Guardatevi dallo sguainare, a meno che non vogliate restituire l’anima a Reshkigal. Quando sfidate un Khai e non ambite un duello all’ultimo sangue, la lama deve restare vestita.»
Yozora atterrì a posteriori: quando aveva fronteggiato Solea, la spada di Mirai era snudata. La provocazione era partita da lei, l’appartenenza alla famiglia reale non l’avrebbe esonerata dal combattimento.
Se non fosse intervenuto Rhenn… dèi misericordiosi!
Il principe avvertì il suo stato d’animo, ma rimase impassibile.
«Avanti!» la incitò.
Lei non osò un passo. Impensabile stargli alla pari. Abbandonare l’arma però sarebbe stato un atto di viltà, il meno proficuo in assoluto.
«N-non sono capace.»
Non riuscì a ultimare la frase. Mahati si spostò con un’agilità fuori dal comune e la disarmò. La vibrazione dell’acciaio contro l’acciaio le trasmise una scossa. Il rumore del metallo sul pavimento risuonò funesto. Quando lui rinfoderò, non ne trasse conforto: gli artigli erano fatali, l’avrebbe uccisa a mani nude come con i difensori di Seera. Naturalmente dopo averla umiliata per lo sgarro.
Mahati strinse le palpebre: le pupille erano un taglio verticale privo di compassione.
«Non siete in grado di combattere, non di prendere atto delle mie decisioni e neppure di darmi piacere. Gradirei apprendere cosa sapete fare prima di vedervi svenire.»
La voce al suo orecchio era un sussurro, dura e controllata. Erano insulti senza veli, i peggiori che un Khai avrebbe pronunciato. Il rigetto di diventare una piuma in balia del vento prese il sopravvento, il terrore si tramutò in opposizione, in desiderio di non piegarsi. Yozora s’accese d’ardire sulla scorta del niente da perdere.
Lui arrestò la corsa del ceffone diretto al suo volto con estrema agilità, ma il disprezzo dello sguardo si spense.
«C’è la pena di morte per questo» sibilò.
Non strinse, però lei gemette. Mahati inarcò un sopracciglio, scorgendo i lividi bluastri che le contornavano il polso.
«Chi vi ha regalato questo braccialetto?»
«Nessuno.»
«Non ve lo siete procurata da sola! State proteggendo una schiava? O la reikan che vi ha scortata?»
«No!»
«Bene. Condannerò alla pena capitale tutti quelli che sono venuti a contatto con voi, giusto per rinfrescare il concetto di gerarchia. Che ne dite?»
Yozora sospirò, certa che avrebbe messo in pratica l’intimidazione.
«Rhenn.»
Mahati strabuzzò gli occhi.
«Rhenn?» ripeté con voce strozzata.
«Non l’ha fatto di proposito! È accaduto quando mi ha portata via dall’impiccio che ho combinato, non poteva sapere che la sua forza avrebbe lasciato l’impronta!»
«Avrebbe potuto trascinarvi per i capelli per quanto mi concerne! Non occorre che lo difendiate!»
«Allora perché ve la prendete!?»
«Lo avete chiamato per nome! Osate confidenza con l’erede al trono?!»
Lei si portò le mani alla bocca, maledicendo la disattenzione.
«Scusatemi. Ho sempre desiderato un fratello e tramite il vostro ho pensato di aver realizzato le mie speranze. È stato spontaneo, non accadrà più.»
«Se volete, ve lo regalo» brontolò il Šarkumaar «Seguitemi.»
Lasciò cadere il commento troppo sincero e si diresse in camera da letto. Aprì uno scrigno e ne trasse una boccetta, invitandola a porgergli il polso. Versò alcune gocce sulle chiazze violacee e prese a frizionarle con un garbo impensabile.
Yozora avvampò. Le sue mani erano forti ma affusolate, le unghie sporgevano di un centimetro buono dal polpastrello. Si muoveva senza graffiarla, abituato a calibrare i gesti, magnetico e sensuale nonostante l’impassibilità.
«Premo troppo?»
«No.»
«Non siete così fragile, allora. Ne terrò conto.»
«Quando mi condannerete per avervi messo in imbarazzo?»
Mahati sollevò su di lei occhi privi di animosità.
«Quando il mio corpo entrerà nel vostro. Lo giudicate un castigo?»
Lei distolse lo sguardo. L’istinto le suggerì un audace parallelismo: se aveva impiegato la stessa delicatezza con Mirai, certo non le aveva fatto male. Ma non significava accordo o che la passione fisica possedesse la medesima soavità.
«Forse per voi» mormorò.
Mahati accennò un sorriso involontario.
«Amate sminuirvi?»
«Ho appreso che per un guerriero l’onore è tutto. Se non mi reputate degna di pagare pegno da pari, siete voi a svalutarmi. Condonare non è un favore secondo la vostra filosofia.»
«Tirate la corda?! Non so se esserne lieto o proibirvi di uscire!»
«Se mollassi, finiremmo entrambi a gambe all’aria, suppongo sarebbe sgradevole.»
Il principe colse la metafora e scosse la testa.
«Per quanto riguarda la domanda che non ardite pormi, considero chiuso l’episodio di cui vi siete resa protagonista. Rhenn confermerà che, secondo le vostre tradizioni, avete chiarito quanto per voi è lecito. Che, pur maldestra, siete valorosa.»
«Mi avete spaventata per dimostrare il diritto di comportarvi come vi pare?»
«Per dissuadervi dal prendere iniziative e per avallare le mie.»
«Significa che stanotte sceglierete un’altra nisenshi
«Vorreste impedirmelo?»
«Sì!»
Mahati fece assorbire l’olio, poi trasse un bracciale maschile e lo adattò al suo polso in modo che occultasse i lividi. Sollevò il capo e la fissò con intensità.
 

 
Kalemi scese nel giardino della reggia ultraterrena. Il profumo dei fiori era penetrante, il dolce aroma dei boccioli si confondeva con il petricore della terra umida e con l’essenza legnosa delle cortecce. Gli effluvi si espandevano in armonia nell’aria brillante: il cielo eterno dei Superiori era cristallo incontaminato. Non così i loro sentimenti, che talvolta erano rovi e spine. Ferivano, soffocavano e facevano avvizzire qualunque paradiso.
Come accaduto qualche anno fa.
Colto dai ricordi, si fece strada tra le siepi. La treccia nera ondeggiava sulla schiena in contrasto con l’argento della casacca dal lungo strascico. I piedi, fasciati negli stivali bianchi, non producevano rumore. Solo lo sventolio ritmico del mantello, portato di taglio su una spalla, annunciava la sua presenza.
Seguì il nastro d’acqua che si diramava attraverso la vegetazione e alimentava le fontane, certo che avrebbe incontrato chi cercava. Gli occhi intenti avevano lo stesso verde dei boschi, giada attraversata dal sole, potenza primordiale della primavera. Il dio del Tempo era giovane e bellissimo, di una tempra inossidabile e d’immensa rettitudine. Le voci che giungevano alle sue orecchie ardivano paragonarlo al sommo Irkalla: altrettanto affascinante, incorruttibile, misterioso, munito di un potere immane di cui non si conoscevano i confini.
Però io non l’ho mai usato, Distruttore, è solo per questo che resto illeggibile.
Posò le dita sull’elsa della spada a due lame, sguainata un’unica volta nel giorno in cui era divenuto signore del pantheon. Provò l’acuto desiderio di ricevere un consiglio e avvertì in esso la punta insidiosa della solitudine, ma la scacciò.
Lei era seduta tra le colonne del patio, decorato con rampicanti di un ciclamino tanto intenso da ferire lo sguardo. La veste rosata era una screziatura chiara tra le frasche, i capelli castano rame luccicavano in volute setose, intrecciati con un nastro dorato.
«Azalee.»
La dea della Pioggia sorrise al fratello minore.
«Ti ho fatto preoccupare, perdonami.»
«L’isolamento è deleterio. Conduce a pensieri che, non condivisi, si traducono nel seme dell’odio. Detesto vederti soffrire, preferisco che mi urli contro.»
Azalee appoggiò il capo al suo omero: i lineamenti delicati si venarono di tristezza.  Si sentì responsabile. Desiderava gridare fino a perdere la voce, ma non contro Kalemi: lui era più della linfa che condividevano, era un’anima rara, percepiva la disperazione. Essere diviso tra dovere e tutela lo angustiava, rallentandolo negli obblighi.
«Non è più a Minkar» mormorò.
«Lo so.»
«Ho fatto piovere sulla città, ma non è servito. Non è tornato.»
«C’è chi si occupa di Belker. Vorrei che aprissi il cuore, Azalee.»
Lei sorseggiò il chae, lasciando che la riscaldasse. Buffo avvertire i brividi nel regno imperituro.
«Lo amo. C’è stato un tempo in cui mi sono illusa che ricambiasse i miei sentimenti, forse è avvenuto per un granello nell’infinità dello scorrere. Ma non sono mai stata al primo posto, la sua compagna è la guerra, una prescelta con cui non posso competere. Belker non è come noi. I suoi poteri fluttuano, trae le energie dalla violenza e dalla sopraffazione, le provoca per cibarsene, impedisce che l’odio si plachi e in tal modo si irrobustisce. Non sopporta la debolezza, non sopporta lo scemare della fiamma dall’aura, lasciarsi invadere dalla quiete per lui è morire. Non lo fa per primeggiare, accontenta l’orgoglio e non esiste nulla che possa dissuaderlo. Tantomeno io.»
«Non perdere la fede, sorella.»
Azalee sorrise malinconica: i Superiori erano oggetto di devozione, che una di essi dovesse professare una sorta di credo era contradditorio.
Il dio sovrano notò la silenziosa disillusione e le strinse le mani.
«Non in colui che ha rapito il tuo cuore, bensì nell’amore stesso. Io, che governo il Tempo, ho imparato a rispettarlo in tutte le forme. Non dubitare della sua potenza.»
   
 
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