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Autore: Dark Lady 88    08/07/2021    1 recensioni
Epoca d’oro dei pirati, Caraibi: Henry Avery, lo spietato capitano della Fancy issa bandiera rossa, il che significa una cosa sola: lotta senza quartiere. L’attacco alla Ganj-i-Sawai, la più grande nave del Gran Mogol, gli frutta un tesoro inestimabile. Ma le insidie sono molte, e l’equipaggio della Fancy ha necessità di nascondere il bottino, per tornare in un secondo momento a recuperarlo.
La misteriosa Isola dello Scheletro è il posto scelto per farlo: quello che Avery e il suo equipaggio non si aspettano però, è che sull’isola si troveranno a combattere con le proprie paure e le proprie debolezze. C’è qualcosa o qualcuno che impedisce loro di salpare? Qual è l’atroce delitto che vi si è consumato e che ha portato alla distruzione di un’intera flotta spagnola?
La storia presenta dei riferimenti alla serie tv Black Sails e al romanzo L'isola del tesoro. Ho deciso comunque di inserirla nella sezione Originali perché i personaggi sono figure storiche o inventate da me.
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non appena misero piede sull’isola, i pirati della Fancy si resero conto che qualcosa non andava. L’aria era diversa in quella zona; sembrava ristagnante, un’afa che mozzava il respiro.

Il capitano Avery scrutava l’orizzonte con espressione impassibile. Tutta la ciurma era ammutolita. Gli uomini provavano emozioni contrastanti: l’unica cosa sulla quale tutti avrebbero concordato, era un’avversione istintiva nei confronti dell’isola, e la volontà di andarsene da quel luogo il prima possibile.

Michael Darren sospirò: ripensava alla conversazione tenuta la sera prima con il quartiermastro: entrambi concordavano sul fatto che nascondere il tesoro poteva non essere l’idea più brillante avuta dal capitano. Per non parlare di quella povera disgraziata che teneva chiusa a chiave in una stanza di un bordello, a Nassau.

“Cosa vuole farne il capitano della ragazza?”, gli aveva chiesto Michael, “Chiedere il riscatto adesso all’imperatore sarebbe una follia. Quello è già fin troppo incazzato perché gli abbiamo affondato la nave e rubato il tesoro da sotto il naso. Mi pare esagerato chiedergli di sborsare altri soldi per la figlia… a parte il fatto che non scenderà mai a compromessi”.

“Non ti illudere che rimandargli indietro la principessa possa servire a qualcosa. Il danno economico che gli abbiamo arrecato è troppo grande da poter essere liquidato così”.

“Non dico che basti riportargli a casa la figlioletta sana e salva possa chiudere il discorso... ma cosa ha intenzione di fare il capitano con lei? Perché a me sembra tanto che se la tenga unicamente per i suoi trastulli personali…”

“Attento a quello che dici, ragazzo…”, lo redarguì il quartiermastro.

Michael non si lasciò intimidire: “A me non importa cosa se ne fa Avery. Purché non arrechi danno a noi. Tra l’altro, tenerla a Nassau è pericoloso anche per la ragazza. Chi ci dice che il Governatore non decida di consegnarla lui stesso al Gran Mogol? Potrebbe decidere di farlo come atto di buona volontà per riparare al torto subito…”
Vaughan si strinse nelle spalle.

“Nessuno sa dove si trovi la ragazza…”

“Ma non è difficile immaginarlo”.

“Oh, senti… se il capitano ha scelto di lasciarla lì vorrà dire che per il momento la riterrà la scelta più saggia. Non ho idea di cosa voglia fare in futuro…”

In effetti quella situazione rendeva George Vaughan alquanto sconcertato. Una volta il capitano Avery si confidava spontaneamente con lui; gli chiedeva consiglio quando doveva prendere una decisione importante, come poteva essere quella della sorte della principessa indiana. Adesso sembrava non tenere più in considerazione l’opinione di nessuno. Vaughan avrebbe tanto voluto darsela a gambe, a quel punto. Spartire il tesoro, ed ognuno per la sua strada. Ecco cosa aveva consigliato al capitano. Altro che viaggi misteriosi su isole maledette.

All’improvviso, la nave si stagliò dinnanzi a loro. Nascosta dalla nebbia, non era stata avvistata dai cannocchiali della Fancy. La vedetta era scesa: con quella foschia era inutile cercare di individuare qualcosa. Per questo, la sagoma nera e minacciosa del veliero incastrato nell’insenatura, lasciò gli uomini improvvisamente senza fiato. Chissà da quanto tempo si trovava lì: il legno era marcito, divorato dall’acqua che lo lambiva. Immobile e silenziosa, la nave sembrava uno scheletro lasciato lì come benvenuto – o avvertimento – nei confronti di coloro che raggiungevano l’isola.

“Dev’essere molto tempo che si trova qui”, sentenziò Vaughan.

“È possibile che sia uno dei mercantili dell’Avana”, ipotizzò Michael.

“No, lo escludo”, lo liquidò il capitano, “Il signor Vaughan ha ragione. Dev’essere molto tempo che si trova qui. Non credo che qualcuno la stia ancora cercando”.

Michael sentì un brivido freddo percorrergli la schiena, nonostante la calura opprimente.

“Cosa facciamo, capitano?”

Avery aveva le braccia incrociate; non sembrava freddo ed impassibile come al solito. Evidentemente l’isola sortiva un qualche effetto anche su di lui, che non gli era possibile celare del tutto.

“Saliamo. Andiamo a vedere di che si tratta”.

“Speri di trovarci qualcosa di interessante lì dentro?”, gli chiese Michael, perché io non vedo altri motivi per farlo, aggiunse mentalmente.

“Forse. Ma non nel senso che intendi tu”, gli rispose lapidario.

Certo, se ci fosse stato qualcosa di prezioso a bordo della nave, di sicuro gli spagnoli che usavano l’isola per i propri traffici l’avrebbero già razziato. Allora cosa sperava di trovare il capitano? Se lo chiese anche Vaughan.

Michael ed il quartiermastro si scambiarono un’occhiata preoccupata, ma non osarono discutere gli ordini. Nessuno lo faceva mai, quando si trattava di Avery.

L’equipaggio della Fancy era composto da quarantaquattro uomini. Lanciati i rampini, furono solo in sei ad avere il coraggio di salire a bordo della nave, tra i quali il capitano Avery, Michael Darren e George Vaughan. Il legno sul ponte del relitto era anch’esso marcio, così come la plancia che si vedeva dall’esterno.

In silenzio, i sei uomini scesero sotto coperta, il capitano Avery in testa al gruppo, seguito a ruota da Michael. Vaughan chiudeva la fila. Senza dire una parola, le dita tese sull’elsa delle spade, come a doversi difendere da una minaccia improvvisa, nonostante la nave fosse abbandonata.

Non credo che qualcuno la stia ancora cercando, aveva detto il capitano Avery.

Michael sentì un sudore freddo imperargli la fronte. Nessuno la stava cercando. La Fancy invece era la nave più ricercata dei Caraibi, eppure in quel momento, giunti ai confini del mondo, in quel luogo dimenticato da Dio, sarebbero potuti morire tutti, senza essere mai ritrovati. Nessuno sapeva dove si trovava l’isola, in quanto la rotta era segreta. Nessuno li avrebbe più cercati. Non lì.

Non trovarono nulla fino a che il capitano Avery non aprì la stiva. Forzò la porta che opponeva resistenza: il pomello doveva essersi incastrato nel legno in deterioramento. Aprendo tuttavia, Avery sentì il tintinnio della chiave che cadeva a terra. Come se la porta fosse stata chiusa dall’interno.

Quello che videro i sei uomini della Fancy, non lo avrebbero mai dimenticato: cadaveri. Corpi ammassati l’uno sull’altro, come sorpresi dalla morte mentre ancora si muovevano. Molti erano in uno stato di avanzata decomposizione, di altri non erano rimaste che le ossa.

Per quella che sembrò un’eternità nessuno ebbe il coraggio di parlare. Dovevano esserci circa trenta corpi chiusi nella stiva. Alla fine fu il capitano a spezzare il silenzio: i tacchi dei suoi stivali risuonarono mentre calpestava l’acqua putrida che stagnava a terra. Si avvicinò lentamente, inoltrandosi nella fitta selva di cadaveri.

“Sembra che si siano divorati l’uno con l’altro”, mormorò, osservando le pose innaturali nelle quali la morte aveva scolpito quei corpi per sempre.

Erano avvinghiati l’uno all’altro; ad alcuni mancavano degli arti, altri erano stati palesemente squartati.

“Per l’amor di Dio…”, disse Vaughan in un soffio.

“Credi perfino in Dio, adesso?”, lo incalzò Michael.

A dispetto della battuta che voleva essere strafottente, al giovane tremava la voce.

I sei uomini si convinsero ad entrare, stando attenti a non urtare i cadaveri che occupavano la stiva in lungo ed in largo.

“La porta era chiusa dall’interno”, osservò Vaughan.

“Si sono divorati tra di loro. Molti erano ancora vivi quando sono stati dilaniati”, aggiunse Michael.

Alcuni, tra i volti mummificati dei cadaveri meglio conservati, erano infatti contratti in smorfie terrificanti, come se fossero morti tra atroci dolori.

“Usciamo da qui”, si decise il capitano.

Grazie a Dio, pensarono Michael e Vaughan, scambiandosi un’occhiata.

Fecero marcia indietro ed attraversarono l’interno della nave: sul lato opposto si trovava la cabina del capitano. Avery fece di nuovo forza sulla porta; stesso tintinnio di chiave caduta: anche quella era stata chiusa dall’interno.

Il capitano della nave fantasma era ridotto ad un mucchietto d’ossa. La cabina era spartana: quasi del tutto sgombra, qualche scaffale vuoto e delle poche carte sulla scrivania. I sei uomini della Fancy entrarono con animo lugubre e si guardarono attorno. Da una piccola finestra filtrava una luce lattiginosa.

“Il diario di bordo”, Avery estrasse un libricino ammuffito dalle dita dello scheletro del capitano.

Dovette strapparglielo di mano: negli anni, sembrava che le ossa del pover’uomo si fossero conficcate nella carta, diventando un tutt’uno con i pensieri scritti su quelle pagine.

“Cosa dice?”, Vaughan gli si avvicinò, imitato dagli altri cinque.

Avery aprì la copertina del diario con cautela: la carta era bagnata e molto fragile. Le parole, vergate con un inchiostro ormai scolorito, erano scritte in spagnolo, che Avery tradusse mentalmente.
 
17 maggio 1636.

Sono il capitano Fernando Rosco, la giornata è limpida ed il cielo terso; la brezza marina spira leggera e ci sospinge dolcemente attraverso il Mar dei Caraibi. Salpiamo in questo giorno benedetto dal Signore dal porto dell’Avana, a bordo del veliero Esperanza. Siamo diretti in Florida con un carico di tabacco. Il nostro tabacco cubano, proveniente dalle nostre migliori piantagioni.

Avery immaginò un grasso capitano spagnolo con folti baffi scuri ed un sorriso gioviale, orgoglioso di essere a capo di quella ricca spedizione. Sfogliò il diario: le prime pagine erano scarne di annotazioni, scritte con una grafia leggera e svolazzante.

Di tanto in tanto il racconto era interrotto da qualche disegno: parti della nave, schizzi di spiagge tropicali e piccoli pesci. Poi, via via la grafia diventava più fitta; le lettere si incurvavano, come se dovessero sopportare il peso delle parole che andavano a comporre.

Il diario si interrompeva bruscamente: nell’ultima pagina, il capitano Rosco aveva scritto ripetutamente No estamos solos.
  
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