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Autore: Adeia Di Elferas    09/09/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni Della Rovere quella mattina si alzò a fatica dal letto. Malgrado avesse appena quarantaquattro anni, si sentiva un vecchio.

L'ultima campagna al soldo di Firenze contro Pisa l'aveva sfiancato più di quanto credesse possibile. A voler essere onesto con se stesso, a giugno era stato restio ad accettare l'ingaggio della Repubblica proprio perché non si sentiva in forma come un tempo. Se aveva alla fine accettato, era stato solo per solidarietà con suo fratello Giuliano, che, in Roma, faceva una strenua, seppur abbastanza silenziosa, opposizione ai Borja. Allo stesso tempo, schierarsi con Firenze, che aveva il segreto terrore di essere nelle mire del Valentino, gli era servito anche per mostrare proprio al figlio del papa che Senigallia, nella sua persona, avrebbe avuto la forza di difendersi, in caso di attacco, e così Urbino.

In realtà si era risolto tutto in un mezzo nulla di fatto, specie per lui che già a inizio settembre aveva abbandonato il campo di Cascina e adesso, a novembre appena cominciato, si trovava già a Senigallia, nella speranza di recuperare le forze.

Con un paio di sospiri, mentre convinceva il suo corpo a seguirlo verso la finestra, Giovanni si mise a ripensare a suo fratello Bartolomeo, morto da sette anni, e poi a Giuliano, a Roma, sempre sul filo del rasoio, sempre intento a cercare potere e fortuna...

Giuliano, tra tutti i suoi fratelli, era l'unico, secondo lui, che avesse davvero la stoffa per fare carriera in Vaticano. Se solo non fosse stato per i Borja...

Con un colpo di tosse, secca e rabbiosa, Giovanni aprì la finestra e guardò fuori, verso il cielo che si era ingrigito parecchio e prometteva pioggia. Per essere il 6 novembre, comunque, il clima era abbastanza mite. L'aria fredda lo colpì in pieno, facendolo sentire vivo, ma portandolo anche a fare un passo indietro, per sottrarvisi.

Mentre faceva così, pensò a Luchina, sua sorella. Aveva sei anni più di lui, ma Giovanni l'aveva sempre vista come una donna anche quando erano bambini. Ricordava ancora bene lo sconforto, quando era rimasta vedova del primo marito, Garra Della Rovere, ma ricordava altrettanto bene la determinazione cieca con cui era andata poi a Lucca, a sposare in seconde nozze Giovanfrancesco Franciotti, un banchiere ricco come un re.

Mettendosi a sedere sul letto, con uno strano peso sullo stomaco, l'uomo si portò una mano alla fronte, trovandosi sudato.

Avvertiva un'agitazione che non capiva, e sentiva il cuore battere veloce e le orecchie fischiare. Se non fosse stato in perfetto riposo, avrebbe potuto imputare quelle reazioni a uno sforzo fisico improvviso.

Cercando di distrarsi e quindi calmarsi, dedicò un pensiero a sua figlia Maria Giovanna. Non la vedeva da troppo tempo... Forse sarebbe stato il caso di andarla a trovare, finché il clima di novembre lo permetteva... Con le prime nevi, arrivare fino a Camerino sarebbe diventato difficile, per lui...

Ricordò l'ultima lettera che la figlia gli aveva spedito. Confidava ancora nel suo aiuto, ma ormai era disillusa nei suoi confronti, lo aveva capito più che bene. Non riusciva a perdonarlo, per averla consegnata anima e corpo a quel perdigiorno di Venanzio da Varano.

Con un altro colpo di tosse, mentre l'agitazione lo portava a rimettersi in piedi e muoversi un po' per la stanza, l'uomo si disse che, dopotutto, Venanzio era nelle mire dei Borja, come il fratello e il padre, come, in effetti, tutti i signori del centro Italia. Di certo l'avrebbe ucciso, prima o poi, o fatto prigioniero... In quel momento lui avrebbe mediato la liberazione della figlia e le avrebbe trovato un buon marito, qualcuno, questa volta, che le piacesse... Tanto, si era visto, venderla ai Varano non era servito a granché, a fini politici...

Mentre si chiedeva chi potesse rivelarsi un buon secondo marito per la sua povera figlia, Giovanni sentì una fitta fortissima alla testa, per un istante vide tutto rosso e poi crollò in terra.

Prima di sera, Giovanni Della Rovere venne ricomposto e vestito con il saio francescano del Beato Giacomo della Marca. Nessuno aveva dubbi sul fatto che quell'abito fosse l'unico con cui il defunto avrebbe voluto essere sepolto: si trattava niente meno che della reliquia più importante che gli aveva regalato, anni prima, lo zio papa, Sisto IV.

Le esequie si tennero nella chiesa di Santa Maria Maddalena, e poi, mentre partivano le prime luttuose lettere verso il Vaticano, Camerino, Firenze e il resto d'Italia, il corpo del quarantaquattrenne Giovanni Della Rovere venne tumulato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, sempre in Senigallia, dinnanzi a una folla disperata intenta a piangere un uomo che, malgrado le sue mancanze, era stato per tutti il migliore dei signori.

 

Dal giorno in cui era stata al palazzo del Medici, Caterina si era fatta inquieta. Non sapeva come leggere le parole che Lorenzo le aveva sibilato al momento di salutarsi, e viveva in bilico tra due opposte tentazioni.

Da un lato avrebbe voluto chiedere immediatamente di poter incontrare suo figlio Giovannino, per assicurarsi che stesse bene e che fosse ancora là dove lo aveva lasciato l'ultima volta. Dall'altro aveva il terrore che, andando al convento di Annalena, qualcuno l'avrebbe seguita, per conto del Popolano, per aver conferma dei dubbi sulla reale ubicazione del piccolo.

Così, come se quell'impasse non potesse essere superato in altro modo se non con l'attesa, la donna aveva deciso di aspettare che succedesse qualcosa o che le arrivasse qualche notizia, senza, nel frattempo, fare nulla.

Aveva anche cercato di distrarsi il più possibile, convincendosi che, in fondo, non aveva senso continuare a consumarsi attorno allo stesso pensiero per tutto il giorno. L'unico modo che aveva trovato per ritagliarsi qualche mezz'ora di pace era stato avvicinarsi di più ai figli. Ne seguiva uno per volta, come se fossero una qualche pozione da prendere a piccole dosi, e, per il momento, aveva evitato Ottaviano con il quale sentiva di aver già passato abbastanza tempo al palazzo di Lorenzo.

Si rendeva conto che aveva davanti una buona occasione per tentare di appianare un minimo le divergenze anche con lui, eppure l'idea di passarci assieme del tempo la metteva troppo a disagio.

Per lo stesso motivo era quasi contenta che suo figlio Cesare fosse a Pisa e non lì a Firenze con loro, perché anche nel suo caso, benché il rapporto con lui fosse diverso rispetto a quello che aveva con Ottaviano, avrebbe fatto molta fatica a fingersi ben disposta nei suoi confronti.

Si era quindi concentrata sugli altri. Aveva passato volentieri del tempo con Bianca, facendole compagnia mentre ricamava o rammendava, scambiando qualche parola di tanto in tanto, senza che ci fosse un reale bisogno di riempire i silenzi. L'unico argomento importante che aveva affrontato con lei era stata la somma che i Baldi le avevano prestato. La Riario era stata d'accordo con lei di non spenderli, per il momento, ed eventualmente di usarli, appena fosse stato prudente farlo, per licenziare l'attuale servitù e sostituirla, svincolandosi così in parte dal Medici.

Con Galeazzo la Sforza si trovava da sempre a suo agio. I momenti trascorsi con lui erano tra i più appaganti, come madre e come donna d'armi. Il giovane Riario era ricettivo e ascoltava i suoi consigli assorbendoli come una spugna. Si esercitava davanti a lei, per avere il suo parere sul suo stile di scherma e le faceva molte domande di strategia e tattica alle quali lei rispondeva con entusiasmo. Il velo di malinconia che la prendeva, quando si rendeva conto di aver avuto sempre sottomano il figlio giusto da avere accanto in guerra e in pace, alla guida di uno Stato, e di non averne potuto trarre sostegno al momento giusto per la troppo giovane età, era l'unica pecca delle ore trascorse con lui.

Anche trascorrere dei momenti con Sforzino era stato tutto sommato semplice. Il ragazzino non era avvezzo ad avere l'attenzione della madre, e quindi in sua presenza si dimostrava abbastanza trattenuto. Trovò, però, in lei un'ottima interlocutrice, perché la cultura della Tigre, tenuta sotto la cenere per così tanto tempo, ebbe modo di riaffiorare e bruciare di nuovo nel colloquiare con lui che, malgrado tutte le traversie della sua breve vita, era riuscito a soli quattordici anni ad avere delle conoscenze notevoli, specie in campo agiografico e teologico.

Bernardino, invece, le si era fatto sfuggente, e, allo stesso tempo, lei per prima aveva praticamente cercato di lasciarlo per ultimo, nella sua immaginaria lista di figli a cui avvicinarsi.

Il vero problema, con lui, come sempre, era che la sua vicinanza le portava una strana agitazione che, unita all'inquietudine di fondo che la tormentava, l'avrebbe di certo fatta stare peggio. Dopo un po', però, si era resa conto di non poter continuare a lungo a trascorrere in modo tanto evidente del tempo con tutti gli altri – eccetto Ottaviano – e non con Bernardino. Il piccolo Feo se n'era accorto, inutile fingere che non fosse così, e la sua irrequietezza crescente dimostrava quanto l'apparente indifferenza della madre lo stesse ferendo.

Così quel pomeriggio, poco dopo pranzo, Caterina lo cercò con il chiaro intento di parlare un po' con lui o anche solo di stargli vicino mentre lui continuava a fare quello che stava facendo.

Lo trovò, con un po' di fatica, nei locali della servitù, o, per meglio dire, vicino alla porta di servizio da cui venivano portati via gli scarti della cucina e consegnate le nuove derrate alimentari.

“Per fortuna sei qui e non dentro la cucina...” disse piano la donna, quando incrociò il figlio che, le guance arrossate per il freddo di quell'inizio di novembre, la guardò un po' sulla difensiva: “Non mi piace molto – spiegò lei – perché qui... Non è Ravaldino. Non ho la stessa confidenza, con la servitù...”

“Nemmeno io.” sussurrò lui, avvicinandosi di mezzo passo.

Sotto la luce fredda del sole pallido di quel pomeriggio, il bel viso del quasi undicenne Bernardino era di una bellezza difficile da negare, una bellezza che alla Leonessa ricordò in modo doloroso il suo Giacomo.

Guardando altrove, improvvisamente rabbuiata, la milanese si prese qualche secondo per riordinare le idee, ma il ragazzino lesse in modo scorretto quell'atteggiamento e, prima che lei potesse fermarlo, provò ad andarsene.

“Aspetta..!” lo richiamò lei: “Aspetta... Volevo stare un po' con te... Se non ti do fastidio, ovviamente.”

Il Feo si fermò di colpo e, voltandosi appena, chiese, speranzoso: “Cosa volete che facciamo?”

“Ti va se ti insegno qualche trucco con il coltello?” propose lei, cercando di prenderlo dal lato che più facilmente avrebbe saputo gestire.

Mentre il ragazzino annuiva, felice di quella prospettiva, la madre occhieggiò un momento alle sue spalle, verso il corridoio che portava ai locali della servitù. Era stato solo un attimo, eppure era stata certa che qualcuno li stesse osservando.

“Useremo... Dei pezzi di legno, dei legnetti... O qualcos'altro...” disse Caterina, cercando di scorgere se vi fosse ancora qualcuno in ascolto: “E andiamo in camera mia... Non voglio che ci vedano con armi vere...” sussurrò, appena udibile.

Il figlio non fece commenti, ma la seguì subito dentro la villa e, da lì, alla sua stanza. Di rado il piccolo Feo c'era entrato, perciò si guardò attorno con attenzione. Ricordava poco la camera che sua madre occupava a Ravaldino perché era ancora meno accessibile dell'attuale, per lui e per gli altri figli, tuttavia si rendeva ugualmente conto di come quella alla villa fosse meno spartana e più spaziosa.

“Malgrado il freddo, avrei preferito restare fuori...” disse piano la Sforza, non appena chiuse la porta alle loro spalle: “Ma meglio che non ci vedano troppo... Hanno il terrore che io mi stia organizzando per fare qualcosa di violento...”

“Ed è così?” il ragazzino aveva posto quella domanda con una sorta di tono speranzoso.

Sorpresa, la madre lo fissò per un lungo istante, rendendosi conto che, nonostante il suo spirito ribelle, Bernardino era ancora un bambino. Magari si augurava davvero che sua madre avesse in serbo qualche azione drastica, ma difficilmente ne avrebbe capite le implicazioni.

“No, non sto organizzando proprio nulla di violento...” dovette deluderlo lei.

Il Feo sporse in fuori il labbro, ma non obiettò. Si fece pensieroso, tanto che la Leonessa decise fosse tempo di distrarlo. Afferrando la prima cosa dalla forma appena passabile che le capitò sottomano – ossia una delle penne che teneva sulla scrivania, lo incitò a prestare attenzione.

“Non sarà un pugnale vero – ammise – ma i movimenti che voglio insegnarti li puoi imparare anche impugnando questo...”

Per oltre un'ora, madre e figlio discussero e provarono affondi e schivate, senza pensare a nient'altro. Caterina svelava con pazienza tutti i trucchi che aveva fatto suoi negli anni, senza paura di suonare ripetitiva, dato che, nell'uso delle armi come in molti altri campi, era convinta che fosse meglio ripetere una cosa una volta di più che una volta di meno. Di contro, Bernardino, che nel suo piccolo aveva già avuto modo di usare qualche piccola arma per difendersi, la mise a parte di alcune sua strategie, che la donna trovò abbastanza ingegnose da lodarle apertamente.

A un certo punto, un po' accaldati e stanchi, entrambi si sedettero sul letto, abbandonando il finto pugnale sulla scrivania. Riprendendo fiato, tutti e due permisero alle loro menti di vagare e, quando parlarono, quasi a tempo, si resero conto che i loro pensieri avevano preso due vie molto differenti.

“Così adesso ti fai chiamare da tutti Carlo...” disse la Tigre.

“Com'è uccidere un uomo?” fu invece la domanda del figlio, che si sovrappose alla costatazione della madre.

La potenza di quella domanda risvegliò in Caterina il ricordo di quando Bianca le aveva chiesto di insegnarle come uccidere un uomo. Il tono era diverso, certo... La Riario aveva preteso di conoscere la tecnica, senza minimamente porre, almeno in modo palese, un quesito morale o anche solo un dubbio su cosa si provasse nel mettere in pratica ciò che chiedeva di imparare.

“Cosa si prova?” insistette Bernardino, puntando gli occhi ancora così infantili, eppure anche troppo disillusi, in quelli della madre.

La Tigre rimase in silenzio per un po' e poi, accigliandosi, tentò di rispondere con sincerità: “Non è una sensazione che vorrei che uno dei miei figli provasse.” mentre il ragazzino schiudeva le labbra, forse per obiettare con valide argomentazioni, la donna lo anticipò: “Mi rendo conto, però, del mondo in cui viviamo, e allora preferisco pensare che i miei figli proveranno cosa significa uccidere, piuttosto che essere uccisi.”

Quella risposta diede al Feo qualcosa su cui arrovellarsi, e alla Sforza una manciata di minuti per schiarirsi un po' le idee e cercare un nuovo argomento che andasse a spegnere il precedente.

“Come ti trovi, qui?” chiese alla fine la Leonessa.

Bernardino, con un sospiro, sollevò per un istante le spalle e poi confessò: “Mi manca girare per le strade di Forlì... Avevo tanti amici, lì. Adesso, se solo potessi...”

“Firenze non è così vicina.” gli ricordò la madre: “E non la conosci... Sarebbe pericoloso, se ti lasciassi andare in giro da solo in città. È molto più grossa di Forlì, tanto per cominciare, e poi ci sono delle persone che potrebbero volerti fare del male...”

“Anche a Forlì c'erano.” fece notare lui: “Mi odiavano perché ero figlio di mio padre.”

La milanese deglutì, rendendosi conto forse per la prima volta, di quanto avesse rischiato a lasciare che il suo settimo figlio vagasse per anni perfino nei bassifondi senza una valida protezione al seguito.

“Io vorrei solo poter...” riprese il piccolo, passandosi una mano tra i capelli morbidi, un po' più chiari di quanto non fossero stati quelli di Giacomo: “Io ho bisogno di...”

“Capisco la tua voglia di andare, di non stare fermo...” lo aiutò Caterina, cercando di interpretare al meglio le sue reticenze: “In parte... In parte è un problema che ho anche io.”

Siccome il Feo la squadrava con aria perplessa, come se non riconoscesse nella madre la sua stessa smania, la Leonessa si sentì chiamata ad aprirsi con lui, anche se, forse, non l'avrebbe capita del tutto.

“Prima di tutto – iniziò a dire – comincio a fare fatica a stare da sola. Vorrei avere un uomo, ma ho paura a provare a cercarlo tra quelli che posso avvicinare.”

Il ragazzino non disse nulla. Dal modo in cui rimase in silenzio, la Tigre immaginò che avesse capito quella sua dichiarazione molto più di quanto si aspettava potesse fare un undicenne.

Senza lasciarsi scomporre, riprese: “In secondo luogo, stare lontana dalla vita militare mi avvilisce, mi fa sentire inutile, mi fa... Mi sento come se fossi una pianta, immobile e inerte, quando fino a poco fa ero una belva feroce, pronta a sbranare e graffiare.” assicuratasi che Bernardino non avesse nulla da dire in merito, riprese: “E poi... Sto morendo dalla voglia di andare in quel bosco.”

Siccome la Sforza aveva indicato vagamente alle sue spalle, il Feo comprese che si stava riferendo al boschetto che circondava in gran parte la villa.

“E allora andate, madre.” lo incitò lui: “Nessuno può impedirvelo... Quel bosco è di pertinenza della villa.”

“Lo sai che non posso.” lo frenò lei: “Non posso nemmeno usare il vaso da notte una volta in più senza che Lorenzo Medici lo sappia. Cosa credi che accadrebbe, se andassi in un bosco?”

In realtà ci aveva pensato, e tante volte, e si era detta che, forse, andandoci di notte avrebbe rischiato meno. Si era poi arresa davanti al fatto che quel bosco per lei era sconosciuto. Nel suo ci sarebbe andata senza problemi, dato che lo conosceva palmo a palmo, tanto che, anche a distanza di quasi due anni, avrebbe potuto descriverlo nel dettaglio. Lì a Castello, invece, non conosceva l'orografia, né le bestie che abitavano quei luoghi... Non aveva nemmeno più la splendida lancia da cinghiale che le aveva regalato Giovanni...

Poiché il bambino si era rabbuiato, messo davanti alla cruda realtà, la donna provò a raddrizzare la barra.

Accarezzandogli lentamente la fronte, gli sussurrò: “Sei ancora piccolo... Vedrai che col passare del tempo la nostra situazione migliorerà e potrai andare dove preferisci e quando preferisci... Per il momento promettimi che cercherai di stare tranquillo...”

“E voi promettetemi che andrete nel bosco non appena ve lo permetteranno.” rilanciò lui.

“Come mai tutta questa solerzia nello spedirmi nel bosco?” chiese la Tigre, quasi divertita.

“Perché siete triste.” rispose Bernardino, con grande serietà: “A casa, quando eravate triste, andavate nel bosco, e, spesso, poi, stavate meglio.”

Davanti a quella che lei stessa risconosceva come una gran verità, la milanese fece un breve sorriso e si apprestò a dire qualcosa, senonché il bussare nervoso di qualcuno alla porta la distrasse.

“Aspetta un momento.” bisbigliò al figlio e poi, alzandosi e andando all'uscio, chiese: “Chi è?”

La voce di Creobola rispose: “Hanno appena consegnato una lettera per voi, mi hanno detto di darvela il prima possibile...”

Perplessa, Caterina aprì e prese il messaggio, ringraziando la serva che, curiosa, lanciò uno sguardo verso Bernardino, per poi ritirarsi di buonagrazia non appena la Sforza le ordinò di andarsene.

Rimettendosi seduta sul letto, facendo mille congetture sul mittente e sul contenuto, la Leonessa si rese conto all'improvviso che quella missiva arrivava da Roma. Temendo brutte notizie o nuovi problemi e chiedendosi come mai Fortunati non fosse stato il naturale intermediario per quella spedizione, spezzò il piccolo sigillo e si apprestò a leggere.

Bernardino sbirciava, accanto a lei, ma non lo riprese, tanto era concentrata su ciò che stava scritto sul foglio bianchissimo.

A scrivere era stato Giuliano Della Rovere, cugino di Girolamo Riario. Erano anni che Caterina non aveva a che fare direttamente con lui...

La metteva a parte della morte del di lui fratello, Giovanni Della Rovere. Era un messaggio breve, stringatissimo, ma finiva con un chiaro appello all'essere uniti, tra familiari, e al volersi sostenere a vicenda nei momenti difficili.

Richiudendo lentamente il messaggio e ignorando, involontariamente, lo sguardo interrogativo del figlio, la Leonessa mise in moto il cervello e poi sussurrò, più a se stessa che a Bernardino: “Forse a Roma non abbiamo solo Raffaele, su cui contare...”

 

Era da quasi un'ora che Maria Giovanna Della Rovere cercava di origliare cosa si stesse dicendo nel salone, ma non era ancora riuscita ad avvicinarsi abbastanza alla porta per poter carpire qualcosa che andasse oltre un paio di parole.

Qualche giorno prima era arrivata una notizia importante, se n'era accorta benissimo, ma non aveva trovato il modo di capire cosa fosse successo. Aveva fatto del suo meglio per indurre i servi a riferirle quanto ascoltato per caso nelle stanze di suo suocero, Giulio Cesare, o di suo marito, Venanzio, ma nessuno di loro era stato collaborativo, anzi, dopo un po' la donna aveva deciso di non chiedere più nulla, per paura che i domestici andassero a riferire della sua curiosità proprio ai diretti interessati della sua piccola e infruttuosa indagine.

Quel giorno, quando aveva visto arrivare al palazzo i tre figli naturali a cui suo suocero era più legato, aveva capito che si sarebbe discusso proprio della novità di cui lei non riusciva a sapere nulla e così si era fatta attenta.

Annibale da Varano era stato il primo a raggiungere il padre e il fratellastro Venanzio nel salone e, subito dopo, era accordo Pirro, appena quindicenne, ma già molto addentro agli affari di famiglia.

Per ultimo, guardingo e misurato come sempre, era rimasto Giovanni Maria, ventenne. La Della Rovere era sicura che lui l'avesse intravista, mentre tentava di nascondersi dietro l'angolo formato dal corrimano delle scale, ma, benché questa consapevolezza accrescesse la sua ansia, non aveva demorso ed era rimasta in zona sperando di sentire qualcosa.

“Al diavolo!” sentì gridare a un certo punto suo marito Venanzio: “Siete voi che me l'avete fatta sposare!”

Di colpo, Maria Giovanna si rese conto di essere al centro della discussione di cui non riusciva a sentire nemmeno una parola. Non avrebbe saputo dire nemmeno lei perché, ma ebbe paura, una paura tanto forte e irrazionale che avrebbe voluto scappare subito. Sarebbe stata pronta anche ad abbandonare i suoi due figli, la piccola Battista e Sigismondo, che aveva sì e no due anni. Di loro, anche se soffriva nell'ammetterlo, non gliene importava granché. Erano solo una propaggine di Venanzio, un qualcosa che non le apparteneva davvero, quasi due puledri d'allevamento, che lei aveva nutrito e accudito, ma verso cui non provava un trasporto maggiore di quello di un allevatore verso l'ultimo cucciolo nato.

Mentre la diciannovenne era ancora in bilico tra il provare davvero a scappare – eludere le guardie non sarebbe stato semplice, ma nemmeno impossibile – e il restare e scoprire davvero cosa fosse successo e cosa c'entrasse lei, la porta del salone si spalancò di colpo e ne uscì Venanzio, furibondo.

“Sbagli a reagire così!” lo inseguì il padre, che, anche a causa del suoi sessantasette anni, molti dei quali passati in battaglia, zoppicava vistosamente quel giorno: “Anche se Giovanni Della Rovere è morto, non significa che lei non valga più nulla!”

La Della Rovere sentì il cuore mancare un colpo. Suo padre era morto? Quando? Se era la sua morte, la notizia che aveva messo in agitazione da giorni i Varano, probabilmente da un po'...

Perché nessuno si era preso il disturbo di comunicarle una notizia così importante?

“Quell'uomo era l'unica cosa che ci permetteva di avere un cuscino tra noi e Giuliano Della Rovere, e non urtarci troppo con i Borja.” riassunse Giovanni Maria che, dall'espressione truce che aveva in volto, doveva essere d'accordo con Venanzio, pur non mostrandosi altrettanto rabbioso: “Far sposare a mio fratello quella donna è stato un errore fin da subito, ma adesso è addirittura un pericolo.”

“E allora che intendete fare? Ammazzarla?!” sbottò Giulio Cesare, ignaro che la nuora stesse ascoltando ogni singola parola.

“Le donne sono fragili per natura... Diremo che ha avuto un malore e...” provò a ipotizzare il quindicenne Pirro, per nulla affranto all'idea di perdere la cognata.

“E far ricadere su di noi l'ombra del sospetto?!” lo interruppe bruscamente il capofamiglia: “Voi vi spaventate tutti al nome del Valentino, ma nemmeno Giuliano Della Rovere scherza!”

“Mettila incinta.” propose a quel punto Annibale, rivolgendosi a Venanzio: “Aspettiamo qualche mese, le diamo una spinta al momento giusto e poi diciamo che è morta per un aborto... Sono cose che capitano...”

“Se fosse davvero incinta, sarebbe l'unico motivo che mi tratterrebbe dall'ammazzarla.” dichiarò, furente, il marito di Maria Giovanna: “Non ammazzerei mai il sangue del mio sangue.”

“Questo è parlare in modo saggio.” convenne Giulio Cesare.

Mentre i quattro Varano si rimettevano a parlottare a voce più bassa, nell'ombra del suo angolino, la Della Rovere si posò una mano sul ventre. Era da un paio di settimane che aveva il dubbio di essere incinta, e aveva già pianto più di una notte per colpa di quel dubbio. Improvvisamente, ora, l'idea di poter essere davvero di nuovo gravida di suo marito le sembrava una scialuppa mandata dal fato, un qualcosa a cui aggrapparsi strenuamente.

Mentre con passo lento e silenzioso si allontanava, nauseata dalle brevi frasi che riusciva ancora a sentire, la donna si ritirò nella sua stanza. Pensò, ragionò e valutò ogni cosa, e alla fine decise di giocarsi l'unica carta che aveva in mano.

Se solo fosse stata più vicina a Roma, avrebbe potuto tentare di scappare da suo zio Giuliano. Per lei era un mezzo sconosciuto, e non le era mai piaciuto, ma sapeva quanto fosse attaccato a suo padre, tanto da definirlo spesso il suo 'fratello più amato'. Di certo, in memoria del defunto Giovanni, non avrebbe tradito la fiducia della sua primogenita.

Invece era relegata lì a Camerino, nella casa di suo marito, guardata a vista da decine di soldati e altrettanti servi che non aspettavano altro se non di metterla in difficoltà.

Quella sera non cenò, lasciando detto di avere un po' di nausea, cosa, per altro, abbastanza vera e retaggio delle emozioni sgradevoli provate quel giorno.

Si aspettava una visita del marito, quella notte. Aveva immaginato subito che Venanzio avrebbe voluto farla finita il prima possibile, per non doverci pensare più...

Quando il venticinquenne le arrivò alle spalle, la Della Rovere non si mosse, restando seduta davanti al piccolo specchio in cui la sua immagine veniva riflessa come quella di uno spettro.

Fingendosi deciso a pretendere la sua compagnia – come faceva le notti in cui non trovava di meglio o in cui si ricordava che da una moglie si potevano avere figli maschi legittimi per rafforzare il proprio casato – Venanzio camminò verso di lei e le posò le mani sulle spalle.

Maria Giovanna lo guardò per un breve istante nel riflesso, non riuscendo a scorgerne il volto.

Sentiva la pressione delle sue dita, sulla sua pelle lasciava nuda dall'abito un po' scollato, e si accorse che cresceva via via sempre di più. Avvertì un brivido mentre le mani di Venanzio scivolavano lentamente dalle spalle verso il collo e, giusto un istante prima che il Varano potesse cominciare a stringere davvero, deglutì e parlò.

“Sono di nuovo incinta.” gli disse.

Non usò parole come 'credo' o 'potrei'. Non volle per nessun motivo lasciare adito a dubbi. Suo marito doveva essere certo che nel suo ventre stesse crescendo un nuovo piccolo parassita, un nuovo erede dei Varano...

All'istante, come se si fosse scottato, Venanzio lasciò la presa e fece un passo indietro.

“Ne sei sicura?” chiese, con la voce roca.

“Sì.” mentì lei.

L'uomo si grattò il mento, pensieroso, e poi si allontanò ancora un po', andando verso la porta.

“Aspetta...” sussurrò lei.

Lo stomaco le si rivoltò, ma non poteva fare altrimenti. Non era davvero sicura di essere incinta e, se si fosse poi scoperto che non la era, tutto il suo progetto sarebbe andato a farsi benedire. Se voleva davvero avere davanti a sé qualche mese per pensare a come muoversi o per cercare qualcuno che la proteggesse portandola via da lì, doveva fare in modo che un piccolo Varano nascesse davvero.

“Che c'è?” chiese lui, secco.

“Non voglio restare sola, questa notte...” in cuor suo, malgrado fosse determinata a portare avanti punto per punto il suo piano, Maria Giovanna sperò che il marito le si negasse con una qualche scusa.

Venanzio, invece, stanco per il lungo discutere con il padre e i fratelli, e reso pigro dal freddo di novembre, non aveva voglia di perdere tempo a cercarsi un'altra donna per la notte e, nemmeno, voleva rinunciare a qualcuno che gli si offriva così palesemente.

Senza aspettare altro, l'afferrò per un braccio e la portò verso il letto. Fu meno brusco del solito, ma solo per non compromettere una gravidanza che avrebbe potuto portargli un nuovo figlio maschio, ma per Maria Giovanna fu comunque il ripetersi dello stesso incubo che la tormentava fin da quando si erano sposati.

Quando finalmente Venanzio se ne andò, senza dire una parola, la Della Rovere, mortificata e stanca, si avviluppò nelle coperte, senza prendersi il disturbo di cercare la veste da notte e cercò di dormire.

Nel dormiveglia, senza che quasi ne fosse cosciente, si sciolse in un pianto caldo e silenzioso, che andava parimenti a spegnere il ricordo del padre, tanto amato, quanto odiato, e la repulsione per quello che aveva volontariamente cercato da suo marito.

Quando finalmente si addormentò, il suo guanciale era intriso di lacrime e il suo cuore si era fatto minuscolo e adamantino. Gli incubi di quella notte furono confusi e difficili da ricordare, ma tutti, nessuno escluso, finivano nel medesimo modo: con Venanzio da Varano trafitto dalla lama di mille spade.

   
 
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