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Autore: muffin12    18/10/2021    2 recensioni
Uno studente in cerca di lavoro, un neo ristoratore che vuole avviare la sua attività, tre panchinari in attesa di un'occasione per svoltare entrano in un bar. Solo che il bar è Onigiri Miya e la barzelletta è troppo vicina alla realtà per essere veramente divertente.
Finite le superiori si entra nel mondo reale. E il mondo reale è pronto per ucciderti.
Storia di come Sakusa sia riuscito a superare l'università, di come Osamu abbia messo in piedi il suo marchio e di come Atsumu, Suna e Komori siano diventati titolari.
Pairing: SakuAtsu, OsaSuna e accenni di inizio OsaSunaKomori.
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Motoya Komori, Osamu Miya, Rintarō Suna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Anno 4

Sakusa stava avendo problemi a capire con esattezza la totalità della situazione in cui si trovava.
 
Aveva la disagevole impressione di essere inciampato in uno di quegli episodi da sit-com in cui tutti si impegnavano a fare gli stupidi, ci riuscivano perfettamente e il tutto era condito da risate fintissime odiose, perché alla fin fine la battuta non era poi così divertente da scatenare effettivamente quelle vere.
 
Non gli erano mai piaciuti quei programmi. Li vedeva, era costretto. Sembrava che, a volte, in televisione ci fossero solo quelli.
 
Per sua sfortuna, aveva questo comportamento maniacale che lo spingeva a terminare ogni serie che cominciava anche per sbaglio, creando non pochi problemi alla sua psiche quando non erano ancora concluse o, peggio, non venivano direttamente rinnovate. Era orribile dover far fronte a quella consapevolezza e, proprio per questo, preferiva qualcosa che lo coinvolgesse in altra maniera.
 
I drama coreani, ad esempio. O quelli americani. Reality. Programmi che sarebbero andati avanti per secoli o che avevano un termine preciso. Fulgidi esempi di società andata in malora.
 
Era appagante finire una puntata e sentirsi a posto con sé stesso pensando che, se c’era gente che nel mondo si comportava in modo così sopra le righe ed aveva il coraggio di ritenerlo accettabile, allora, tutto sommato, la sua personalità all’antrace non era proprio da buttare nel secchio.
 
Lo rimetteva a suo agio con tutto. Si sentiva anche più caritatevole verso il prossimo, concedendo al suo vicino di banco della lezione del lunedì all’alba, ad esempio, di continuare a toccargli insistentemente la gamba della sedia. Non lo faceva apposta, ne era consapevole, ma se avesse trovato il modo di rimanere fermo al suo posto per più di quattro secondi forse Sakusa avrebbe smesso di fantasticare di infilzargli la coscia con la sua matita appuntita per l’occasione.
 
Tuttavia, i problemi di cui parlava erano più vicini di un estraneo iperattivo dell’università.
 
C’era un centrale di Tokyo che gli mandava meme ininterrottamente, non riuscendo a capire quando fermarsi. O non importandogli, probabilmente. Ovviava alla sua richiesta di smetterla chiedendo se a Motoya piacessero i lacci di liquirizia e se, in caso, avrebbe reagito bene ad una confezione extra lusso di sushi assortiti del loro ristorante preferito. Informandosi inoltre, in modo assiduo ed oppressivo, su come far smettere suo cugino di passare da un fiore all’altro e prendere, invece, lui e la sua degna metà (o un terzo, in questo caso?) in considerazione. O, almeno, di dargli il ben servito finale.
 
Poteva sembrare poca cosa. In fin dei conti poteva ignorarlo, silenziare il suo numero, inserire nello spam. Lo faceva, in situazioni particolari.
 
Ma il suo datore di lavoro aveva caricato il colpo. E lui non poteva eliminarlo dalla sua vita multimediale e cibernetica, sfortunatamente.
 
Osamu lo guardava con sospetto da mesi, lo chiamava traditore (aveva dedotto che non fosse il vincitore della famosa scommessa) e cercava di carpire informazioni su suo cugino. Non in modo delicato.
 
Sakusa aveva imparato che, quando Osamu cominciava ad aggrottare le sopracciglia fissandolo da sotto le sue palpebre pesanti, stava per arrivare una domanda che non gli avrebbe fatto piacere. Anche perché la gente era sicura fosse Atsumu quello senza filtri tra i due, ma mentre il suo ragazzo semplicemente non pensava e dava aria alla bocca, Osamu aveva l’aggravante di riflettere, prima di dire alcunché. Per lui era infinitamente peggio.
 
Quindi, a parte evitarlo come un appestato dopo avergli chiesto con aria profondamente seria “Motoya ha mai pensato al sesso a tre?” ed aver continuato, dopo un suo verso indignato e sofferente, “Sakusa-kun, è una cosa seria. Può spaventare.” in una sorta di momento cuore a cuore che Sakusa non aveva neanche subodorato, non poteva fare più di tanto.
 
Era un suo dipendente. Lo pagava. Lo pretendeva durante i colloqui, perché, a detta sua, se i candidati non fossero scappati a gambe levate per la sua aura negativa e la faccia da serial killer, avrebbero resistito a qualunque altra cosa.
 
In effetti la nuova arrivata, Kaneko Hoshi-san, una cosina piccola e graziosa come il suo nome ma cattiva peggio di un tasso del miele, era stata assunta immediatamente dopo averli scrutati da sotto la sua frangia troppo lunga e aver chiesto con tono scocciato “Dovrei essere colpita?”. Sakusa non si era nemmeno scomposto, riconoscendo all’istante un’anima nera affine, ma Inoue-san aveva squittito, terrorizzato di avere a che fare con un’altra malata di mente.
 
Fortunatamente cucinava da Dio ed era pulita quasi quanto Sakusa stesso, almeno in cucina, quindi Osamu se ne era fregato altamente delle loro impressioni ed aveva salutato la nuova arrivata nella famiglia Onigiri Miya con un sorriso malandrino che da solo preannunciava guai.
 
E, infine, c’era Motoya.
 
Il suo amatissimo cugino aveva deciso, con molta generosità non richiesta, di rendere la vita di tutti un inferno. Compresa la sua.
 
Voleva bene a Motoya, davvero. C’era sempre stato per lui, era Motoya che lo aveva portato per la prima volta a vedere la pallavolo, aveva sempre sopportato le sue idiosincrasie senza battere ciglio. Ma c’era un limite a tutto.
 
Perché, almeno, le sue crisi (quando ancora erano lontane dall’essere tenute sotto controllo) non erano volute, assolutamente. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per farle sparire del tutto. Invece aveva sotto gli occhi suo cugino che cercava di complicarsi l’esistenza come se fosse il suo scopo nel mondo, spezzando cuori e frantumando altro.
 
Davvero, lui non voleva trovarsi in situazioni del genere. Aveva passato anni ad affinare il suo atteggiamento da misantropo, rendendo chiaro sin da subito che non aveva alcun bisogno di interazione sociale per vivere, nella maniera più assoluta. La sua vita era basata sull’evitare di parlare con le persone, in primis per non essere coinvolto nei loro problemi: ne aveva già tanti di suoi, non gli interessavano le paturnie altrui.
 
Ma aveva fatto l’errore di entrare in un locale di cui non si capiva la natura anni prima, si era fatto coinvolgere dal personale e si era messo con il fratello del suo capo, sua privata fonte di mal di testa da competizione.
 
Forse, a conti fatti, era quest’ultimo fatto ad essere il chiodo della sua bara.
 
Perché Atsumu era un problema a sé stante.
 
Scoccò un’occhiata malevola al soggetto dei suoi pensieri più neri, che stava bevendo una brodaglia di proteine, che lui insisteva sapesse di cioccolato, seduto sul divano, cercando di indovinare le risposte di un gioco a quiz in televisione.
 
Forse era davvero lui la causa di tutti i suoi mali, ragionò con sguardo stretto.
 
Se non si fosse messo in mezzo, avrebbe mantenuto il suo distacco naturale e non ci sarebbero state complicazioni.
 
Sarebbe andato a letto senza bloccare il numero di Suna, perché era spaventosamente attivo di notte e Sakusa aveva bisogno del suo sonno di bellezza, altrimenti avrebbe passato una giornata da schifo e avrebbe fatto piangere tanta gente. Avrebbe passato le sue serate senza sentire il tono falsamente allegro di Motoya, con l’occasionale voce maschile o femminile che era riuscito ad avvicinare in chissà quale pub da sfigati frequentasse in quel periodo, cercando di convincerlo che si stava divertendo, ovviamente senza successo. Avrebbe avuto tempo privato per sé stesso senza ascoltare promesse sussurrate e sconcezze ansimanti da una voce calda e da brividi.
 
Quest’ultimo pensiero lo fece rinsavire un attimo dal suo ragionamento scuro, facendogli sbattere le palpebre. No, si disse velocemente, quello gli piaceva.
 
Tuttavia poteva trovarlo altrove, decise ricominciando a guardare male Atsumu. Ovunque. Da qualsiasi parte.
 
Ed era stato un pensiero che aveva sfiorato la sua mente parecchie volte, in quel periodo.
 
Perché Atsumu era convinto che lo avrebbe mollato da un momento all’altro, certo che avesse accettato di far parte di una squadra chilometri lontana da Osaka. Non aveva preso nemmeno in considerazione l’idea di un rapporto a distanza, non lo accettava ed era convinto sarebbe diventato matto a fare la vita di Osamu.
 
Non aveva preso in considerazione neanche che, quando Sakusa lo informò di aver firmato per i Black Jackals con uno sguardo tenero e un raro sorriso sulle labbra, fosse la verità. No, lui era ancora convinto che fosse uno scherzo complicato partorito da chissà quale genio del male.
 
“Non ci credo finché non ti vedo nella palestra e non vieni presentato alla squadra, Omi.” Aveva detto con tono profondamente offeso. “I vostri scherzi del cazzo non funzionano con me.”
 
Il sorriso di Sakusa si era spento, lasciando al suo posto una smorfia arrabbiata che lo portò a mandarlo a cagare e a tornarsene al campus, sperando di trovare la palestra libera da gentaglia o, almeno, un angolo sperduto e isolato, quanto bastava per sfogarsi con schiacciate ad effetto finché non gli fosse passata la voglia di distruggere a sberle la faccia del suo ragazzo.
 
Aveva cercato di convincerlo ad aiutarlo a cercare un appartamento decente con un affitto nelle sue corde e si era sentito dire “Non posso prendere giorni per andarmene chissà dove chissà per quanto tempo. E poi, davvero, è cattivo anche per te chiedermi una cosa del genere.” Aveva messo su un muso tristissimo e aveva preso le sue bacchette. “Sarebbe come vederti andare via.”
 
Ascoltare quelle parole avrebbero dovuto riempirlo di tenerezza come solo lui a volte riusciva a fare, allargandogli il cuore di tre taglie come un Grinch moderno e meno verde, se solo non fossero fuori dal fottuto mondo.
 
Solo i suoi respiri zen lo aiutarono ad evitare di afferrargli la nuca e spingere la sua faccia da schiaffi nella soba con cui stava pranzando, tenendolo fermo fino a che non fosse affogato nel brodo salato e condito di cipollotti. L’immagine inquietante e stranamente appagante insieme dei germogli di soia che vagavano nei suoi polmoni, valeva da sola la repressione che si imponeva con così tanto impegno.
 
Adesso si ritrovava in casa di Atsumu e Osamu per compiere un ulteriore passo. L’ultimo.
 
Vide Atsumu prendere un lungo sorso del suo frullato proteico, scorgendolo a fissarlo insistentemente con la coda dell’occhio. Lo vide battere un paio di volte le palpebre, girarsi verso di lui e sorridergli.
 
“Tutto ok?” Domandò con una dolcezza che veniva fuori poche volte, forse le più importanti. I denti bianchi luminosi appena visibili tra le labbra un po’ socchiuse, quegli occhi bruni rischiarati da gocce dorate calde e dense, la mite abbronzatura della sua pelle, affascinante e accattivante, alterata dai colori chiari della televisione. “Ne vuoi un po’?” Porse lo shaker verso di lui, dondolandolo tra le dita, invitandolo a prenderne un sorso.
 
Sakusa prese un lungo respiro. Perché doveva essere così? Tenero e amorevole un secondo e completamente deficiente quello dopo? Perché doveva esserne così innamorato, dannazione?
 
e, cosa più importante, quando era diventato così patetico?
 
Scosse la testa e lo vide terminare la sua merenda, poggiando lo shaker sul tavolino davanti, lo sguardo di nuovo puntato sulla televisione.
 
Era il momento.
 
Sakusa portò la sua mano nella tasca della felpa e chiuse le dita sul suo futuro. Era freddo, duro, simbolico. Poteva avvertire l’odore metallico da lì e non era sicuro fosse solo una risposta inconscia del suo cervello.
 
Prese un altro respiro e lo sguardo si fece deciso. “Devo darti una cosa.” Mormorò piano, ottenendo immediatamente l’attenzione di Atsumu. Si girò con espressione candida, lo sguardo limpido e Sakusa sapeva già che sarebbe andato tutto a puttane. Andò avanti comunque. “Pensa bene a quello che dirai.”
 
“Mi stai spaventando.” Lo informò sbarrando gli occhi. Prese il telecomando e abbassò il volume quasi del tutto, senza spegnere, e si concentrò di nuovo su di lui. “È successo qualcosa?”  
 
“No.” Sakusa espirò lentamente e tirò fuori dalla tasca qualcosa di tintinnante. Lo teneva tra le dita, stringendolo tanto da non poter scorgere immediatamente di cosa si trattasse, come se non volesse farlo vedere. “Si tratta di queste.”
 
Allentò la presa ed Atsumu riuscì a vedere un mazzo di chiavi, brillante di acciaio lucidato, nuovo, non ancora ossidato. Si irrigidì senza volerlo.
 
Era piccolo, un paio di chiavi in tutto, abbellito da due portachiavi troppo sdolcinati per il suo bene. Atsumu non riusciva a distogliere lo sguardo da loro. “Cosa sono?” Domandò ottusamente improvvisamente teso, come se non si fidasse dei suoi occhi e lo volesse sapere direttamente dalla fonte.
 
Sakusa venne assalito dall’istinto di lanciargli il mazzo in faccia, ma un lento sospiro lo aiutò a soffocare quell’impulso violento che, a volte,  sembrava riuscisse a scatenare soltanto lui.
 
“Sono le chiavi del mio appartamento.” Vide Atsumu guardare tra lui e la sua mano con gli occhi scattanti, un po’ più pallido in faccia. Avrebbe davvero voluto non reagisse così. “Vorrei che le tenessi.”
 
“Perché?” La sua voce era un po’ aggressiva, adesso, le labbra tirate e i canini leggermente in mostra. Si sentiva messo all’angolo e Sakusa si costrinse a non pensare che fosse per un rifiuto personale. “Così ti annaffio le piante ovunque hai deciso di trasferirti?” C’era scherno nella sua voce, ma non riusciva a mascherare del tutto la rabbia delusa di fondo. Quella frase bastò per fargli capire che, a parlare, era solo la stupidità di Atsumu. “Quante ore di treno dovrei farmi per prenderti la posta?”
 
“Nessuna, cazzo!” Scattò finalmente Sakusa, alterato quanto lui. “Non so più come dirtelo, non me ne vado. Ho firmato con i Black Jackals da settimane, ormai, e da settimane cerco di convincerti che è tutto vero. Le vuoi queste chiavi, sì o no?”
 
“Dimostramelo.” Ringhiò Atsumu, sporgendosi verso di lui. Sakusa non lo accettò più.
 
“Non ti devo dimostrare proprio niente.” Armeggiò con il piccolo mazzo tra le sue mani, incespicando nell’anello che tratteneva i due portachiavi. Una volpe e una donnola, insieme. Non se li meritava, decise, scuotendo la testa e liberandoli dal gruppo, non si meritava proprio niente.
 
Li staccò, lanciandogli le chiavi sul grembo e dondolandogli i portachiavi davanti al naso. “Questi?” Glieli fece vedere bene, due piccoli animali di pezza che sorridevano senza motivo, lo sguardo vacuo e denso di cotone. Li strinse nel pugno così forte che le nocche sbiancarono. “Te li sei giocati.”
 
Atsumu batté le palpebre, prendendo morbidamente le chiavi ora nude. Sembrava sgonfiato dalla sua reazione, come se fosse lui quello ferito. “Cosa?” Domandò con un filo di voce.
 
“Eravamo io e te, ma a quanto pare sei un coglione.” Sakusa si alzò veloce, andando verso l’ingresso per mettersi le scarpe. Sentiva calore alle tempie, sentiva gli occhi pizzicare, sentiva i nervi tesi e sensibili e voleva solo spaccare qualcosa.
 
“Che fai?” Urlò Atsumu dal divano ed in quel momento poté scorgere la preoccupazione nel suo tono. Sakusa sentì le molle scricchiolare per i movimenti bruschi e si sbrigò a raggiungere la scarpiera. “Non abbiamo finito!”
 
“Non ho più niente da dirti finché non cambi quel cazzo di pensiero.” I lacci non volevano saperne di annodarsi, le mani tremavano troppo e le dita li tenevano goffamente, intrecciandoli male e lasciandoli scivolare dalla presa traballante. Sakusa li lasciò andare e strinse le mani in pugno, respirando profondamente per cercare di calmarsi. “Non è detto nemmeno che dopo voglia parlarti.” Riprese le stringhe e rapidamente le legò in un nodo mal fatto ma resistente.
 
“Andiamo Omi!” Sentì i suoi passi risuonare dietro di lui, talloni sul pavimento pesanti e veloci, di fretta. Sakusa si alzò rapido e afferrò la sciarpa. “Parliamone a cena, ci sono gli onigiri che ti piacciono.”
 
“Strozzatici.” Sibilò Sakusa, la voce acrimoniosa soffocata da strati di lana spessa. Afferrò il cappotto e lo infilò con movimenti secchi, senza preoccuparsi di chiuderlo.
 
Vide con la coda dell’occhio Atsumu guardarlo, le spalle cadenti e sconfitte, la tristezza chiaramente visibile negli occhi. “Dove stai andando?” Mormorò a voce bassa, ma arrivò alle sue orecchie chiaro e forte.
 
Non si girò, stavolta. Non voleva. Non avrebbe ceduto a quella faccia, non lo avrebbe accontentato. Quella situazione era andata anche troppo per le lunghe.
 
“A casa mia.” Ringhiò e uscì, sbattendo la porta d’entrata con molta più forza del necessario.
 
 
*
 
 
Sapeva che qualcosa non andava nel momento in cui entrò dentro casa, sorriso a trentadue denti che si congelò immediatamente e la valigia piena di cibo che rischiava di lussargli la spalla ad ogni passo.
 
C’era un’elettricità nell’aria che aleggiava debole e invadente in ogni angolo, sottotono ma presente, come se volesse infiltrarsi tranquillamente sotto la sua pelle, morbida e infida, cercando di non fargli alzare la guardia. Sembrava coccolare la sua figura e strisciare dentro i suoi polmoni, zucchero e veleno al tempo stesso e i suoi sensi scattarono neanche fosse sotto attacco.
 
A conti fatti, ripensandoci bene, forse non aveva tutti i torti.
 
“Ciao?” Salutò con tono cauto, guardando Rin appoggiato al muro a braccia conserte, serio come la morte e una scintilla dura nel suo sguardo. Samu era sdraiato sul divano con le gambe accavallate, le palpebre pesanti calate su quegli occhi che lo scrutavano come se volessero leggere ogni suo movimento.
 
Motoya batté le palpebre stranito, lasciando il trolley in mezzo all’ingresso e togliendosi la sciarpa velocemente, non capendo il perché di quello stato d’animo teso. Forse avevano litigato, pensò confuso. Tentò di allentare la situazione. “Ho rifornito il frigo, mamma ci ha mandato un sacco di roba.”
 
Niente. Nessun gemito incuriosito di Osamu o un lamento amorevole di Suna, nulla. Si tolse il cappotto con un rapido lavoro di spalle e ci riprovò. “Ora, non assicuro che sarà roba da ristorante a cinque stelle e avverto che mamma è un po’ troppo fantasiosa, ma sono cresciuto benissimo nonostante tutto.”
 
“Possiamo vederlo.” Mormorò Suna con quel tono ammiccante e appena lascivo che aveva imparato a sopportare quei mesi, che strisciava su per la spina dorsale e in cui cercava di non leggerci mai troppo. Osamu non rispose, limitandosi ad alzare un angolo di bocca in un sogghigno compiaciuto, le gambe che dondolavano leggermente e gli occhi che vagavano lenti sulla sua figura, centimetro dopo centimetro senza saltare un solo pezzo.
 
No, non avevano litigato, comprese. Lo stavano aspettando.
 
Motoya si sentì in trappola come un canarino lasciato in pasto a due gatti grassi, sempre affamati ma abituati a giocare con il cibo. Certo, se il canarino era più vicino a una donnola fluida e furba e i gattoni a due volpi tenaci e calcolatrici.
 
Non era la prima volta che veniva accerchiato in quel modo. Ultimamente succedeva sempre più spesso, lasciandolo ogni volta un minimo destabilizzato e vagamente eccitato.
 
Perché gli piaceva, cavolo, chi voleva prendere in giro?
 
Erano entrambi belli, prestanti, divertenti da morire e palesemente interessati a lui, non era cieco. Lo poteva ammettere tranquillamente nella privacy della sua testa, ma solo ed esclusivamente lì. Perché non capiva cosa volessero da lui ed i pensieri che stavano prendendo strada nella sua mente, in quel periodo, non erano molto in linea con quello che sentiva verso di loro.  
 
Agganciò il soprabito e afferrò il manico del trolley, girandosi per portare la valigia in cucina scoccando ai due un sorriso luminoso e un’alzata di sopracciglia ammiccante.
 
Successe tutto in un attimo.
 
Osamu si alzò e Suna si mosse, entrambi a posizionarsi da un lato del divano e spingerlo con tutta forza verso la porta d’entrata, sistemandolo longitudinalmente per occupare tutto l’ingresso.
 
Motoya si bloccò a metà strada per guardare quello spreco di energie, non capendo a cosa servisse una cosa del genere. Una piccola scintilla di panico gli invase i polmoni, a tradimento.
 
“Ok, che state facendo?” Domandò piano, vedendo Osamu sedersi sul divano, stavolta in modo quasi composto, e Suna salire sui cuscini con i piedi per posizionarsi con il sedere sullo schienale. Non risposero, limitandosi a sistemarsi meglio.
 
Motoya sbuffò. “Rin, hai di nuovo letto quella roba sul Feng Shui? Perché te l’ho già detto, abbiamo l’ingresso rivolto a nord, siamo fottuti a prescindere.”
 
“Potremmo comunque mettere delle vetra-” Osamu si girò a guardare divertito Suna, che si bloccò e scosse la testa. “Lascia perdere, non è questo.”
 
“Uh?” Mormorò Motoya, mentre Osamu chiedeva “Feng Shui?” ridacchiando a spese di Rintarou.
 
“Il Feng Shui è un’arte troppo sottile perché voi possiate capirla.” Brontolò in direzione di Osamu, che rise solo più forte. “Basterebbe comprare delle lampade al sale.”
 
“La piantana di tua madre ha fatto una fine orribile, non prenderei di nuovo roba che si rompe con lo sguardo.” Sorrise Komori aprendo il trolley. Dopodiché, visto che non erano intenzionati a muoversi nel breve periodo, si vide costretto a sottolineare l’ovvio. “Il divano messo così blocca il passaggio.” Li informò quasi sovrappensiero, cercando di decidere come svuotare il tutto.
 
“Appunto.” La voce di Osamu fece morire qualunque commento salace sulla punta della lingua di Motoya, che alzò la testa dalla valigia per guardarli con occhi enormi.
 
Aveva appena detto … ?
 
“In che senso?” Cinguettò, cominciando ad avvertire una bruttissima sensazione. Prese un contenitore arancione e lo poggiò sul piano da lavoro, cercando di controllare le vibrazioni nel suo respiro. Ridacchiò, ma era più agitato del solito e lo avvertì alle sue stesse orecchie. “Ragazzi, mi state spaventando.”
 
“Penso sia arrivato il momento di fare due chiacchiere.” Suna scese dal divano e si avvicinò a lui. Era fluido, lento, pronto a scattare se ci fosse stato il bisogno. Un animale in azione.
 
Motoya sentì il sangue cominciare a freddarsi nelle vene.
 
Controllò dietro di lui e vide la porta che portava alla zona notte, verso la sua camera, completamente priva di ostacoli. Strinse le labbra, cercando di capire come muoversi. “È chiusa.” Lo avvertì Osamu con occhi pigri, portando il piede sotto l’altra gamba. “Dovrai ascoltarci, stavolta.”
 
“Non mi sembra molto equo.” Si limitò a dire Motoya inclinando la testa. Suna si bloccò a pochi passi da lui, avvertendo il cambiamento di tono. “Porto da mangiare e mi ritrovo in un’imboscata.”
 
“E di chi è la colpa?” Osamu sembrava che avesse l’intenzione di risolvere qualcosa e Motoya si girò a guardarlo con occhi freddi. “Ci è sembrato l’unico modo per riuscire a farti stare fermo abbastanza da ascoltare.”
 
“Toya, mettiti seduto.” Rin allungò un braccio verso di lui e Motoya vide le sue stesse dita tremare leggermente. Le strinse nel pugno così forte che sentì le unghie perforargli la pelle. Bastò per dargli una scossa.
 
“Non sono interessato.”
 
Suna sbuffò, una risata amara, derisoria.
 
Motoya inspirò. “Sono serio. Non mi prendo la responsabilità di una vostra rottura.” La voce uscì dura, ferma, granitica come non l’avevano mai sentita. Vide Osamu allargare le palpebre e aprire leggermente le labbra. Suna ritrasse la mano, le guance un filo più pallide. “Toya, no.”
 
“Non lo faccio, Rin, non mi metto in mezzo a una coppia come la vostra.” Fece un passo indietro e sbatté contro il piano da lavoro. Sentì la maniglia del cassetto perforargli la schiena al livello dei reni, ma era talmente agitato che a malapena se ne accorse. “Siete perfetti, cazzo, che cosa cercate da me?”
 
“Non lo immagini?” Si girò verso Osamu. Aveva la bocca scoperta in una smorfia e Motoya in quel momento, in quel momento, vide la vera somiglianza tra i due fratelli Miya. Nessun aspetto esteriore, nessuna cazzata di facciata, quelli erano solo elementi fuorvianti. “Non sei stupido, l’hai detto. Non vogliamo lasciarci.”
 
 “Volete sesso? È questo?” Komori ridacchiò amaro e non vide lo sguardo di Osamu e Rin scurirsi per la provocazione. “Possiamo risolverla senza rovinare niente. Andiamo in camera e vi togliete la fantasi-”
 
Cosa cazzo stai dicendo?” Sibilò Suna livido, facendo un passo avanti. La sua voce era gelida e Motoya si ritrasse inconsciamente ancora di più, quasi avvertendola fisica sulla sua pelle, la maniglia che entrava ancora di più nella schiena. “Toya, siamo compagni di squadra. Siamo colleghi e coinquilini, secondo te metterei nella merda tutto per una cazzo di scopata?”
 
“Potevamo avvicinare qualcuno in qualche locale.” Osamu scosse la testa evitando di guardarlo e Motoya si sentì uno schifo. “Funziona bene per te.”
 
“Questo non te lo permetto.” Lo avvertì gelido. Non aveva il diritto di dire cose del genere. Non era nella sua posizione, non sapeva cosa significava vedere i loro sguardi feriti ogni volta che usciva di casa, ogni volta che si presentava con un profumo estraneo addosso senza aver combinato nulla oltre un bacio perché non se la sentiva, perché sapeva che un reale passo in più avrebbe distrutto qualunque cosa potesse succedere con loro.
 
Anche se diceva che non voleva, anche se lo urlava davanti le loro facce deluse, non era mai riuscito ad andare avanti. Gli faceva male, era doloroso da morire, ma era bello affondare in quelle sensazione, proiettarsi dentro qualcosa che non poteva esistere, immaginarsi situazioni e vivere di nulla. Era stranamente piacevole e non riusciva ad avere abbastanza coraggio per vederlo disintegrarsi davanti i suoi occhi.
 
Il suo inconscio, fino a quel momento, aveva solamente lavorato contro di lui. Appagato dai loro sguardi e dalle loro attenzioni, lo faceva agire come se potesse succedere veramente.
 
Lo faceva sognare. Lo faceva sperare.
 
Lo distruggeva.
 
“Dacci una possibilità.” Sussurrò Suna, la guancia leggermente incavata per essere presa tra i denti, un’azione che faceva quando era particolarmente nervoso. “O, se non vuoi, almeno dicci perché.”
 
“Se pensi sia una cosa di solo sesso, vuol dire che non hai mai capito niente.” Osamu si avvicinò a Rintarou, il passo lento ma molto diverso da quello del suo ragazzo. Più aggressivo, più pesante.
 
“Cosa avrei dovuto capire?”
 
“Che siamo interessati a te. Come persona. Come parte di una relazione.”
 
Motoya scosse la testa, un sorriso amaro sulle labbra. “C’era bisogno di chiudermi in una stanza?”
 
“Beh, sì.” Motoya vide Suna alzare le spalle e guardare Osamu lateralmente. “Non ci hai reso la situazione facile.”
 
“Perché state facendo una stronzata.”
 
Osamu fece un sospiro stanco. “Questo, se permetti, lo decidiamo noi.” Disse con voce pesante. Motoya aprì la bocca ma lo bloccò. “Pensi davvero che sia stato facile? Sai, almeno, quanto siamo stati terrorizzati?”
 
“Samu …”
 
“No, Rin, deve capire. Perché se non lo fa ora andrà veramente tutto una merda.” Si girò verso Motoya con un’espressione d’acciaio e Motoya si ritrovò paralizzato al bancone della cucina, la schiena perforata e tutta la sua spinta aggressiva scivolata via dal suo corpo. “Ci sta che tu sia spaventato. Ci sta anche che tu non voglia. Ma non provare a dire che abbiamo preso una decisione alla leggera.”
 
“Non volevo dire …”
 
“L’hai fatto, però.” Stavolta fu Suna a parlare e Motoya girò gli occhi verso di lui, la testa ancora puntata verso Osamu. “Sono state settimane e mesi difficili. Ma proviamo qualcosa per te e vorremmo farti capire che non è un esperimento strano.”
 
Fece un sorriso storto, avvicinandosi ad Osamu e battendo la spalla con lui. “Sei importante per noi. Davvero davvero importante. E vorremmo uscire con te.”
 
Motoya era ancora fermo, immobile. Sentiva i polmoni come vuoti, l’aria appena rarefatta e non capiva bene cosa stava succedendo.
 
State sbagliando, pensò, ma la voce nella sua testa non era piena di panico come aveva pensato. Era calma, rilassata. Forse anche lei stava cercando di convincerlo diversamente, stanca quanto il suo inconscio. Forse erano la stessa entità.
 
Uscire con loro avrebbe significato un sacco di cose. Le aveva pensate, ovviamente, aveva passate giorni interi a pensarle. Immaginando qualcosa di privato ed impossibile, qualcosa che poteva esistere solo nella sua mente. Ed erano fantasie stupende.
 
Ma voleva dire anche segreti. Omissioni. Scelte di vita che avrebbero potuto significare distruzione totale per tutto: lavoro, carriera, amicizie. Amore stesso.
 
Pensò all’anello nel suo armadio, quel simbolo che significava tutto per Rin e di cui ancora Osamu non conosceva l’esistenza. Ricordava ancora quel pomeriggio, gli occhi di Rintarou lucidi ma ostinati, rabbia svanita davanti la possibilità di una vita con il proprio amore.  
 
Si chiese se fosse giusto. Si chiese se non fosse egoista, se stava vedendo davvero tutto sbagliato come diceva Kiyoomi o era quello con lo sguardo più limpido tra tutti.
 
Chiuse le palpebre e prese un respiro profondo. Rilassò le spalle e allontanò di poco il corpo dal piano di lavoro, facendo un passo verso di loro.
 
Li guardò. Aveva paura ma al tempo stesso provava una calma anormale che gli riempiva le vene e rallentava il suo battito. Vide Suna prendere la mano di Osamu e stringerla, vide la guancia di Osamu guizzare leggermente, vide la loro ansia e le loro aspettative.
 
Aprì la bocca e, forse, disse le ultime parole che stavano aspettando.
 
“Datemi tempo per pensare.”
 
 
*
 
 
Iizuna Tsukasa era una dannata macchina.
 
Quel bastardo non aveva ceduto di un millimetro, inserendosi sempre nel punto più preciso per l’azione ed in perfetta posizione, dando sfoggio di alzate talmente pulite e precise che ad Atsumu era quasi venuta l’orticaria.
 
Dopo averlo guardato come se avesse appeso le stelle nel cielo, ma questo non lo doveva sapere nessuno.
 
Non aveva neanche reagito ai suoi innocenti tentativi di conversazione sotto rete e sì, quello se lo aspettava. Sapeva che parlava regolarmente con Omi e Komo-kun, a volte anche contemporaneamente, ed aveva avuto la sfortuna di partecipare ad una conversazione con loro: il ragazzo aveva una pazienza inumana.  
 
Vedere l’ex squadra di Itachiyama incontrarsi via Skype aveva distrutto tutte le sue convinzioni sulla loro alterigia e natura robotica che lo aveva portato a non sopportarli alle superiori. Se non fosse che, dopo attente, meticolose e profonde sessioni di studio del corpo di Omi, sapesse perfettamente che l’unica cosa anormale nel suo ragazzo era la sua reazione pericolosa, isterica e dannatamente esagerata a qualsiasi tipo di insetto e un innamoramento immediato per ogni specie di cane esistente nonostante il loro aspetto (perché Samu aveva ragione, Toya-chan sembrava essersi schiantato addosso a un muro senza più riprendersi, era inutile che Omi continuasse ad affermare con cieca sicurezza che fosse il cucciolo più bello del mondo), sarebbe rimasto irrimediabilmente scioccato e deluso.
 
Iizuna aveva resistito ad ogni sua provocazione e, anzi, gli aveva fatto intendere di darsi da fare di più, se voleva davvero vederlo agitato.
 
Lo rispettava. Soprattutto perché aveva provato per lui una cieca antipatia fino a poco tempo prima, stupidamente.
 
Aveva pensato seriamente che il suo Omi potesse scegliere Iizuna. Era stato il suo ex capitano, in fondo, si conoscevano dentro e fuori dal campo in un modo che Atsumu poteva solo sognare, erano consapevoli delle forze e dei punti deboli dell’altro e sapevano come sfruttarli in modo completo e sempre vincente.
 
Il loro lavoro, alla fine, era una competizione continua e lui e Omi avevano messo in chiaro sin dall’inizio che il primo posto nel loro cuore sarebbe stato solo della pallavolo, mirando a puntare solamente sui propri obiettivi.
 
Parole a vuoto.
 
Perché Omi si era appropriato del punto di alto del suo podio emotivo con una facilità pazzesca. Ed era stato naturale vederlo spodestare la pallavolo con il suo solo essere sé stesso, concedendole comunque di essere così vicina da fargli pensare che, forse, fossero un’unica entità.
 
Omi e la pallavolo. La pallavolo e Omi. A volte non sapeva dove cominciava l’uno e finiva l’altra.
 
Vedere Iizuna dall’altra parte della rete gli ricordò il viso pieno di delusione del suo ragazzo quella sera di qualche settimana prima, la tristezza e la rabbia insieme nel suo sguardo solitamente calmo.
 
Le chiavi erano sul suo comodino, a ricordargli, ogni mattina quando si svegliava in un letto vuoto ed ogni sera quando andava a dormire con il pensiero di lui in testa, la cazzata che aveva fatto.
 
Omi aveva scelto lui. E Atsumu aveva mandato tutto a puttane.
 
Sapeva di aver detto cose orribili, ma in quel momento le pensava veramente.
 
Una relazione a distanza era impensabile. Vedeva Osamu esaurirsi ogni giorno per quella lontananza dovuta alle loro vite, più che ai chilometri. Perché Sunarin aveva ragione: due ore di Shinkansen non erano un sacrificio così grande, ma dovevano fare i conti con gli orari differenti, gli impegni, le priorità lavorative. Erano quelle le cose che portavano a distruggere una relazione.
 
Osamu aveva sofferto come un cane, ma era stato d’acciaio. Lo era ancora, a cercare di combattere un mostro invisibile per avvicinarsi in ogni maniera al suo amore.
 
Ed ora avevano anche il pensiero di Komo-kun. Perché sì, se ne era accorto, non era cieco. E non era sordo, Samu aspettava sempre che fosse impegnato per poter alzare l’argomento con Suna, ma a volte era capitato fuori dalla sua stanza per avvertirlo della cena e, beh, era successo.
 
Secondo il suo modesto parere, Samu e Sunarin dovevano solo ricordarsi di essere fottute volpi. E che erano i predatori naturali di quelle donnole scivolose e troppo carine per il loro bene. Dovevano darsi una svegliata, mettere Komo-kun all’angolo e azzannarlo finché ancora non riusciva a fiutare il pericolo.
 
Ma Samu era sempre stato il più forte tra i due, malgrado quello che faceva vedere.
 
Aveva preso in mano la sua vita, scegliendo di allontanarsi da ciò che conosceva, dalla strada già battuta. Si era dato da fare ed aveva sfondato pregiudizi e critiche, facendosi valere in più di un modo. Era un grande, aveva un ragazzo che stravedeva per lui ed era riuscito a mantenere quella relazione perfetta come agli inizi. I momenti di sconforto erano stati solo uno spunto per rialzarsi e puntare ancora più in alto.
 
Lui non avrebbe resistito. Il solo pensiero di Omi in un’altra città, quando avevano passato così poco tempo insieme, lo distruggeva. E non era solo il fattore di non poterlo nemmeno toccare o respirare la sua stessa aria sanificata con le sue diavolerie, ma la situazione in cui il suo egoismo lo avrebbe inevitabilmente costretto.
 
Omi doveva volare, ovunque fosse andato, senza alcun tipo di condizionamento. Men che meno un ragazzo fisso in un’altra città. Tagliare le corde della loro relazione era il solo modo che vedeva per non farlo sentire legato, per consentirgli di muoversi senza vincoli e renderlo libero di scegliere, proprio come aveva fatto lui anni prima, secondo la propria volontà.
 
Ma era del tutto inutile rimuginarci su: era uno smidollato innamorato quando si trattava di Omi.
 
Sapeva che non avrebbe mai potuto dividersi da lui, non di sua iniziativa. Non sarebbe mai riuscito a far uscire fuori quelle parole, ci si sarebbe strozzato. Buttare all’aria quella cosa così bella tra di loro, giocarsi l’ultima possibilità per stargli accanto, seppur a chilometri di distanza, no, non avrebbe avuto le palle per farlo.
 
Avrebbe aspettato che Omi facesse la sua mossa e si stufasse di sopportarlo, conscio che una situazione del genere fosse difficile, drenante e frustrante.
 
Era stato un grandissimo coglione a pensare che il sentimento fosse a senso unico. Le chiavi buttate sul suo grembo pesavano come un macigno a distanza di giorni.
 
Si tolse la maglia sudata prima ancora di arrivare all’armadietto, sentendola tirare la pelle, appiccicata alla schiena. Sbuffò, sfilandosela dalle braccia faticosamente e ricevette a tradimento una pacca assassina in mezzo alle scapole. “Bella pensata all’ultima azione.” Meian-san gli passò la mano tra i capelli umidi e schifosi e li scompigliò più volte. “Li hai sbaragliati.”
 
“Ryousei-kun è riuscito a intercettarla.” Mugugnò sedendosi sulla panca. “Fottuto centrale ossessivo.”
 
“Ma erano fuori posizione e ci ha permesso di vincere.” Barnes-san gli fece un sorriso enorme. “Datti un po’ di credito.”
 
“Si è lasciato con Sakusa.”
 
“Fottiti Wan-san, non mi sono mollato con Omi.” Mugugnò contrariato.
 
Perché era quella la cosa strana, Omi lo stava aspettando. Nonostante l’avesse minacciato di tagliare i ponti, nonostante tutti gli insulti velati che gli rivolgeva costantemente, gli stava dando il suo spazio e gli aveva fatto intendere di darsi una mossa.
 
Perché lo accettava. Perché gli faceva saltare i nervi un giorno sì e l’altro pure. Perché era la vita che lui stesso aveva scelto per sé.
 
Era ancora là, a lottare per lui e, da quello che gli aveva raccontato l’allenatore ridacchiando e prendendolo in giro, con lui.
 
Doveva trovare un modo per farsi perdonare perché cazzo, non l’avrebbe più lasciato andare.
 
“E allora cos’è quel muso?” Continuò Inunaki, mettendo la divisa sudata in una busta e prendendo il necessario per la doccia nel borsone. “Dovrei avercelo io, ho sforato di pochi giorni la scommessa.”
 
Si alzò un coro di lamenti da tutta la squadra e Atsumu si girò verso di lui, ghignandogli in faccia. “Vi sta bene, stronzi.”
 
“TSUM!” Bokkun entrò in quel momento nello spogliatoio, urlando e sbattendo con la spalla sulla porta con così tanta forza da farla rimbalzare contro il muro. “L’HAI SAPUTO?”
 
“Che la mia caduta al Fan Meet è diventata virale? Sì.” E non gli andava per niente bene, Sunarin gli aveva spammato qualunque cosa lo facesse vedere con la faccia a terra e il culo all’aria, era un’onta da lavare col sangue quella.
 
Ovviamente ricominciarono tutti a ridere, fregandosene altamente della sua espressione rabbuiata e della sua vanità in frantumi, ma Bokkun lo raggiunse trafelato. “Prendi il cellulare, subito.” Ordinò, cominciando a rovistare nel suo borsone. “Dov’è?”
 
“Bokkun, calmati! Hai di nuovo preso gli energizzanti?” Ma non lo ascoltava, troppo impegnato a buttare per terra i suoi vestiti puliti. “Merda, ragazzi, l’avete visto bere qualcosa di fosforescente?”
 
“Bokuto, è successo qualcosa di grave?” Tomas-san gli mise una mano sulla spalla per tranquillizzarlo, ma Bokuto si girò verso Atsumu, i suoi occhi gialli spalancati. “Oggi c’era la finale di Sakkun, vero?”
 
Atsumu fece una smorfia. Come il ragazzo di merda che era, aveva dovuto saltare l’ultima partita da universitario di Omi. Era stato brutto, più per lui che per Omi, che era tranquillamente consapevole del campionato e gli aveva augurato buona fortuna con una foto completa dei suoi addominali insieme all’inizio stuzzicante della sua zona pelvica e il meme più cattivo prodotto da mente umana del suo episodio imbarazzante al Fan Meet.
 
Avrebbe voluto esserci per poterlo festeggiare come volevano entrambi e come meritava. “Sì, perché?” Bokkun si rituffò nel suo borsone e Atsumu cominciò a preoccuparsi. “È successo qualcosa?” Domandò e l’agitazione nella sua voce spinse i suoi compagni a fermare ogni attività per girarsi verso di loro con espressioni apprensive. “Bokkun, cazzo, è successo qualcosa?”
 
“Sakkun ci ha battuti!” Aveva la testa quasi del tutto affondata nella borsa, scavandoci dentro finché non afferrò qualcosa e la mano scattò in aria, il pugno stretto rivolto verso di lui. “Presto, sbloccalo!”
 
“Bokuto, calmati.” Cercò di intervenire Meian-san, ma Bokkun vibrava, un sorriso enorme che quasi gli spaccava la faccia.
 
Atsumu guardò le diecimila notifiche che intasavano lo schermo con espressione confusa, ma come un radar si fiondò sui messaggi del suo ragazzo con urgenza.
 
Erano solo due foto, notò velocemente. Le aprì svelto e, dopo un lunghissimo secondo di assorbimento, cominciò a ridere come un matto. “Quel fottuto bastardo!”
 
Una fotografia rappresentava una medaglia e un attestato di MVP poggiati su un tavolo che non riconosceva, assieme ai due portachiavi che aveva rubato dal suo mazzo.
 
L’altra, invece, era lui che gli mostrava il dito medio, la stessa medaglia al collo e la faccia libera dalla mascherina, con su un’odiosa espressione di soddisfazione che da sola sembrava dire “Riesci a fare di meglio?”.
 
“È vero allora?” Chiese Bokkun rubandogli il cellulare. “Cazzo, è vero! Questa non la possiamo vincere!”
 
“Cosa state dicendo?” Chiese Meian-san con voce da capitano. “Ci spiegate?”
 
Atsumu continuò a ridere, buttandosi sulla panchina e portandosi le mani dietro la nuca mentre Bokuto girò lo schermo verso di loro. “Non sono mai stato MVP!”
 
Era comico, seriamente. Vedere quei bestioni tutti raggruppati a guardare nella mano di Bokkun come se tenesse il Santo Graal lo fece solo ridere di più.
 
“Santissimo cazzo.” Alitò Wan-san con gli occhi spalancati, passando gli occhi dal cellulare ad un Asumu ridacchiante. “Ha rotto Atsumu.”
 
“Penso fosse così da prima, ma questo è notevole!” Approvò Meian-san toccando lo schermo per illuminare di nuovo la foto. “MVP. Cavolo, ha fatto un ottimo lavoro!”
 
“Posso diventare MVP anche nel professionismo, vero?” Domandò Bokuto facendo ridere Barnes-san.
 
“Potrebbe diventarlo di nuovo anche lui.” Gli sorrise Tomas vedendolo sgonfiarsi. Gli passò un biscotto proteico per consolarlo. “Fai del tuo meglio.”
 
“Batterò chiunque!” Promise passando il cellulare di nuovo ad Atsumu, che lo prese e guardò di nuovo le foto come se non riuscisse a crederci. Mosse il pollice per rispondere velocemente, ma nel momento in cui stava inviando il messaggio si rese conto di una cosa molto importante.
 
Era a Nagoya. E voleva raggiungere Omi con tutto sé stesso.
 
“Capitano, devo andare.” Informò in fretta, cominciando a mettere tutta la roba buttata da Bokuto all’interno del borsone, gettandola alla rinfusa.
 
“Torneremo domani, puoi aspettare.”
 
“No, davvero, non posso. La partita è finita e ho fatto un casino e ho bisogno …” Si girò a guardarlo, il respiro agitato e la borsa a malapena appoggiata sulla spalla. “Per favore.”
 
Atsumu vide il capitano stringere le labbra, ma una gomitata leggera di Barnes-san e un’alzata di sopracciglia lo fece sospirare, guardandolo severo con un sorriso appena accennato. “Fagli i complimenti da parte nostra. E stai attento per strada.”
 
Non riuscì nemmeno a terminare la frase che Atsumu stava già correndo, ringraziando e salutando a ripetizione. “Hai ancora la divisa!” Gli urlò dietro.
 
“Mi cambierò in taxi!”
 
 
*
 
 
Quando sentì i colpi rapidi sulla porta, frantumando l’atmosfera pigra e comoda che aveva costruito con tanto sforzo, Sakusa ne fu profondamente contrariato.
 
Erano le undici di sera passate, andasse al diavolo chiunque avesse deciso si trattasse di un orario decente per rompere l’anima alla gente perbene.
 
Si raggomitolò sul divano, sistemando il plaid morbido meglio al livello delle gambe, alzando il volume della televisione per far capire al maleducato di turno che non aveva intenzione di aprire nemmeno se si fosse trattato di Vabo-chan in tutta la sua gloria di palla sudata pronto a portargli la cena gratis.
 
Era arrabbiato. Era deluso.
 
Soltanto quella mattina la sua squadra aveva vinto il campionato collegiale, il suo ultimo campionato collegiale, era stato nominato MVP e, dopo ore, aveva solo voglia di essere assorbito dal suo sofà nuovo e non uscire più di casa.
 
Atsumu aveva visto il messaggio e non aveva risposto.
 
Non sapeva che pensare.
 
Ricordava ancora le scuse sussurrate per la sua assenza, chiedendo perdono con baci anche troppo morbidi, ma Sakusa non ne aveva fatto per niente un dramma. Non era un problema, alla fine, era solo una partita. A livello di importanza, era molto più grave se Atsumu avesse saltato la sua a causa di una semplice finale universitaria.
 
Lo aveva rassicurato, gli aveva mandato un buongiorno a cui aveva risposto con lamenti e promesse, ma non capiva perché non avesse detto nulla. Erano passate ore dalla fine della sua partita contro i DESEO Hornets.
 
Sakusa strinse l’interno della guancia tra i denti, sospirando nervosamente. Si stava esaurendo come un idiota, ma non si aspettava un comportamento del genere dal suo cazzo di ragazzo.
 
Aveva passato l’intera giornata attaccato al cellulare come un tredicenne con la sua prima cotta ossessiva (e sapeva riconoscerli: Maki-chan era adorabile, ma era fuori di testa), aspettando una chiamata, una notifica, qualsiasi cosa che potesse fargli sentire Atsumu.
 
In fin dei conti, quella era una cosa importante per loro. Così importante che, addirittura, aveva pensato fosse successo qualcosa di grave.
 
Osamu l’aveva chiamato appena possibile per congratularsi, da lui aveva saputo che Atsumu aveva vinto la partita e aveva cominciato a prenderlo in giro per non sapeva quale motivo, così si vide giustificato dall’attaccargli il telefono in faccia. Niente tragedie, quindi.
 
Solo che lo stronzo aveva deciso di sparire.
 
Scosse la testa, cercando di non intasare il suo cervello con pensieri negativi. Era il cazzo di MVP, avrebbe festeggiato come aveva sempre fatto prima di un ragazzo: ignorando Motoya, ordinando da asporto la sua cena preferita, mettendosi comodo davanti la televisione a vedere un film che lo incuriosiva e che non aveva mai avuto il tempo di godersi, permettendosi di stare alzato fino a tardi perché aveva deciso di prendersi un paio di giorni tutti per sé stesso.
 
Era diverso ora che c’era Atsumu. Ma fosse dannato se gli avrebbe permesso di rovinargli il momento in quel modo.
 
I colpi alla porta si fecero più insistenti, più forti e Sakusa occhieggiò l’ingresso con sguardo truce. Alzò il volume ancora di più.
 
Passarono solo pochi secondi e si aggiunse un altro rumore, come se la porta venisse presa a calci e Sakusa decise di averne abbastanza.
 
Non era dell’umore per qualunque cafone avesse pensato di passare la serata a dargli il tormento, quindi quando raggiunse la porta e la aprì si sarebbe aspettato chiunque colto sul fatto.
 
Vedere Atsumu con la mano in alto e la gamba pronta a calciare, gli occhi spalancati come cervo colpito dai fari, lo stupì in più di un modo. Prima di tutto perché non gli aveva mai detto dove abitasse.
 
Era vestito con la tuta ufficiale del Black Jackals, aveva i capelli stravolti e si sentiva un fortissimo odore di deodorante su tutta la sua persona. Il borsone, abbandonato senza pensieri di lato, gli fece pensare che non fosse passato per nulla a casa sua.
 
“Ciao Omi.” Mormorò piano, abbassando mani e gambe con un sorriso che gli fioriva sul viso.
 
Voleva chiedergli come fosse riuscito a conoscere quell’indirizzo ma non era sicuro di volerlo sapere. Poteva immaginare due o tre modi, ma l’aiuto di Osamu o qualcun altro era fuori discussione: l’avrebbero vista come l’occasione per una presa in giro fuori programma e l’avrebbero colta come un pesce con l’esca.
 
Voleva chiedergli anche cosa diavolo ci facesse a quell’ora infame sul suo zerbino, ma aveva come l’impressione che non sarebbe riuscito a sopravvivere a qualunque risposta gli avrebbe dato.
 
Voleva chiedergli perché sembrasse uno scappato di casa e perché non si era ovviamente fatto una doccia, ma il suo cervello e la sua lingua avevano deciso di non collaborare.
 
“Perché cerchi di rompere la mia porta?” Chiese invece e forse la domanda era più che legittima. Abitava lì da pochi giorni, non voleva già sostituire cose.
 
Vide il sorriso di Atsumu congelarsi. “Non rispondevi.”
 
“E prendi a calci la porta?”
 
“Beh, evidentemente non riuscivi a capire che dovevi aprire!”
 
“Abito in un fottuto condominio.” Sibilò. “Ho dei dannati vicini ed è quasi mezzanotte. Ti sembra normale quello che hai fatto?”
 
Lo vide rabbuiarsi e non capì, assolutamente. Sentì la rabbia salirgli fino alla testa.
 
“Cosa vuoi?” Domandò quindi, perché bruciava ancora. Bruciavano le sue frasi che sottintendevano una sicura rottura, bruciavano le chiavi non accettate, bruciava l’attesa di una risposta su quel cellulare che aveva nascosto sotto i cuscini del divano per toglierselo da davanti gli occhi.
 
Bruciava dentro, perché combatteva con queste cose, questi sentimenti rampicanti e inutili che lo spingevano ad allungare la mano per toccarlo, per vedere se era veramente lì, e a fare qualcosa, a metà strada tra il prenderlo e baciarlo e l’affondare i pollici nella sua trachea.
 
“Non mi fai entrare?”
 
“Cosa vuoi?” Ripeté secco.
 
Atsumu sbuffò dal naso e strinse gli occhi, mordendosi il labbro con forza. “Sei arrabbiato.” Constatò e, davvero, era l’illuminazione del secolo, quella. “Mi dispiace veramente tanto, sul serio.” Lo guardò morbido e Sakusa sentì l’irritazione camminargli nelle vene. “Avrei voluto esserci.”
 
“Di tutte le cose di cui dovresti scusarti, hai scelto l’unica per cui non c’era motivo.” Disse a voce bassa, spostandosi di lato e invitandolo ad entrare con un gesto del capo. Atsumu si accigliò, ma prese la borsa e lo seguì a testa bassa.
 
Fu solo quando la porta si chiuse che Atsumu si girò ad affrontarlo. “Che vorresti dire?” Domandò e c’era un tono aggressivo di sottofondo nella sua voce. “In che senso l’unica cosa?”
 
“Stai chiedendo scusa per qualcosa che non dipende da te.” Sibilò Sakusa superandolo e sedendosi sul divano, prendendo il plaid abbandonato sui cuscini e cercando di allargarlo. “Comincia a farlo per le cose che hai effettivamente combinato.”
 
“E cosa avrei fatto?” Atsumu era ancora davanti la porta, le mani ancora ad artigliare il borsone come se volessero strapparlo. Sakusa gli scoccò un’occhiata raggelante ed ebbe il piacere di vederlo imbarazzato. “Se intendi la stronzata della firma … beh … sì, ok, ho sbagliato e ho esagerato. Contento?”
 
Mantenne il suo sguardo fermo e Atsumu cominciò ad arrossire. “Anche per le chiavi, sono stato uno stronzo.” Lo vide passarsi una mano tra i capelli sporchi, mandandoli all’aria e camminando sul posto come un soldatino demente. “Seriamente, che cazzo ci fai ancora con me?”
 
“Mi piacciono i casi umani.” Se ne uscì con voce piatta, sistemando il plaid sulle gambe e girandosi verso la televisione.
 
Sentì il tonfo del borsone per terra e le scarpe che venivano lanciate direttamente dai piedi, senza essere slacciate. Un paio di passi pesanti si fecero avanti. “Non farmi incazzare di più e metti a posto quelle scarpe.”
 
Gli arrivò alle orecchie un sospiro esasperato e il tonfo dei talloni di Atsumu che scavavano il pavimento, ma fu soddisfatto quando sentì il cigolio della scarpiera che veniva aperta dopo qualche secondo.
 
Lo fu un po’ meno quando Atsumu quasi si buttò sul divano in quello stato di doccia mancata, ma la sua espressione dispiaciuta appianò un po’ dei suoi nervi. “Mi scuso per tutto.” Mormorò piano, allungandosi verso di lui. “Sono veramente dispiaciuto e potrai farmela pagare quanto ti pare. Ma cazzo, Omi, sei il fottuto MVP!”
 
“Perché non ti sei fatto vivo tutto oggi?” Sbottò finalmente, perché lo stava consumando dentro.
 
Avrebbe potuto capire se fosse rimasto a Nagoya, ma era là, davanti a lui, a insozzare il suo divano con sudore secco e deodorante scadente. Ci doveva essere un motivo.
 
Lo guardò battere le palpebre lentamente, piano e confuso. “Cosa?” Domandò con un filo di voce e sentì una scintilla di irritazione scoppiargli nel petto.
 
“Ho dovuto sapere da Osamu che avevate vinto. E che non ti avevano picchiato dietro un Izakaya di pessima reputazione.”
 
“Che stai dicendo? Ti ho risposto alle foto!”
 
“No, non l’hai fatto.” Sakusa portò di nuovo il suo sguardo sulla televisione, sentendo gli occhi pizzicare per qualcosa che aveva trattenuto da ore.
 
“Omi, ti ho risposto subito!”
 
Non l’hai fatto.” Sibilò grave. Atsumu si alzò di scatto e quasi si scapicollò verso l’ingresso, buttandosi sul borsone e cercando al suo interno come un disperato. “Sono sicuro di aver- Oh! Eccolo!”
 
Qualche secondo di silenzio, poi un “Merda!” furioso che quasi lo convinse a girarsi. Non lo fece, ma solo perché Atsumu si buttò ai piedi del divano mettendogli il cellulare sotto il naso con la faccia più disperata del mondo. “Ho dimenticato di inviarlo!”
 
Sakusa si ritrasse d’istinto, perché quel telefonino era stato in un fottuto borsone pieno di roba sporca, non lo avrebbe toccato nemmeno se pagato, ma Atsumu la prese come se volesse scostarsi da lui. Si buttò sulle ginocchia con un lamento frustrato, stando ben attento a non toccarlo. “Ti giuro, credevo ti averlo inviato! Davvero, ne ero sicuro!”
 
Sullo schermo c’era scritto “Fai schifo. Ti amo!”, nella riga del testo. Sakusa sentì qualcosa di caldo strisciargli su per lo stomaco e, cazzo no, non poteva cedere così. Aveva fottutamente ragione e voleva rimanere arrabbiato per tutto il tempo di cui aveva bisogno. “Quando sei partito?” Domandò a voce bassa, gli occhi ancora fissi su quelle parole.
 
“Immediatamente.” Rispose svelto, il tono di voce urgente. “Non mi sono neanche lavato.”
 
Spostò lo sguardo su di lui, pensoso. “Quando è finita la partita?” Lo vide boccheggiare, cercando di ricordare. “Non ne ho idea, 18:00? 18:30? Non lo so!” Atsumu si portò la mani ai capelli, spostando la frangia indietro e quel gesto aveva un ché di disperato. “È stato un incubo trovare un taxi che non mi lasciasse a piedi, pensa quando scoprivano che dovevo cambiarmi in auto! Ne ho cambiati tre, pensavano fossi un barbone.”
 
Sakusa si lasciò sfuggire un mezzo sorriso divertito e Atsumu riuscì a rilassarsi, avvicinandosi alle sue gambe senza toccarlo. “Avevano un po’ ragione.” Mormorò e lo vide fare una smorfia.
 
“Quale barbone indossa quelle scarpe?” Ribatté, indicando con il mento la scarpiera. “Non sono ancora sul mercato, abbiamo finito le riprese per la pubblicità due settimane fa.”
 
“Come se importasse a qualcuno.” Si leccò il labbro inferiore e lo prese tra i denti, masticandolo pensoso. Atsumu lo notò e lanciò il cellulare sul divano, allungando la mano per prendere la sua. “Omi, sono stato un grandissimo cazzone per settimane. Lo riconosco, lo ammetto e ti chiedo scusa. Ma non puoi capire quanto ti amo e sì, voglio trasferirmi con te.”
 
Sakusa aggrottò lo sguardo, preso contropiede. “Cosa?” La nota di panico nella sua voce era ben percepibile, ma Atsumu ormai era lanciato.
 
“Lo so che non mi sono comportato bene per la faccenda dell’appartamento, ma avevo veramente paura che andassi a vivere da un’altra parte. Ed è stata un po’ una sorpresa quando hai tirato fuori quelle chiavi e …”
 
“Non ti ho mai chiesto di vivere con me.” Scandì secco e chiaro e Atsumu si bloccò, gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta. “Non voglio vivere con te, sarà la prima volta che lavoriamo insieme. Dovremmo sopportarci sia al lavoro che a casa?” Fece un verso di scherno e tolse la mano dalla sua presa. “Non se ne parla.”
 
Atsumu rimase un attimo congelato ad assorbire quelle parole, lo sguardo perso e un’espressione che non riusciva a riconoscere.
 
Ma a Sakusa non interessava se ci fosse rimasto male, seriamente. Svegliarsi, mangiare, allenarsi, tornare a casa e dormire con lui. E di nuovo, ogni cazzo di giorno. No, non era tempo per una cosa del genere.
 
Stavano ancora cercando di funzionare, di mettere in moto il motore. Quando gli ingranaggi avrebbero cominciato ad incastrarsi senza olio e senza spintarelle, superando intoppi senza tutto il caos che erano riusciti a portarsi dietro fino a quel momento, allora sì, potevano pensarci. Trasferirsi nel loro attuale stato avrebbe significato il suicidio di tutta la loro relazione.
 
Ci furono ancora attimi statici, finché Atsumu non prese un respiro veloce, socchiuse gli occhi ed alitò “Oh grazie a Dio.” Cosa che, suo malgrado, gli fece uscire una risatina sbuffante. “Ero terrorizzato, mi sono ritrovato con queste chiavi senza capirci niente e tu eri arrabbiatissimo!”
 
“Sì, perché ti sei comportato da stronzo.” Ribatté, ma la rabbia era ormai svanita, evaporata. Atsumu crollò con la fronte sulle sue ginocchia coperte dal plaid, le mani abbandonate sui lati delle sue cosce ad accarezzarle piano.
 
“Sarebbe un incubo.” Mugugnò e sì, non aveva tutti i torti. “Cioè, sei la ragione della mia vita, ma ancora non sono pronto a passare dalla palestra al letto e guardarti disinfettare qualsiasi cosa ogni minuto, urlandomi inevitabilmente addosso. Scatterei e non sarebbe per niente piacevole.”
 
“Ti prenderei a pugni a metà del secondo giorno.” Accettò tranquillamente Sakusa passandogli le dita tra i capelli sporchi, massaggiandogli la cute con i polpastrelli e con il graffio occasionale delle sue unghie.
 
Atsumu alzò il capo e poggiò il mento sulle sue gambe, guardandolo con un sorriso malizioso e gli occhi brillanti. “Ti amo.” Disse piano e appassionato e Sakusa si sentì le guance leggermente calde.
 
“Vedo che sei veramente in colpa, l’hai ripetuto sedici volte.”
 
“Ti amo. E sono così orgoglioso di te.”
 
“Diciassette. E quello che chiami orgoglio è invidia.”
 
“Non è invidia, è fottuta gelosia. E vanità.” Si sporse per baciarlo e Sakusa lo lasciò fare, perché gli era veramente mancato. “Sto per fare sesso con il signor MVP.”
 
“Sono ancora incazzato e puzzi.” Lo vide alzare gli occhi al cielo e gli venne in mente una cosa importante. “Hai mangiato qualcosa?”
 
“Ho saccheggiato un distributore.” Risposa Atsumu e, davvero, non era una cena quella. Non una per un atleta dopo una partita.
 
“Potrei cucinarti roba decente, ma sarebbe meglio se ci pensassi tu.” Atsumu ridacchiò e Sakusa storse il naso. “C’è del cibo da asporto avanzato.”
 
“Voglio mangiare altro.” Mormorò malizioso e, davvero, non doveva. Sakusa aveva dei principi ben impiantati nel suo essere, delle priorità ferme, granitiche.
 
Si tolse il plaid di dosso, spense la televisione e si alzò, vedendolo spostarsi per lasciarlo passare. “Vieni con me, ti mostro dov’è il bagno.”
 
“È un modo gentile per dirmi che non ci divertiremo finché non profumo?” Atsumu aveva il suo sorriso furbo, quello un po’ laterale e molto infimo che prometteva ed esaudiva la giusta quantità di attenzioni che suggeriva. Era diventato un po’ troppo dipendente da quell’espressione. La scorgeva appena e avvertiva i brividi di anticipazione lungo la sua spina dorsale.
 
“Non ho bisogno di modi gentili.” Sbottò appena cominciando a camminare, perché doveva darsi un contegno. “Ti ho detto che puzzi da quando sei entrato.”
 
“Ti fai la doccia con me?” Domandò Atsumu sornione, raggiungendolo e cingendogli la vita con le braccia, mento sulla spalla e petto contro schiena. Sentiva il suo respiro sulla pelle, nella curva sensibile del collo e, se non voleva inciampare ed uccidersi per terra, sarebbe stato più produttivo non far venire a Sakusa le gambe di gelatina.
 
Allungò quindi una mano all’indietro e gli spinse forte la fronte, allontanandolo.“Mi hai toccato.” Sibilò, avanzando goffamente ed incespicando con le loro gambe troppo lunghe. “Sento i germi di taxi camminare su per le braccia. Chissà dove sono arrivati.”
 
Atsumu scoppiò a ridere e gli scoccò un bacio bagnato sulla guancia, vedendolo arricciare il naso alla sensazione umida. “C’è  bisogno di una pulizia approfondita, allora.”
 
“Ci sarà doccia e cena.” Lo avvertì con uno sguardo laterale. “Sono ancora arrabbiato.”
 
Lo sentì stringere un po’ di più alla vita, affondando il naso sulla sua pelle. “Sì, lo so. Me lo merito.” Il suo mormorio dispiaciuto, soffocato contro la maglia, lo fece sbuffare. Portò la mano sulla sua, contro il suo stomaco, schiacciandola forte.
 
Inclinò la testa poggiando la tempia sul suo capo, aprendo la porta del bagno. “Andiamo a lavarti il cervello con lo shampoo giusto.” Gli disse e sentì il suo sorriso contro la spalla. “Con un po’ di fortuna riusciamo a togliere tutti quei pensieri stupidi una volta per tutte.”
 
 
*
 
 
“Dobbiamo parlare.”
 
Osamu alzò gli occhi dalla piastra per guardare Sakusa dritto davanti a lui, serio come lo vedeva sempre e leggermente sfocato dal fumo chiaro dal profumo stuzzicante che saliva dalla carne che stava cuocendo.
 
Pessima scelta di parole, davvero.
 
Dall’esperienza personale della persona media, le parole “dobbiamo” e “parlare” accostate, insieme a quell’aria grave generale, preannunciavano ansia, disperazione e un voluto o meno proseguo da single. Nella più felice delle ipotesi.
 
Ma lui e Sakusa, ringraziando tutti gli dèi esistenti e no, non stavano insieme. Decisamente, era l’ultima persona che potrebbe sopportare per una relazione romantica e, considerando la ponderata e riflessiva scelta di Sakusa di rovinarsi la vita con suo fratello, quello era un sentimento reciproco. Quindi la frase era decisamente ambigua.
 
Aggrottò le sopracciglia, confuso.
 
Il servizio era agli sgoccioli. Si stavano avvicinando all’orario di chiusura ma c’era ancora qualche cliente e, davvero, dov’era il suo dannato tempismo?
 
“Ti sembra il momento?” Domandò ironico, lavorando veloce di spatola per girare dei bocconcini di maiale. Qualunque cosa dovesse dirgli poteva aspettare.
 
“Direi di sì, hai assunto un aiuto-cuoco apposta. E c’è poca gente.” Sakusa sapeva affondare i denti e non mollare se sentiva di avere ragione, doveva dargliene atto. Ma erano ancora al lavoro.
 
“Il tavolo otto voleva altre bevande.”
 
“Ho rifornito tutti.” Rispose secco e rapido. Osamu riconobbe il tono leggermente offeso e strinse le labbra per fermare il sorriso soddisfatto per l’inconsapevole fastidio. “So fare il mio lavoro.”
 
“Inoue-san non può …”
 
“Inoue-san è stato più che felice di poter controllare i miei tavoli.” Alzò lo sguardo stretto verso la sala e sì, i tavoli erano quasi tutti vuoti. Inoue-san lo guardava, sorridendo ed agitando la mano in segno di saluto, giusto per prenderlo in giro.
 
Storse la bocca e scoccò un’occhiata a Kaneko-kun accanto a lui, che gli rivolse un piccolo ghigno storto. “Avete segreti tutti vostri?” Chiocciò derisoria. “Oooh per favore, posso spettegolare con voi?”
 
“Parleremo di contrattazione e infimi mezzi di riscatto e ricatto.” Le spiegò Sakusa con tono uniforme, facendogli alzare gli occhi al cielo.
 
“Sakusa-kun, mi avevi già conquistata stando lì e sembrando malignamente edibile in quei pantaloni grigi.” Gli fece l’occhiolino e spinse Osamu con un colpo di fianco, rubandogli la postazione alla piastra. “Non esagerare, altrimenti passerò la notte a soddisfarmi con fantasie strane.”
 
“Sì, ecco, non dire queste cose davanti a Tsumu. Mai.” Suo fratello aveva già troppi problemi mentali creati da sé stesso a cui far fronte, non capire le prese in giro di Kaneko-kun era soltanto l’ultima spalata di merda su una montagna di dimensioni industriali.
 
“Dille pure, non è un mio problema se dà di matto.” Intervenne Sakusa inutilmente.
 
“Vivo solo per quello.” Kaneko-kun sogghignò, allungandosi verso i fornelli per saltare le verdure nel wok.
 
Kaneko-kun adorava Atsumu e Atsumu stravedeva per lei. Forse perché avevano una passione simile per lo styling dei capelli, forse per lo stesso gusto negli uomini, che si manifestava nel loro divertimento comune nel commentare la linea incazzata di Sakusa durante la pulizia dei tavoli e nel loro appuntamento fisso nello scegliere con chi dovesse uscire quella settimana Kaneko-kun tra tutti i suoi stranamente numerosi pretendenti, o forse, ancora, perché erano entrambi stronzi, più semplicemente.
 
Ma la passione di Kaneko-kun nel far impazzire Atsumu con gli argomenti più vari era esemplare. Rin e Motoya l’avrebbero amata.
 
Appuntò mentalmente di non farli mai incontrare, perché il genere umano non era ancora pronto per una riunione del genere e, ad essere sinceri, non lo sarebbe mai stato.
 
Kaneko-kun gli diede una leggera gomitata. “Vai pure, grande capo. Farò un lavoro migliore del tuo.”
 
“Ti piacerebbe.” Mormorò Osamu, lasciandole il posto e andando a pulirsi le mani. “Non bruciare il maiale.”
 
“È successo solo una volta!” Si lamentò Kaneko-kun alzando gli occhi al cielo. “Ed era totalmente colpa di Atsumu.”
 
“Abbrustolito è più buono.” La difese Sakusa cominciando ad avviarsi verso la zona dipendenti.
 
“Sei vissuto con il cibo dell’università, avrai le papille gustative polverizzate.” Sakusa non rispose ma alzò le spalle in un muto assenso.
 
Non era da Sakusa interrompere il servizio per qualcosa di personale. Osamu ormai lo conosceva abbastanza da sapere che, le voci che giravano alle superiori, erano in parte vere: Sakusa Kiyoomi era un robot mandato dal pianeta pallavolo con una missione e non avrebbe abbandonato la terra finché non avesse raggiunto il suo obiettivo.
 
Atsumu, all’epoca, ci aveva creduto. Ora non più, a giudicare dal sorriso schifoso che aveva in faccia ogni volta che tornava da un appuntamento con lui.
 
Una cosa, però, era vera: quando Sakusa iniziava qualcosa, l’avrebbe finita.
 
Quindi il suo avvicinamento era dovuto a qualcosa di importante, di urgente, che non avrebbe potuto aspettare ulteriormente. Il suo atteggiamento flemmatico e tranquillo, però, lo spinse a non strapparsi i capelli e ragionare su una cosa molto precisa.
 
Osamu sospirò, rassegnato.
 
Sapeva perfettamente cosa volesse Sakusa da lui: era ora di lasciare il nido.
 
Era pronto da settimane per quel giorno. Mesi. Anni, in realtà. Da quando aveva messo piede dentro il locale, sapeva già che non sarebbe rimasto.
 
Doveva arrivare quel giorno, prima o poi. Ed eccolo qui, a guardare quella schiena ampia occupata ad aprirgli la strada per il suo ufficio. Era dispiaciuto e commosso al tempo stesso, perché Sakusa era entrato nella sua vita inaspettatamente ma, doveva ammetterlo, ne era stato felice. Alla fine, però, perché gli inizi erano stati un po’ rocciosi.
 
Gli sarebbero mancate le sue risposte odiose, sempre pronte a distruggere l’anima delle persone con quella voce monotona e ironica, come avrebbe fatto il suo sguardo incattivito ogni volta che puliva il bancone con qualcosa di meno che accettabile per la sua stessa esistenza sensibile, o anche la sua stazza da atleta e l’espressione aggrottata, particolarmente utile per allontanare quegli idioti malintenzionati che decidevano di rischiare e di mettere piede entro suo raggio di azione, non riuscendo ad arrivare nemmeno al bancone.
 
Sorrise, ripensando ai loro pomeriggi tranquilli a rimettersi in pari con le partite, gli snack e le discussioni appassionate che andavano avanti per ore, le lezioni teoriche di pallavolo ad Inoue-san e, adesso, Kaneko-kun, perché non era minimamente pensabile che i suoi dipendenti non avessero almeno un’infarinatura generale dell’argomento. I consigli sempre sentiti, le “riunioni di bilancio” in cui entravano pieni di buone intenzioni e uscivano con il cervello fuso strabordante di numeri, gli insulti amorevoli e le prese in giro più o meno mirate.
 
Erano stati anni fantastici, quelli.
 
Un rivale diventato un amico.
 
Il suo primo dipendente.
 
Sentì gli occhi pizzicare di botto, sicuramente per la polvere inesistente che era volata fin sulla sua faccia.
 
Entrò nel suo ufficio e si sedette sulla poltrona girevole, lasciando a Sakusa il posto davanti alla scrivania. Lo vide guardarlo un po’ male per quello e se ne compiacque.
 
“Allora,” Cominciò, tamburellando le dita tra loro come un cattivo di serie B. “Sakusa Kiyoomi.”
 
“Smettila.” Sakusa lo fissò con sguardo stretto. “Devo dirti una cosa.”
 
“Prima io.” Osamu prese da sotto il tavolo un raccoglitore, buttandolo sulla scrivania con un tonfo pesante. Dei fogli fuggirono con uno sbuffo cartaceo. “Ho parlato con Kosaku-kun, non preoccuparti per il preavviso, considerati licenziato.”
 
Lo vide battere le palpebre più volte, poi chiuderle strette e aggrottare le sopracciglia. La sua espressione era simile a quella che assumeva quando Atsumu o Motoya dicevano qualcosa di particolarmente stupido e, seriamente, era del tutto fuori luogo. “Di cosa stai parlando?” Gli uscì fuori e c’era pura sofferenza nella sua voce.
 
“Stai dando le dimissioni e ti spetta la liquidazione.” Evidenziò l’ovvio Osamu, cominciando a tirare fuori i fogli interessati. “Ma non hai dato il preavviso, quindi ti licenzio io così non ci sono problemi. Perché cazzo, c’è un iter da seguire, stronzo.”
 
“Non mi serve la tua liquidazione e non voglio dimettermi.” Sibilò Sakusa cercando di bloccarlo. “Almeno non ancora. Metti questa roba dentro.”
 
“Ma ho fatto i conti!”
 
“Bravissimo. Ora smetti di dire stronzate e ascoltami.”
 
“Ho preparato tutto.” Continuò Osamu mettendo dei documenti fitti di scrittura davanti al suo naso. “Tu ora firmi qua e nessuno si farà male.”
 
Lo vide buttare un’occhiata sul foglio e sbuffare. “Non è la data di oggi.”
 
“Non ti deve interessare.”
 
Sakusa prese il foglio, lo lesse velocemente e lo accartocciò davanti il suo sguardo incazzato. “Non voglio ancora licenziarmi.” Sibilò, buttando la palla nel cestino. “Ho una proposta per te.”
 
Osamu era allibito. “Sai quanto ci ho messo per scrivere quel documento?”
 
“È una forma standard e, anche se fosse, l’ha fatto Kosaku-san. Ora concentrati.” Osamu sbuffò forte dal naso e si appoggiò allo schienale della sedia, braccia conserte e palpebre pesanti sugli occhi.
 
Sakusa era serio, davvero serio. E lo aveva preso contropiede, perché si stava preparando da settimane a quel giorno che, evidentemente, non era proprio quel giorno.
 
Avrebbe dovuto far stampare a Kosaku-kun un nuovo documento.
 
“Stai cercando di arrivare a Tokyo.” Cominciò Sakusa, calcando la parola “cercando” con così tanta cattiveria che gli fece salire i nervi. “Non ci stai riuscendo.”
 
“Sei venuto qui per fare lo stronzo?”
 
Lo vide sospirare. “Non puntare ad altre città.” Disse, ignorandolo totalmente. “Scegli qualcuno per sponsorizzarti.”
 
Osamu aggrottò le sopracciglia. “Cosa?”
 
“Se riesci a contrattare, avrai via libera in qualunque stadio, arena o palazzo dello sport. Ovunque si vada.” Spiegò facilmente e, cazzo, non ci aveva mai pensato. “Puoi farti conoscere ovunque. Lasci Kaneko-san qua al ristorante, assumi un altro cameriere, ti porti dietro Inoue-san e fai il tuo lavoro fuori da Osaka. O fai come ti pare, il locale è tuo, sai meglio di tutti cosa fare e chi lasciare.”
 
Era … buono, pensò, un fremito di anticipazione che si spandeva nel petto. Molto buono.
 
Avrebbe preso uno stand, avrebbe portato il suo cibo, sarebbe uscito da quel circolo che sentiva stretto. Avrebbe potuto esplorare gusti diversi, poteva fare accostamenti a cui non aveva pensato, avrebbe preso ispirazione dal cibo locale.
 
Ma c’era un problema grosso come un grattacielo.
 
“Mirare ad un atleta di un certo livello sarebbe …”
 
“Dispendioso.” Sakusa sospirò, accettando con un rapido ragionamento. “Sì, non ti converrebbe adesso.”
 
Osamu storse il naso, dispiaciuto per l’occasione persa. Perché ovviamente c’era sempre il problema dei soldi, ovunque guardasse.
 
La sua, in fondo, era una piccola attività. Un semplice ristorante specializzato in onigiri. Aveva pensato di cercare locali più piccoli, più concentrati, ma aveva comunque bisogno di elementi base già presenti per la cucina, la pulizia, il magazzino e quei posti non erano per niente economici.
 
Sembrava quasi che quei dannati soldi lo stessero prendendo in giro.
 
“Hai pensato ad Atsumu?” Domandò Sakusa inclinando la testa. “È un atleta, è conosciuto ed è tuo fratello.”
 
“Tsumu mi ha già aiutato con il ristorante e lo pubblicizza in continuazione sui social.” Lo bloccò immediatamente, lo sguardo basso ma deciso. “Non se ne parla, deve pensare anche a sé stesso. Non sto nella merda come all’inizio, troverò qualcosa.”
 
Atsumu aveva la sua vita a cui pensare, non poteva sempre correre a tappare le sue mancanze.
 
Poteva prenderlo in giro, deriderlo, sostituirgli il deodorante con l’olio spray quando non prestava attenzione, ma se non fosse stato per lui non sapeva se avrebbe potuto aprire il suo locale.
 
Atsumu aveva investito sulla sua felicità, quella che non aveva accettato quel pomeriggio del liceo e ancora dopo, per settimane. Quella contro cui combatteva, la scommessa della loro vita in corso finché uno dei due non fosse morto. Quella che aveva visto nascere, dalle sopracciglia bruciate per una fiamma troppo alta agli esperimenti rischiosi con gli avanzi della domenica, e crescere, in quel ristorante che era il suo orgoglio e la sua dannazione al tempo stesso.
 
Doveva tutto ad Atsumu e non gli avrebbe dato un’altra cosa di cui occuparsi. Doveva andare avanti da solo.
 
“Ovviamente.” Disse Sakusa, e dal tono sembrava intendesse che Osamu avesse il cervello leso. “Ti rimango io.”
 
Osamu batté le palpebre lentamente, poi alzò lo sguardo per guardare Sakusa davanti a lui. Era serissimo. “Cosa stai proponendo esattamente? Perché non sei proprio uno alle prime armi.”
 
“Lo sono nel mondo professionistico. Sulla carta, almeno.” Prese un foglio piegato in un quadrato dalla tasca dei pantaloni, aprendolo con dita sicure e precise. “Ho parlato con Fukuda-san e con Jirou-san.”
 
“Chi diavolo è Jirou-san?”
 
“Il mio PR manager.” Gli scoccò un’occhiata velenosa e Osamu si morse la lingua. Spinse il foglio sotto la sua faccia, battendo su una riga particolare. “Sono un novellino, praticamente nessuno. Finché non vengo presentato e introdotto in partita valgo pochissimo.”
 
“Cazzo, Sakusa, non mi stai dicendo quello che penso.” Perché sarebbe stato ridicolo. Folle.
 
Perché sarebbe scoppiato a piangere e non voleva, porca miseria, aveva una reputazione da mantenere.
 
“Non voglio soldi. Non voglio liquidazione. Investi tutto in un furgoncino refrigerato.” Sentiva gli occhi pizzicare sempre di più, il naso cominciare a prudere. Strinse le palpebre e soffiò forte, il respiro appena tremulo e bagnato. “Quando ti porterò il documento originale, lo dovrai firmare. Anzi, organizzo un incontro. Ti va bene mercoledì?”  
 
“Non posso.” Uscì di poco, un filo di voce trattenuto, perché se avesse parlato sarebbe scoppiato.
 
“Non mi frega niente, lo firmi.” Lo sentì muoversi e la sedia scricchiolare, quindi doveva essersi di nuovo poggiato allo schienale. “Atsumu sa falsificare la tua firma.”
 
Era illegale, avrebbe dovuto ricordarglielo.
 
Aprì gli occhi e vide quasi sfocato. Si morse il labbro, affondando i denti fino a fargli male perché doveva capire se era davvero tutto vero.
 
Sakusa prese un respiro. “Osamu, mi hai dato una possibilità quando altri non mi hanno nemmeno guardato due volte.” Spostò lo sguardo su di lui e la vista si fece ancora meno nitida. “Non ero un buon acquisto, ma mi hai assunto comunque.”
 
“Mi serviva aiuto.” La voce era gracchiante e se la schiarì, più volte. “Non è stato così speciale.”
 
“Potevi prendere chiunque altro, più qualificato e meno problematico.” Lo guardò con le sopracciglia alzate. “Soprattutto meno problematico.”
 
“Non sei il problema che pensi, sai? C’è gente molto più rompicoglioni di te.” Si passò le dita sulle palpebre, perché le sentiva umide. “Atsumu, ad esempio.”
 
“Avrei detto Motoya.”
 
Osamu sbuffò una risata. “Anche, ma per motivi diversi.” Sospirò e spinse il foglio verso di lui. “Non posso accettare.”
 
“Non mi interessa.”
 
“Non puoi fare questa cosa gratuitamente, che cazzo.” Osamu riprese il foglio e lo lesse velocemente, senza capirci veramente nulla. “Devo pagarti in qualche modo.”
 
“Non hai detto ad Atsumu dove abitavo, mi basta.” Sbuffò, alzando gli occhi al cielo. “Lo avrei fatto anche se non me lo avessi chiesto. Davvero credevi mi sarei lasciato scappare l’occasione per vederlo brancolare?”
 
Lo vide alzare le spalle. “Per me è ripagato.”
 
“Ti ha detto che ti ha seguito come uno stalker quella sera che avete litigato?” Sakusa annuì corrucciato, ma le orecchie si arrossarono leggermente. “Ha preso la macchina e, quanto ha fatto, sei metri?”
 
“Abito a quattro isolati da voi.”
 
“Beh, è tornato a casa con delle cascate che gli uscivano dagli occhi dicendo di aver rovinato tutto e che lo avresti mollato per qualcuno meno patetico di lui.” Sogghignò tremulo e il cipiglio di Sakusa si fece più profondo. “Almeno da quanto ho potuto capire.”
 
“Smettila.” Gli strappò il foglio dalle mani e lo ripiegò, rimettendolo in tasca. “Avverto Jirou-san di cominciare a compilare i documenti originali.”
 
“Ho detto di no.”
 
“Mi ripagherai nutrendomi fino a che non decido di convivere. Poi vedremo.” Lo vide alzarsi dalla sedia e Osamu lo fissò con gli occhi enormi. “Aspetta, Tsumu lo sa?”
 
“Non ho intenzione di farlo adesso, se la cosa ti preoccupa.” Lo guardò male, come se fosse stupido. “Non sono matto.”
 
Quello era tutto da vedere, ma ancora non aveva ben compreso la cosa più importante. Osamu scattò dalla sua sedia, sbattendo le mani sul tavolo. “Non posso darti onigiri in cambio del mondo, non è la stessa cosa. Lo capisci?”
 
Sakusa sospirò stancamente. “Fammi mangiare gratis a vita, allora.”
 
Davvero, era troppo.
 
Osamu fece il giro del tavolo, si bloccò un attimo davanti a lui e fece una cosa che non aveva mai pensato di fare in tutta la sua vita.
 
Lo abbracciò.
 
Sentì Sakusa rigido attorno alla sua presa, le spalle tese, le braccia lungo i fianchi e il respiro come paralizzato. Rimasero fermi così, per alcuni secondi, finché non lo sentì espirare lento e caldo sulla spalla e sul collo, le membra che si rilassavano un po’ di più, sempre di più ad ogni respiro, e le sue mani che si poggiavano piano sulla vita, prendendogli la maglia a manciate.
 
“Mi stai bagnando la felpa.” Lo sentì mormorare e Osamu lo strinse di più, accorgendosi solo in quel momento di stare piangendo.
 
“Non è vero.” Singhiozzò, schiacciando la faccia sulla sua spalla.
 
“Spero siano solo lacrime.” Si allontanò leggermente tirando su con il naso e no, non erano solo lacrime. Si fece sfuggire un singulto e si ributtò su di lui. Sakusa sospirò. “Dopo voglio un cambio.” Lo informò spietato. “È stata un’idea di Atsumu. Sapeva che saresti stato troppo orgoglioso per chiederlo a lui.”
 
Grandissimo bastardo.
 
L’avrebbe pagata, le avrebbe pagate tutte. Dopo, però.
 
Ora voleva starsene in quel modo con il suo quasi cognato, ad insozzargli la felpa con moccio e chissà cos’altro e a fargli capire che per lui era diventato più che un semplice dipendente.
 
“Grazie.” Uscì soffocato e bagnato, ma bastò. Sakusa afferrò meglio la maglia a livello della sua schiena, forte, le dita affondate nella stoffa. Affondò il naso nella sua spalla, stringendolo forte.
 
“Grazie a te. Per tutto.”   
 
 
*
 
 
“Dobbiamo parlare.”
 
“Sai, l’ultima volta che uno della tua famiglia ha detto una cosa del genere, Inoue-san ha assistito a qualcosa di molto spiacevole.”
 
Motoya strinse le palpebre e allargò il suo sorriso verso Osamu, un luccichio negli occhi che prometteva guai.
 
Era ora di pranzo e, sinceramente, Suna non pensava di dover dividere l’attenzione tra il boccone di noodles che cercava di portare in bocca senza sbrodolare e l’uscita malvagia di Motoya. Pensava desse loro almeno il tempo di digerire prima di dire qualsiasi cosa potenzialmente distruttiva.
 
“Ho sentito che ci sono state lacrime coinvolte.” Canticchiò Motoya, giocherellando con le bacchette tra le dita, dondolandole con fare subdolo. “Scommetto che Kiyoomi ha pianto.”
 
“Qualcuno ha pianto.” Sogghignò Suna, guardando Osamu aggrottare le sopracciglia profondamente offeso. “Non era Sakusa.”
 
“Mi era entrato un elicottero nell’occhio.” Brontolò, agganciando una manciata enorme di noodles con le bacchette e ficcandoseli in bocca neanche stesse morendo di fame, il vapore che gli inumidiva la parte di pelle subito sotto il naso.
 
“Un elicottero riccio con una cattiva personalità?” Domandò Suna oziosamente e ridacchiò, beccandosi un dito medio in faccia.
 
Motoya scoppiò a ridere, alzandosi in piedi di scatto come se si fosse ricordato di qualcosa giusto in quel momento e muovendosi verso l’ingresso velocemente. Il sorriso di Suna congelò e cominciò ad avvertire una strana sensazione alla bocca dello stomaco. “Che stai facendo?” Domandò piano e, davvero, non aveva un buon presentimento. Non dopo quello che era successo l’ultima volta, almeno.
 
A volte ci ripensava, ritornando a quei momenti tesi che lo lasciavano agitato e ansioso. Col senno di poi, non era stata un’idea geniale affrontare la questione. Forse avrebbero dovuto lasciarla così com’era, in quel limbo antipatico e rigido ma stranamente sicuro, con la certezza che le cose non sarebbero state definite in alcun modo mantenendo la loro amicizia intatta.
 
Lo aveva pensato spesso: forse era stato tutto un errore.
 
“Devo prendere una cosa.” Sentì mugugnare Motoya, adoperandosi a cercare nelle mille tasche del suo cappotto appeso all’attaccapanni. “È qualcosa di importante.”
 
Osamu deglutì il suo boccone rumorosamente, allargandosi il colletto della maglia per il calore del brodo che lo aveva investito di getto. “Non starai cercando di ucciderci, vero?” Chiese con voce cruda e Suna non era sicuro fosse dovuto solo al liquido troppo caldo.
 
“Una pistola non entra in una tasca.” Mormorò, cercando di spezzare la tensione. Osamu gli scoccò un’occhiata saputa dall’alto della sua nulla esperienza per thriller e polizieschi. “Non nelle sue, almeno.” Convenne allora Suna e questo sembrò essere accettato.
 
Motoya tornò indietro e Suna occhieggiò le sue mani. Niente pistola. Erano salvi.
 
Lo vide sospirare profondamente e poi guardarli. Nei suoi occhi c’era una fermezza precisa che fece scattare i suoi campanelli di allarme come fossero impazziti. “Ragazzi, ho pensato.”  
 
Non erano salvi per niente.
 
Quelle erano le ultime parole che stava aspettando ed avevano il potere di gelargli il sangue nelle vene. Poteva sentirlo vagare ghiacciato, circolare lento prima nelle braccia, poi nel petto, bloccandogli i polmoni con un respiro trattenuto. Sentì la mano tremolare, le dita agitate e le strinse forte in un pugno per non renderle visibili.
 
Era presto, pensò. Non era pronto.
 
Avevano decisamente fatto un errore.
 
Sentì il panico inondarlo, mille pensieri al secondo che gli investivano il cervello e nessuno che spiccasse con chiarezza, una confusione di domande agitate e rumore bianco.
 
Lui e Osamu avrebbero dovuto farsi gli affari propri, continuare la loro relazione magnifica e non andare avanti con … con … con cosa? Qualcosa di impossibile, ecco.
 
Impossibile, perché chi diavolo avrebbe accettato una situazione del genere? Motoya stava cercando di scapparne, per Dio, cercava qualcuno che non fossero loro, farsi una vita con una persona sola che gli avrebbe dato tutto, perché se lo meritava, si meritava tutto il bello di questo mondo.
 
Gli arrivò un colpo al fianco e si risvegliò dai suoi pensieri di botto. Alzò la testa che non si era accorto di aver abbassato, battendo le palpebre piano e lento, la vista piena di Osamu intento a guardarlo serio e di Motoya con un debole sorriso sulle labbra.
 
“Ho riflettuto tanto.” Disse morbidamente Motoya, la mano sul tavolo stretta in un pugno. “Sono mesi che penso. Perché, nonostante quello di cui siete convinti, tengo tantissimo a voi.”
 
“Quindi?” Chiese Osamu e la sua posa era cambiata. Si era appoggiato allo schienale della sedia, aveva adagiato le mani sulla pancia e sul viso c’era la solita espressione scazzata: palpebre pesanti e occhi un po’ vuoti.
 
Suna lo conosceva come le sue tasche e quella era la classica facciata che metteva su nei momenti critici. Dentro, ne era sicuro, stava tremando quanto lui.
 
Motoya si morse forte l’angolo delle labbra e abbassò lo sguardo sulla sua mano. La aprì e dentro c’erano due chiavi.
 
Non capì subito cosa stesse guardando. Non aveva ben presente, in un primo momento, a cosa servissero e perché le tenesse lì, adagiate sul suo palmo leggermente sudato. Poi, Motoya parlò e le cose si fecero ancora più complicate. “Ho deciso di trasferirmi.”
 
Cazzo. Cazzo cazzo cazzo cazzo. Avevano rovinato ogni cosa, sarebbe andato via e tutto sarebbe cambiato.
 
Suna si passò una mano tra i capelli, un sospiro scontento e tremante che gli usciva dal naso.
 
Non doveva andare così. Non doveva assolutamente andare così.
 
Era tutto sbagliato, tutto sbagliato, tutto sbagliato.
 
Se lo ripeté come un mantra. Tutto sbagliato, tutto sbagliato. Non riusciva a pensare ad altro che a quelle parole, una maledizione continua e perentoria.
 
Spostò lo sguardo di lato, guardando il profilo di Osamu pensando di trovarlo distrutto come lui.
 
Ma Osamu era furioso. Lo vedeva nel lampi nelle sue pupille, nelle narici strette e le labbra schiacciate tra loro. “Perché?” Sibilò a bassa voce e Suna alzò preoccupato gli occhi su Motoya.
 
Stava sorridendo.
 
Era solare, era spensierato, era divertito. Era come al solito, allegramente sicuro di sé stesso. Perché?
 
“Se te le dico, smetterai di ringhiare?” Cinguettò, facendo slittare con un colpo le chiavi fino al centro del tavolo. Nessuno di loro due allungò la mano per prenderle. “E tu di tremare, davvero Rin, calmati. E respira, non c’è niente di preoccupante.”
 
Non si era accorto di aver trattenuto il respiro così a lungo finché non dovette pensare di liberare i polmoni. Samu agganciò una gamba con la sua e il contatto fermo  e un po’ duro lo portò a rilassarsi, a riconnettersi. Faceva un po’ male, perché Samu non era delicato con queste cose, ma gli serviva.
 
Samu sapeva sempre cosa gli serviva.
 
“Ragazzi, questa cosa è grossa.” Iniziò Motoya piano. “E mi sono distrutto il cervello per riuscire a cercare qualcosa di sbagliato a cui potevo appigliarmi. Qualsiasi cosa, anche la più stupida.” Tamburellò le dita sul tavolo e il sorriso divenne più ampio, più bello. Li guardò con un calore così forte, così potente, che riuscì a sentirlo sulla pelle e sembrò attenuare leggermente l’agitazione che l’aveva invaso.“Non ci sono riuscito. Non ne ho trovata nemmeno una. A parte quelle ovvie, ma pensandoci bene è più un problema di altri che mio. E diciamocelo, degli altri non me ne è mai fregato niente.”
 
Ma si trasferiva.
 
Si trasferiva, cavolo, quindi doveva per forza aver trovato un qualcosa che non andava bene, qualcosa che non voleva affrontare o per cui non aveva forza o coraggio o chissà cosa.
 
Perché cazzo si trasferiva?
 
“Siete stati molto carini a concedermi il tempo che mi serviva. Meno a farmi sentire tutto il sesso bollente che fate in camera.”
 
“Ha funzionato?” Domandò Osamu e Suna si girò a guardarlo, vedendolo calmo e sornione e non capiva come potesse aver potuto cambiare stato d’animo dopo solo una manciata di secondi. La presa sulla sua gamba, però, lo stava schiacciando, e solo da lì seppe che era tutta facciata.
 
“Altroché, sono curioso di cosa hai fatto ieri a Rin a circa sette minuti dall’inizio.” Chiocciò Motoya e Osamu ridacchiò. “È uscito un suono che mi ha decisamente interessato.”
 
“Cazzo.” Sibilò Suna, ma stranamente sentiva l’inizio di una risata in gola e scosse la testa per non farsi vedere divertito. “Non dovevi essere in casa.” Si sentiva più calmo, adesso. Le dita avevano bloccato il loro tremolio e si fidò di lasciarle libere dalla stretta che si era imposto.
 
“Sono rientrato quasi subito, avevo deciso di affrontare la questione ma avevate cose più divertenti da fare.”
 
“Potevi unirti.” Sorrise Osamu. “Fidati, non ti avremmo per niente cacciato.”
 
“Oh, lo immagino. Ma, ecco, forse è meglio parlare prima di fare qualcosa.” Stette zitto per un paio di secondi. “Ho comunque contribuito a modo mio.”
 
“Quindi non erano i vicini, stavolta.” Mormorò Suna con un pallido ghigno. “Mi sembrava troppo forte.”
 
“Oh no, ero totalmente io!”
 
“Non li sento da un po’, adesso che ci penso.”
 
Motoya si passò la lingua sul labbro inferiore. “A tal proposito, dobbiamo rendere la situazione meno opprimente.” Cominciò a spiegare e stavolta l’ansia che sentiva era solo una patina, solo un accenno di insicurezza. “Devo renderci liberi di agire come credete e come credo io. E andarmene da qua è la soluzione migliore.”
 
Prese un respiro profondo, mise su un ghigno dispettoso e disse. “Voglio che mi corteggiate.”
 
Se Suna scoppiò a ridere, Osamu batté le palpebre allibito. “E questi mesi cosa avremmo fatto?”
 
“Oh, è facile farlo quando cerco di darvi spazio e vedendomi girare in mutande dentro la stessa casa.” Il luccichio negli occhi di Motoya era malvagio e sentì Samu sbuffare. “Fatelo come se fossi un tizio qualunque che avete incontrato qualche tempo fa. Rimanete in questo stesso appartamento, scopate quando volete, pensate al mio strabiliante fascino sotto la doccia …”
 
“Quello già lo facciamo.” Lo informò Suna piacevolmente. Motoya non si scompose. “Perfetto, fatelo di più. Fatevelo a vicenda.”
 
“Quello lo dobbiamo provare.” Gli sussurrò forte Osamu.
 
“Ma siete una coppia da anni, state facendo di tutto per riunirvi e siete pronti per una convivenza.” Suna lo vide mordere il labbro un po’ insicuro. “ Io no. Non voglio cominciare qualcosa di così serio quando non sappiamo nemmeno se funzioneranno le cose più stupide.”
 
“Tutti questi anni …” Iniziò Osamu ma Motoya lo sbloccò.
 
“Tutti questi anni non ero niente per voi, solo il coinquilino di Rin.” Vide Osamu rimanere fermo per un secondo e poi annuire, accettando. “Voglio uscire con voi, voglio conoscervi dentro e fuori, voglio avere il tempo di fantasticare su come apparite quando siete incazzati, al mattino dentro al letto, come siete nudi e insieme, voglio sapere le cose belle e le cose brutte. Voglio una relazione.”
 
“Allora esci con noi.” Mormorò Suna ed era davvero felice. Scosse la gamba ingabbiata, non sopportando più la pressione e Samu lo liberò, sentendolo finalmente calmo. “Andiamo da qualche parte che ti piace o che piace a me o a Samu, andiamo al karaoke.”
 
“Tu odi il karaoke.” Ridacchiò Motoya.
 
“Tutti noi odiamo il karaoke.” Borbottò Osamu con un sorriso.
 
“E allora decidete voi dove cazzo andare, ma facciamo questo appuntamento.” Prese un sospiro tremante, ma stavolta era pura anticipazione. “Toya, questa cosa è nuova anche per noi. Ci sei praticamente entrato in scivolata sul crociato, ti rendi conto di quanto è stato terrificante? Samu ha pianto!”
 
“Sì, certo, buttiamo la merda su di me.” Brontolò Osamu.
 
“Samu piange un po’ troppo questo periodo.” Lo prese in giro Motoya.
 
“Siete due stronzi e non voglio più giocare con voi.” Osamu si alzò tra le risate di Motoya e Suna, aprendo il frigorifero. “Invece di darmi il tormento, dicci dove ti dobbiamo venire a prendere.”
 
“È lontano?” Domandò Suna, versandosi un bicchiere d’acqua.
 
Il sogghigno di Motoya si allargò. “Due passi contati.”
 
 
*
 
 
“Quindi abita alla porta accanto? Cioè, esci da lì e te lo ritrovi davanti?”
 
“Già.”
 
“Comodo così.”
 
Osamu scoccò a suo fratello uno sguardo omicida, vedendolo entrare nel locale e spalmarsi sul bancone con le braccia a mo’ di stella marina, la guancia schiacciata sul piano in legno.
 
Lasciò cadere la cassa che tratteneva sul bancone con un tonfo pesante a qualche millimetro dalle sue dita spalancate. Nemmeno un tremito, nessuno spasmo, cieca fiducia nel non distruggere le sue armi di lavoro. O, forse, era semplicemente stanco.
 
Il Kurowashiki mieteva vittime ogni anno. Per la prima volta da quando aveva aperto il ristorante, Osamu aveva potuto unire l’utile e il dilettevole come sponsor di Sakusa per tutti i giorni previsti, godendo in maniera quasi orgasmica per la visione in prima linea della rovinosa caduta di culo di suo fratello di quella sera, avvenuta immediatamente dopo aver fatto il figo senza diritto, il tutto mentre i suoi onigiri terminavano nei suoi espositori e finivano tra le fauci goduriose dei clienti alla velocità della luce.
 
Caduta di culo metaforica, ovviamente. Mancava solo fosse reale e quella sarebbe stata la giornata migliore della sua vita.
 
“Perché sei qua e non da Sakusa?” Si costrinse a chiedere, perché non voleva avere a che fare con il broncio di Atsumu dopo una sconfitta. Era compito di Sakusa, quello, se ne era preso la responsabilità diretta nel momento in cui aveva deciso che uscire con suo fratello non era poi un’idea così malvagia.
 
Atsumu si rabbuiò. “Omi mi ha cacciato.”
 
Davvero, non stentava a crederlo.
 
Sakusa era uscito dal campo con un’espressione talmente nera che non ebbe il coraggio di prenderlo in giro o cercare di tirarlo su di morale. Perdere contro gli Adlers era stato pesante e Sakusa aveva più di un conto aperto con Ushiwaka.
 
Sakusa aveva salutato lui e Inoue-san con un secco cenno del capo, poi si era allontanato verso lo spogliatoio con gli occhi fissi davanti a sé, la mente ancora concentrata sulla partita.
 
“Ha chiesto all’allenatore i video di oggi.” Spiegò Atsumu con tono cupo. “Si è messo in pigiama, si è messo una di quelle sue maschere di bellezza in faccia, si è preso quel barattolo di umeboshi che continui a riempirgli e ha programmato di vedersi la partita in loop finché non avrà finito di segarsi su Ushiwaka, probabilmente.” La guancia schiacciata non bloccava suo fratello dal borbottare ininterrottamente, per sua sfortuna. La gelosia immotivata era solo la ciliegina finale su una giornata di merda.
 
“Non potevi vederla con lui?”
 
“Ci ho provato.” Mugugnò scontento. “Appena ho cominciato a prendere in giro Tobio-kun per quei capelli da sfigato che si è fatto, mi ha detto che lo disturbavo e mi ha ordinato di tornarmene a casa mia.”
 
A Sakusa invidiava solo il fatto che riusciva a farsi ascoltare da Atsumu nonostante tutto. Avrebbe potuto sibilargli sgarbatamente di andare a contare i chicchi di riso nel campo infinito di Kita-san ed Atsumu ci si sarebbe fiondato, borbottando e lamentandosi, ma comunque facendolo contento fino allo schifo.
 
Osamu sospirò. Sarebbe piaciuto anche a lui quel superpotere. 
 
Invece no, era costretto a sentirlo lanciare maledizioni contro Hoshiumi e i suoi salti contro natura.
 
“Almeno renditi utile, idiota.” Osamu gli diede un calcio che quasi lo fece slittare fuori dallo sgabello. “Aiutami a scaricare la roba.”
 
“Sono stanco. E avevo in programma di consolarmi con Omi.” La sua faccia si rabbuiò ancora di più. “Non voglio aiutarti, voglio una maschera al cetriolo.”
 
“Il tempo che scarichiamo la roba Sakusa sarà abbastanza calmo da potertene andare affanculo da lui, quindi alza il culo.”
 
“Stronzo.” Bofonchiò, ma si avviò verso il furgoncino refrigerato che aveva comprato qualche tempo prima e che gli stava salvando la vita. “Perché hai mandato via Inoue-san?”
 
“Perché il suo orario era finito da un pezzo e non ho l’hobby di sequestrare il personale.”
 
Osamu vide suo fratello fare una smorfia nel prendere uno scatolone. Forse gli doleva qualcosa, pensò un pizzico preoccupato. Sembrava la spalla destra, almeno da come caricava il lato opposto. “Tutto ok?” Domandò, perché era uno stronzo ma non voleva che Atsumu si sforzasse troppo dopo una partita di quel calibro. “Dai, sono due scatole, posso farlo io.”
 
“Non ho niente, sto solo pensando.” Borbottò e Osamu capì tutto. “Ancora quella battuta?”
 
“Non riesco a capire cosa sbaglio.” Ammise, poggiando il carico per terra. “Ci passo quasi tutte le ore di extra, sto diventando scemo.”
 
“Hai pensato di riprenderti? Per avere una visione esterna.”
 
“Sì, Bokkun ha fatto un video col cellulare.” Sospirò, sedendosi di nuovo sullo sgabello e passandosi una mano tra i capelli. “Non ne vengo a capo.”
 
“Forse devi solo insistere.” Osamu sorrise strofinandosi la faccia con gesti stanchi. “Con la float ha funzionato.”
 
“O non sarò mai capace.” Mugugnò Atsumu nel pieno del suo umore nero. “E quella palla del cazzo non aiuta.”
 
“Giochi da cinquant’anni da professionista, ti dovrai abituare prima o poi.”
 
“Parli bene tu, devo essere all’altezza di quei mostri. Non posso sbagliare.” Si portò una mano sulla spalla, massaggiandola con pressione forte.
 
Atsumu era fatto così, si lamentava in continuazione ma si immergeva nel suo compito con l’unico obiettivo di risolvere qualunque cosa gli si parasse davanti.
 
Ad Osamu piaceva essere quello con cui suo fratello si sfogava, si lamentava, si scopriva. Lo riportava ai tempi dei letti a castello, dove i segreti e le preoccupazioni venivano fuori a luci spente, tra un calcio al materasso di sopra e una scoreggia tirata a tradimento.
 
Erano cresciuti, ma alcune cose non cambiavano mai. Ci sarebbe sempre stato il pensiero che veniva fuori solo tra di loro e che gli altri potevano solo scorgere, se abbastanza bravi a leggerli. Fortunatamente, si erano trovati dei ragazzi a cui piaceva fingere di non interessarsi, ma che sapevano prenderli come nessun altro.
 
Squillò il cellulare e Atsumu allungò il collo. “È Omi.” Mormorò prendendolo svelto, confermando senza volerlo il suo pensiero. Una sola occhiata alla sua faccia e ad Osamu vennero le carie. “Dimmi che non ti ha mandato nudi.” Si lamentò, chiudendo il furgone e bloccando la porta del ristorante.
 
Atsumu si morse il labbro e le guance gli si fecero più rosee. Doveva essere roba schifosa, quella. “Mi ha mandato un pezzo del video del mio allenamento.” Girò il telefonino verso di lui e sì, Sakusa era decisamente partito per suo fratello. “Dice che devo rallentare l’alzata.”
 
Osamu guardò critico quel video sgranato, vedendo Atsumu lanciare in aria la palla e saltare di getto, quasi senza respiro. Fece una smorfia, perché quello era stato l’approccio tipo di Atsumu per ogni cosa, dalla float studiata agli esperimenti fatti direttamente in partita. “Ha ragione.” Approvò, guardandolo male. “Perché tanta fretta?”
 
“Quattro passi per un cannone mi mette ansia, ok?” Blaterò, cominciando a rispondere con qualcosa con troppi cuori e melanzane per essere accettata dai suoi occhi innocenti. “Non riesco a rallentare, sento che non ci arriverò se sono troppo lento.”
 
“Provaci comunque.” La risposta ringhiata non incontrò la replica astiosa sicura di suo fratello, ma un sorrisone e degli occhi lucidi che non riuscivano ad andare via. Osamu sospirò. “Sistemo qua, mi accompagni a casa e torni da lui, ok?”
 
“Non mi vuole, lo distraggo.” Mormorò rimettendosi il cellulare in tasca.
 
“Tsumu, era incazzato. L’hai visto.”
 
“Lo ero anche io, ma non l’ho cacciato via.”
 
“Ci mancherebbe, era casa sua.” Sistemò i sacchi di riso dietro il bancone con uno sbuffo affaticato, poi si appoggiò sul piano con i gomiti. “Senti, lo sai che è in fissa con Ushiwaka, è entrato da titolare praticamente oggi. Dagli tregua.”
 
Atsumu lo guardò con gli occhi stretti. “Da quando lo difendi?”
 
“Dal momento in cui ti tiene lontano da me.” Sogghignò davanti il suo sguardo truce. “Se non ti avesse voluto, non avrebbe cominciato a vedere i tuoi video di allenamento, no?”
 
Atsumu fece una smorfia. “Si stava annoiando.”
 
“Danno le repliche di quel k-drama che segue, a quest’ora.” Rispose velocemente prendendo le chiavi del locale. “Col cazzo che l’avrebbe perso per te se si annoiava.”
 
 “Avrà letto le anticipazioni su qualche sito.” Bofonchiò, ma la sua convinzione stava cedendo.
 
“Odia Kyung-Soon con tutto sé stesso, ti pare che non l’avrebbe insultata in diretta?”
 
Atsumu si girò lentamente a guardarlo, gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta. Osamu aggrottò lo sguardo. “Che c’è?”
 
“Conosci i nomi dei personaggi.” Sussurrò quasi mentre un lento sorriso gli tirava gli angoli della bocca.
 
Cazzo, l’aveva scoperto.
 
“Ti sbagli.” Disse svelto guardandosi attorno per qualcosa da mettere a posto, la faccia che stava diventando calda.
 
“Lo vedi anche tu!” E scoppiò a ridere, additandolo neanche avesse cinque anni.
 
“Stai zitto! Non è vero!”
 
“Oh mio Dio, è il drama più sconclusionato del mondo, come fa a piacerti?”
 
“Senti, lo vedono Rin e Toya, ok?” Spiegò con tono agitato, passandosi le mani tra i capelli. “Stanno sempre con quella roba in tv, ti giuro, sembra che non passino altro!”
 
“Il cuoco ha perso l’olfatto! Il cuoco! Tra tutte le persone!” Si asciugò una lacrima, continuando a sghignazzare. “Ti sembra normale?”
 
“È scientificamente valido, ha avuto un colpo forte sul naso e …” Atsumu cominciò a singhiozzare veramente  scuotendo la testa e Osamu stava sentendo la testa in fiamme. “Non giudicare! Mi ero preoccupato, e se succedesse a me?”
 
“Cazzo, è la cosa più divertente del mondo!” Lo vide ansimare, praticamente piangendo. “Non riesco a respirare!”
 
“Fosse vero.” Sibilò Osamu con gli occhi stretti. Lo abbandonò nel suo stato degenerato, sistemando gli scatoloni nel magazzino e chiudendo tutte le finestre del locale. Quando tornò, diversi minuti dopo, Atsumu si era ripreso, anche se dei piccoli scoppi di risate si facevano vivi ad intermittenza.
 
“Hai finito?” Domandò retorico.
 
“Ho finito.” Assicurò Atsumu con ancora un sorriso enorme in bocca. “Chiuso tutto?”
 
“Hai un musone da consolare e ho un appuntamento in cam.” Uscì  dal ristorante e lo guardò malissimo. “Sbrigati!”
 
Atsumu scosse la testa, afferrando le chiavi della macchina dalla giacca. “Potevi dirlo subito che non mi volevi a casa.”
 
 
*
 
 
“Hai preso gli onigiri per Hinata?”
 
“Li ho qua davanti.” Inoue-san, seduto sul sedile del passeggero, alzò la borsa termica sistemata ai suoi piedi. “Eccoli.”
 
“E quelli di Bokuto per Akaashi-san? Dice che oggi deve venire.”
 
“Erano un po’ di più, li ho sistemati nel retro.”
 
“Ci sono tutti gli ingredienti? Gli onigiri già pronti? Il riso? Secondo te può bastare? La vaporiera si trova tra i sacchi, ma forse dovrei prenderne una più grande per la prossima volta e …”
 
“Capo, calmati.” Kaneko-kun lo guardò da sotto la sua frangia, le palpebre abbassate in un atteggiamento strafottente e un sorriso pigro sul viso. “Prenditi due gocce di valeriana.”
 
Osamu spostò l’attenzione su di lei, socchiudendo gli occhi per studiarla e sperare di metterle un po’ di terrore, inutilmente. “Hai iniziato le preparazioni?”
 
“Ovviamente no, vuoi che vada tutto a fuoco mentre parlo con te?”
 
 “Fila in cucina.” Sibilò con il solo effetto di farla scoppiare a ridere.
 
Fino a quel momento aveva seguito Sakusa in tutte le partite che aveva giocato da titolare. Ma, da quando Sakusa era entrato nei MSBY Black Jackals, non c’erano stati scontri al di fuori della città, per cui quell’animosità di “trasferta” era stata molto più tranquilla e rilassata.
 
Osamu aveva potuto prendere uno stand (in un punto così fottutamente buono che aveva potuto vedere addirittura le gocce di sudore sulla pelle dei giocatori) solo durante il Kurowashiki che, però, si teneva ad Osaka, a qualche centinaia di metri dal suo ristorante.
 
Quel giorno si era svegliato, al solito, ad un’ora empia del mattino, aveva fatto il giro dei fornitori, era andato a sfogare la sua agitazione al mercato del pesce, facendo a gara a chi urlava di più in quel covo di malati mentali, e adesso si trovava davanti il suo ristorante, ancora chiusa al pubblico, pronto a fare il punto della situazione.
 
Osamu e Inoue-san avrebbero viaggiato fino a Sendai, dove sarebbe iniziato il campionato della V. League.
 
Schweiden Adlers vs MSBY Black Jackals. Un’inaugurazione col botto.
 
Era a dir poco eccitato. E anche fottutamente nervoso, come carinamente gli aveva fatto intendere Kaneko-kun.
 
“Ho tagliato tutto il tagliabile. Carote, rafano, salmone, spigola.” Chiocciò Kaneko-kun contando sulle dita. “Mi manca il tonno, ma l’hai portato poco fa, e devo cuocere il riso, ma Yucchan ha un po’ paura della vaporiera e non volevo abbandonarlo al suo destino.”
 
“Fa rumori strani!” Si difese l’ultimo acquisto nella famiglia Onigiri Miya, Oshiro Yuma, un energumeno stranamente terrorizzato da qualsiasi cosa producesse un suono che non lo convinceva. Era davvero molto gentile ed efficiente e la sua stazza rivaleggiava e batteva quella di Sakusa. Aveva dovuto ammetterlo, era utile qualcuno che potesse appianare gli animi più impetuosi con la sua sola presenza ingombrante.
 
Ed era molto più tranquillo a lasciare Kaneko-kun con qualcuno che la potesse difendere senza problemi. Non che non ci riuscisse da sola, ma a volte aveva la lingua più veloce delle mani ed era meglio mettere qualcuno come Oshiro-kun a farle da scudo.
 
“È una vaporiera, Yucchan, sibila un pochino.”
 
“Non è normale!”
 
“Dovrei fidarmi a lasciarli così e andarmene fino a Sendai?” Chiese retorico Osamu a Inoue-san, che li guardava ridacchiando.
 
“Ho cambiato l’appuntamento con il barbiere per questo, direi di sì.” Rispose Inoue-san, che si era rivelato sempre più sfacciato man mano che si andava avanti con gli anni.
 
Osamu caricò gli ultimi ingredienti nel retro del furgone refrigerato, controllandone l’equilibrio e la sicurezza, perché avrebbe sicuramente ammazzato qualcuno se fosse caduto qualcosa. “Non rispondere male ai clienti.” Cominciò ad avvertire, la testa ancora dentro il furgone.
 
“Osamu-san, non l’ho mai fatto.” Il tono di voce di Oshiro-kun era preoccupatissimo. “L’ho fatto e non me ne sono accorto? Giuro, non volevo!”
 
“Ce l’ho con lei.” Rispose piatto Osamu affacciandosi, scoccando un’occhiata laterale ad un’impudente Kaneko-kun. “Niente parolacce.”
 
“Andiamo, questa è cattiveria!” Si lamentò Kaneko-kun sbuffando. “E se mi faccio male? Sai che imprecare aiuta ad affrontare il dolore?”
 
“Perché dovresti farti male?” Domandò Inoue-san incuriosito.
 
“Niente parolacce.” Insistette categorico Osamu con un ultimo sguardo al carico. Sospirando, chiuse lo sportello con un tonfo. “Attenti ad Ojiisan, il suo posto è quello vicino il muro, davanti la televisione. Sua moglie ci ha avvertiti, tre onigiri come vuole e poi potete inondarlo di edamame. Niente alcolici.”
 
“Posso guardare il drama con lui?” Domandò Oshiro-kun speranzoso. “Sta succedendo qualcosa alla signora cattiva, stiamo scommettendo se è stata avvelenata.”
 
Osamu sibilò un “No.” mentre Inoue-san chiocciò “Oooh, mandami un messaggio!”. Osamu aveva voglia di fare una strage.
 
Salì nel furgoncino e inserì le chiavi, mettendo in moto con lo sportello ancora aperto. “Ragazzi, per ogni problema ho il cellulare vicino.”
 
“Capo, ho una richiesta importantissima.” Kaneko-kun si avvicinò e la vide seria come non lo era mai stata. Osamu le prestò attenzione seriamente preoccupato. “Mandami tantissime foto di Sakusa-kun, voglio qualcosa autografata da lui.”
 
“Lo vedi tutti i giorni!” Ridacchiò Inoue-san mentre Osamu le scoccava uno sguardo talmente cattivo che Oshiro-kun si ritrasse istintivamente. Sbatté lo sportello più forte del necessario per segnare un punto. Kaneko-kun non lo colse.
 
“Non lo vedrò a Sendai, magari là è più figo del solito.” Spiegò convincente. “Digli di scrivere ‘Ad Hoshi-kun, il tuo sorriso splende nel mio cuore anche quando non ci sei. Sposami.’”
 
“Penso tu voglia veramente morire per mano di Atsumu-san.” Intervenne placidamente Oshiro-kun, guardandola come se le fossero spuntate le antenne.
 
“Hai ragione.” Convenne lei con tono ragionevole. “Togli ‘Sposami.’ e metti ‘Ti aspetto stasera. Nudo.’ Fai in modo che Atsumu ascolti tutto. Vuoi che te lo scriva?”
 
“Partiamo prima che decida di investirla e ripassarle sopra in retromarcia.” Sibilò Osamu mettendo la prima. Inoue-san lo vide divertito e più rilassato, quindi si sistemò sul sedile con un sorriso soddisfatto. “Non fate casino.” Avvertì Osamu cominciando a muoversi. “Ci vediamo domani.”
 
La strada era chiara delle prime luci del sole e Osamu si ritrovò a sorridere.
 
Pensò a suo fratello e al suo praticamente cognato. Pensò a Bokuto, ad Hinata, a tutta la squadra.
 
Ridacchiò, entrando nella strada principale, i raggi del sole che invadevano il paesaggio.
 
Era una bella giornata per vincere.
 
 
*
 
 
Le mattine fresche e luminose erano sempre di buon auspicio.
 
I raggi del sole filtravano timidi alle prime ore del giorno, rischiarando la notte di colori rossastri che tingevano il buio di viola e rosa, colpivano le nuvole scure facendole d’oro, allungavano le ombre e le rendevano dense, entravano nelle stanze dalle finestre e lo avvertivano della splendida giornata all’orizzonte.
 
L’aria frizzante di ottobre rendeva tutto più suggestivo, entrandogli nelle narici e riempiendolo di vita e bellezza. Era fresca, era pulita dallo smog del giorno, era carica delle prime essenze autunnali.
 
“Sentite.” Disse Atsumu appassionato inspirando a pieni polmoni. Bokuto e Hinata lo imitarono, allargando il petto per raccogliere quanto più vento possibile. “Sentite bene l’autunno.”
 
“Tsumu-san, è così bello.” Mormorò estatico Hinata, la pelle dorata d’abbronzatura che sembrava brillare.
 
“Assapora, Shou-kun. È l’odore della vittoria.”
 
“È l’odore di foglie morte in decomposizione.” Li informò piatto Sakusa facendo scoppiare a ridere Bokuto.
 
Atsumu si girò a guardarlo malissimo. “Devi rovinare tutto.”
 
“È ottobre.” Spiegò semplicemente mentre Bokuto annuiva. “Lo dice sempre anche Akaashi.”
 
“Sono nato ad ottobre.” Il lento ghigno di Hinata e Bokuto, seguito dallo sguardo impassibile di Sakusa lo mandò in bestia. “Quando cazzo partiamo?” Si ritrovò a domandare con un ringhio a Meian-san, che lo guardò divertito.
 
Erano davanti il pullman dei Black Jackals da secoli, ormai.
 
Si era dovuto sorbire il suo ragazzo rispondere a mugugni e minacce perché odiava svegliarsi presto e non aveva ancora preso il suo caffè per diventare l’essere umano stronzo che tutti conoscevano, ci aveva messo venti minuti per trovare un cazzo di parcheggio inesistente, perché era un’ora infame e la gente era ancora nel magico mondo dei sogni, aveva già fame perché qualsiasi viaggio gli apriva lo stomaco in modo disturbante e si era beccato cinque foto da uno sghignazzante Wan-san prima che qualcuno lo avvertisse di avere uno sbuffo di dentifricio secco sulla guancia.
 
Omi gli si avvicinò, infagottato nel suo cappotto firmato MSBY Black Jackals, toccandolo leggero con il gomito, le mani affondate in profondità nelle tasche. “Non agitarti.” Cercò di calmarlo con un sorriso leggero. “Ti ho portato un po’ di snack per il viaggio.”
 
Atsumu sentì un moto di affetto inondarlo.
 
Come faceva a non amarlo?
 
“Oooh, ci sono anche per me?” Domandò Bokuto, sentendo quelle parole con il suo udito sovrannaturale.
 
“No.” Rispose secco Omi con un cipiglio profondo.
 
Bokuto si vendicò. “Capitano! Stanno di nuovo facendo i piccioncini!”
 
“Fottuta spia.” Sibilò Atsumu tirando fuori dalla tasca la mano congelata del suo ragazzo e mettendola in quella del suo cappotto, scaldandola con il suo calore naturale. “Capitano, non dargli retta! È solo geloso perché il suo ragazzo è a Tokyo!”
 
“La smettete di urlare?” Li rimproverò Meian. “Filate dentro, tra cinque minuti si parte.”
 
“Akaashi verrà a vedermi giocare e lo sai benissimo.” Ridacchiò Bokuto prendendo subito posto. Hinata si sedette accanto a lui.
 
“Vedrà quante volte sbaglierai in battuta.”
 
“Vedrà il tuo ridicolo Bokuto Beam.” Lo appoggiò Omi facendolo sedere vicino al finestrino, perché lui non lo avrebbe toccato nemmeno se pagato. “Perché dovevi chiamarlo in modo così stupido?”
 
“Omi-san, non essere invidioso.” Disse Hinata con un sorriso, facendolo scurire per l’insinuazione. “Puoi nominare anche tu una tua schiacciata.”
 
“Non voglio farlo.”
 
“Non ha fantasia.” Spiegò Bokuto prendendo le sue cuffie antirumore.
 
“Ho molta fantasia.” Rispose Omi con tono atono.
 
“Questo è vero.” Intervenì Atsumu e tutti cominciarono a lamentarsi. “Cosa? Non intendevo roba sexy!”
 
“Non ti crede nessuno!” Rispose Tomas facendo ridere mezzo pullman. Omi decise di soprassedere, infagottandosi nel suo plaid personale e facendo finta che Atsumu fosse rimasto in silenzio, ormai abituato. “Tanto non riuscirai comunque a fare un ace.” Mormorò da sotto lo strato di pile, facendo rizzare le orecchie agli altri tre mostri.
 
“Omi, cosa ti dà questa sicurezza?” Domandò Atsumu carico.
 
“Scommetto che riuscirò a fare un ace prima di tutti.” Lo sfidò Bokuto affacciandosi dal sedile.
 
“Sarò io che batterò tutti voi.” Promise Hinata eccitato.
 
“Pensate quello che vi pare.” Borbottò Omi mettendosi la mascherina sugli occhi. “In battuta partite in sordina e non siete costanti, pulirò il campo con la vostra faccia incazzata.”
 
“Lo vedremo!” Esclamarono Bokuto e Hinata, dandosi il cinque.
 
“Ci sto!” Atsumu ghignò, pregustando il broncio di Omi quando avrebbe fatto punto sotto il suo naso. “Non venire a piangere quando ti umilierò.”
 
 “Ti piacerebbe.”
 
Il motore del pullman rombò e Atsumu vide Bokuto sistemarsi sul suo sedile, le cuffie antirumore infilate con cura, e Omi accoccolarsi sotto il plaid come un gattone, uno sbuffo che uscì dal naso e la bocca serrata. Tempo cinque minuti e, ormai lo sapeva, si sarebbero addormentati entrambi come bambini.
 
Atsumu guardò fuori dal finestrino, la città illuminata dalla luce pallida dell’alba e la vita che stava cominciando ad invadere le vie.
 
Sì, si disse, le mattine luminose erano di buon auspicio.
 
Era una bella giornata per vincere.
 
 
***
 
Salve a tutti!
 
Un’unica nota: il cuoco che perde l’olfatto dopo un colpo al viso è successo veramente in una soap che seguivo qualche anno fa. Dal momento che la trovavo esilarante, e la trovo ancora esilarante, l’ho inserita per far capire l’assurdità di k-drama che guardano tutti in questa storia. Se questo fatto offende la sensibilità di qualcuno, avvertitemi anche in privato e provvederò a toglierlo.
 
 
 
Ci siamo, è finita. È stato emozionante, perché per cinque capitoli ci ho messo la bellezza di quasi 11 mesi e dovrei  veramente vergognarmi, ma sono commossa. È la prima storia “seria” (le virgolette sono d’obbligo) che scrivo e vederla arrivare alla fine mi ha leggermente destabilizzata.
 
Ho cominciato a piagnucolare a metà, devo essere sincera.
 
Grazie a tutti, a chi mi ha fatto sapere cosa ne pensava, a chi che ha letto e basta, a chi è passato per sfuggita o per sbaglio, a chi passerà, a tutti!  
 
Un bacione!!!
 
 
   
 
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