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Autore: Puffardella    03/12/2021    4 recensioni
La vita di Davide è tutto fuorché ordinaria. Affetto fin da bambino da porfiria, che lo costringe a una vita di privazioni, ha il privilegio di svolgere una professione unica: quella del restauratore di libri.
In seguito al peggioramento del suo stato di salute, si ritira in un piccolo quanto singolare paesino del nord Italia, in cerca di un po' di serenità.
Qui fa la conoscenza di un uomo importante per la comunità, affascinante quanto misterioso, il quale gli commissiona il restauro di un antico manoscritto, una sorta di diario dei suoi avi.
Il contenuto di quel libro si rivelerà sconvolgente per Davide, e avrà il potere di cambiare per sempre le sue sorti e quelle delle persone che ama.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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CAPITOLO 1
L’eredità

VENTIDUE ANNI DOPO

«Sono sbalordito, ha davvero fatto un lavoro eccellente» disse l’uomo sfogliando con delicatezza le pagine del libro, un antico trattato di astronomia risalente al diciottesimo secolo, sfuggito alla devastazione di un incendio ma danneggiato dalle acque di spegnimento che ne avevano causato il proliferarsi della muffa.
«Ma come ha fatto?»
Davide sorrise. Come aveva fatto? Ore ed ore di paziente lavoro, ecco come aveva fatto. Per riportare il manufatto al suo splendore originale aveva dovuto smontarlo, sottoporre le pagine e la copertina ad asciugatura, disinfezione, spolveratura, aspirazione, carteggiatura, e tutta una serie di procedure noiose ma fondamentali prima di ricucirle nuovamente insieme. Tuttavia, spiegarlo in termini tecnici sarebbe risultato poco comprensibile ed estremamente noioso a chi non si intendeva di restaurazione.
«Magia...» si limitò quindi a rispondere.
«Questo è certo, a giudicare dal risultato insperabile» replicò l’uomo. «Mi è costato un occhio della testa restaurare l’opera ma ne è valsa la pena. Ora il suo valore è come minimo raddoppiato» aggiunse infine porgendogli la mano.
Davide gliela strinse e poi lo accompagnò alla porta.
«Mi avevano parlato molto bene di lei, posso garantirle che anche da parte mia riceverà un ottimo feedback» aggiunse il cliente davanti all’uscio aperto.
Davide cercò di sfoggiare il miglior sorriso che poteva. «La ringrazio, signor Colarossi» replicò cortesemente.
Poi, però, quando finalmente il cliente si decise ad uscire, richiuse la porta ed emise un sospiro di sollievo. In genere si intratteneva di più con i clienti, ricevere complimenti era per lui gratificante quasi come l’essere pagato in moneta, ma il cellulare aveva iniziato a vibrargli nella tasca dei pantaloni da quando l’uomo era arrivato fin tutta la sua permanenza. Lo tirò fuori e controllò sul display.
C’erano due messaggi vocali, uno del fratello Niccolò e l’altro di suo padre, e nove chiamate senza risposta, tre di sua sorella Melissa e le restanti sei di Sara, la sua compagna.
Ignorò volutamente le chiamate e si accinse ad ascoltare i messaggi.
Diede la precedenza a quello del fratello.
“Ciao Davide. Volevo ricordarti l’appuntamento di domani dall’avvocato. Vedi di esserci stavolta, così risolviamo una volta per tutte la faccenda. È importante, Davide. Forse non per te ma per me sì... Ve bene, dai, ci vediamo domani...”
Davide scosse la testa sbuffando. Suo fratello faceva di tutto per essere una testa di cazzo, riuscendoci per altro molto bene. Forse si era scordato che la volta precedente era stato costretto a disdire l’appuntamento perché attaccato ad un tubo in una camera d’ospedale. O forse, più probabilmente, se lo ricordava e non gliene fregava comunque un accidenti di niente.
Decise di non rispondergli. Non gli avrebbe fornito l’ennesimo pretesto per litigare, anche perché litigare era in quel momento l’ultima cosa che desiderava. Non ne avrebbe trovato la forza nemmeno volendo.
Aprì il messaggio del padre e ascoltò anche quello mentre si dirigeva al tavolino di legno addossato alla parete vicino alla finestra, sopra il quale facevano sfoggio numerose bottiglie di liquore, destinate quasi esclusivamente ai suoi clienti.
“Ciao Davide. Sei stato dal medico stamattina? Come sono andate le analisi? Avevi detto che mi avresti fatto sapere ma sto ancora aspettando di ricevere tue notizie... Chiamami quando puoi, d’accordo?”
Davide si riempì un bicchiere di cognac e se lo portò alle labbra.
“Niente alcolici, Davide” udì nella sua testa la voce del medico che da anni lo seguiva nella sua malattia.
«Tanto ormai che differenza fa?» si rispose ad alta voce prima di trangugiare in un unico sorso il liquido ambrato, che gli bruciò in gola  come se si fosse trattato di lava.
Gli avrebbe procurato un bel rush cutaneo, ne era sicuro. Probabilmente anche qualche ora di lancinanti dolori addominali. Tanto valeva farsi un altro giro, si disse. Riempì nuovamente il bicchiere e buttò giù anche quello.
Sospirò a fondo e, guardando con aria assorta fuori dalla finestra lo spettacolo del tramonto che “incendiava” lo scenario deprimente dei palazzoni soffocanti e delle strade trafficate di Milano, ripensò alle esatte parole con le quali il medico quella mattina lo aveva messo al corrente del tumore che, dalle ultime indagini effettuate, era stato trovato nel suo fegato. Termini come “piccolo”, “asportabile”, “preso in tempo”, venivano inesorabilmente inghiottiti dall’unico che contava davvero: tumore. Per quanto il medico si era sforzato di rassicurarlo c’era una sola cosa alla quale Davide continuava a pensare in maniera ossessiva: qualcosa di maligno aveva messo radici dentro di lui e cresceva nel suo fegato. Lo stava facendo anche in quel preciso istante, e avrebbe continuato a farlo fin quando non avrebbe trovato niente altro di cui nutrirsi.
Chiuse un istante gli occhi, prese un profondo respiro, infine rispose al padre con un breve messaggio: “Ciao papà. È tutto a posto. I valori ematici si sono ristabiliti dopo l’ultima trasfusione di sangue. È stata una lunga giornata fitta di impegni, per questo non ti ho ancora chiamato. Senti, devo andare, ti chiamo domani, ok?”
Indugiò un istante prima di decidersi a inviare il messaggio. Lo fece infine con riluttanza. Detestava raccontare balle, soprattutto al padre. Dopo la morte della moglie, aveva passato i primi dieci anni ad affogare il suo dolore nell’alcol e i successivi dieci a tentare di non ricadere nel vizio. Come ogni ex alcolista, era una persona fondamentalmente fragile, sempre sul punto di crollare, di riattaccarsi alla bottiglia al primo dispiacere. Per questo non poteva raccontargli la verità. Non ora, non senza prima averlo preparato dovutamente.
Il cellulare nella sua mano vibrò per l’ennesima volta interrompendo il flusso dei suoi pensieri e facendolo sobbalzare.
Era di nuovo Melissa. Davide lasciò che il telefono squillasse a lungo nella speranza che la sorella riagganciasse, che si arrendesse, che capisse che non era il momento, quello davvero non era un buon momento per parlare. Ma poi si disse che sua sorella, probabilmente, si sarebbe precipitata a casa sua se non le avesse risposto e, dovendo scegliere tra i due il male minore, si decise a farlo.
«Cristo santo, Melissa, non ti arrendi mai?»
Melissa tacque un istante, spiazzata dalla sua risposta aggressiva. «Dove sei?» si informò dopo essersi ripresa.
«Sono le sette di sera, dove dovrei essere secondo te?»
Melissa esitò di nuovo. «Ho sentito Sara...» disse poi.
«E quindi?»
«Dice che sono tre giorni che non torni a casa.»
«Sì, beh, questi non sono affari tuoi, Melissa.»
«Singhiozzava al telefono, Davide... Mi dici che succede?»
«Ti ho appena detto che non sono affari tuoi, Meri.»
«Posso almeno sapere dove stai dormendo?»
«Nel mio studio. Senti, devo andare, devo ricevere un cliente...» mentì.
«E dai, Davide...»
«Ci vediamo domani, Melissa.»
«Davide, per favore...» iniziò a supplicarlo lei, ma lui mise giù prima che potesse finire di parlare.
Davide spense il telefono e lo gettò sopra il divano. Se non lo avesse fatto, Melissa avrebbe continuato a chiamarlo o a bombardarlo di messaggi. Non avrebbe mollato l’osso fino a quando non le avrebbe detto quello che voleva sentirsi dire: cosa non andava tra lui e Sara.
E quello era un altro discorso che, al pari della storia del cancro, Davide non era ancora pronto ad affrontare. Non aveva ancora avuto il coraggio di farlo dovutamente con Sara, non vedeva perché avrebbe dovuto farlo con sua sorella.
Pensare a Sara gli fece nuovamente venire voglia di bere. Si avvicinò al tavolino con gli alcolici, allungò la mano verso il cognac e poi la ritirò, disgustato di se stesso e della sua debolezza.
Alzò lo sguardo alla finestra.
Il sole finiva di tramontare in quel momento, mentre i rumori del traffico si attutivano e Milano si accingeva a vestirsi per la notte con migliaia di luci bianche. Quello era il momento ideale per Davide di andare a correre, cosa che si sforzava di fare regolarmente da quando era adolescente. Lo faceva per tenersi in forma ma anche per trovare il pretesto di uscire, di stare all’aria aperta.
Cominciò a sbottonarsi la camicia, rinvigorito da quel rigurgito d’orgoglio. Nossignore, non avrebbe passato la serata a piangersi addosso e a riempirsi lo stomaco di alcol.
Sara o meno, cancro o meno, lui aveva il dovere oltre che il diritto di prendersi cura di se stesso e, cazzo, lo avrebbe fatto. Sarebbe andato a correre anche quella sera e avrebbe continuato a farlo fino a quando i suoi polmoni sarebbero stati in grado di riempirsi d’aria e le gambe di sorreggere il peso del suo corpo.


La nebbia era densa, lattiginosa. Le cose in essa nascoste faticavano ad emergere, Davide poteva intravederne solo sagome confuse.
Alberi, qualche casa, un edificio che poteva essere una chiesa, un pozzo in mezzo a tutto.
Non conosceva quel posto, era sicuro di non esserci mai stato. Si guardò intorno, disorientato e confuso. Che ci faceva lì?
Qualcosa sbucata dal nulla strisciò ai suoi piedi e Davide sussultò. Sembrava un uomo. Era completamente nudo e si muoveva spingendosi in avanti con le mani e con i piedi, con sbalorditiva velocità. Lo oltrepassò e scomparve nella nebbia, producendo un sinistro frusciare sulle foglie secche.
Davide lo seguì, spinto da un’irrefrenabile curiosità. L’essere procedette verso il pozzo. Si arrampicò sulla ghiera e si lasciò precipitare verso il fondo. Nell’impattarvi, emise un tonfo sordo.
Davide sussultò, colto dall’orrore. Corse verso il pozzo e vi si affacciò. Decine di occhi brillavano nell’oscurità, ombre indistinte si contorcevano una sull’altra emettendo sibili rabbiosi. Una di esse si voltò di scatto verso di lui e lo fissò con piccoli occhi di fiera, mentre stringeva tra le dita simili ad artigli il braccio di qualche altro essere. Dopo qualche istante, tornò a disinteressarsi a lui e iniziò a prendere a morsi l’arto, fino a staccarne un grosso brandello di carne. Qualcun’altro stava facendo lo stesso con la sua gamba.
A quella scena raccapricciante, Davide lanciò un urlo e indietreggiò di qualche passo. Fu allora che si accorse che altri esseri striscianti uscivano a frotte dalla chiesa e si dirigevano al pozzo, per gettarvisi dentro e prendere parte a quel delirio di corpi che si artigliavano e si azzannavano a vicenda.
Le campane della chiesa iniziarono a suonare all’improvviso, come se qualche vescovo particolarmente zelante avesse deciso di celebrare una lugubre messa in favore di quelle anime dannate. Il loro suono, tuttavia, fu presto sostituito dalle cupe note di The Sound of Silence dei Disturbed:  
Hallo, darkness, my old friend
I’ve come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seeds while i was sleeping
And the vision that was planted in my brain
Steel remains
Within the sound of silence...


Davide spalancò gli occhi e prese un profondo respiro, come se fosse stato a lungo in mancanza di aria.
Era stata la sveglia del cellulare, con le note di The Sound of Silence, a strapparlo dall’orrendo sogno che stava facendo.
Allungò la mano sul basso tavolino di vetro sul quale era il telefono, disattivò la sveglia e si mise a sedere sul divano, passandosi le dita tra i folti capelli castani.
Dalla finestra entrava il tenue bagliore dell’alba. Pochi istanti ancora e Davide non sarebbe più potuto uscire di casa senza adottare le consuete precauzioni. Si sollevò in piedi e si diresse alla finestra. La spalancò e respirò a pieni polmoni l’aria che a quell’ora del giorno aveva un profumo particolare, umido ma pulito, di terra, legno, foglie e qualche volta perfino di fiori.
Faticava a togliersi dalla mente le raccapriccianti immagini dell’incubo che aveva fatto, forse a causa dello stress accumulatosi in quegli ultimi giorni estremamente difficili per lui. La giornata che gli si prospettava dinanzi, poi, rendeva il tutto ancora più estenuante.
Non aveva alcuna voglia di affrontare tre ore di macchina per recarsi a Reggio Emilia e udire la lettura di un testamento di un qualche lontano parente del quale nemmeno il padre sembrava essere a conoscenza.
Si passò una mano sul volto stanco e stabilì che, prima di ogni altra cosa, gli ci voleva un caffè se voleva affrontare quella maledetta giornata con la giusta carica.

Davide era stato l’ultimo ad arrivare.
Lo studio legale nel quale lui e i suoi fratelli furono fatti accomodare era piccolo e disordinato, l’avvocato aveva un aspetto ordinario, quasi trasandato.
Basso di statura, con capelli lunghi e spettinati e una barba che cresceva allo stato brado da immemorabile tempo, indossava un datato completo di tweed marrone con panciotto e farfalla.
All’apparenza sembrava tutto fuorché un avvocato e se non fosse stato che Davide aveva fatto delle accurate indagini sul suo conto, avrebbe sospettato una truffa di qualche tipo e si sarebbe dato alla fuga a gambe levate.
Dopo i convenevoli di rito, prima che l’improbabile avvocato iniziasse la lettura dell’improbabile testamento, Niccolò aprì la questione che più di ogni altra cosa rendeva sospetta tutta la faccenda.
«Prima di procedere, credo sia giusto che ci parli un po’ di questo presunto lontano parente del quale nemmeno mio padre ha memoria alcuna... Insomma, perché mai qualcuno che non ci conosceva avrebbe voluto lasciarci qualcosa in eredità?»
«Giusto, mi sembra una domanda lecita» tossicchiò l’avvocato, sistemandosi il cravattino in un gesto di mero nervosismo. «Dunque, Walter Iotti era un prozio di vostra madre, Tilde Iotti. Era un uomo vecchio stampo, un po’ ottuso e decisamente riservato. Aveva un carattere difficile, senza dubbio, ma possedeva anche un cuore nobile. Per varie ragioni che non sono tenuto a spiegarvi, non era in buoni rapporti con i suoi parenti più stretti. Tuttavia aveva un debole per Tilde perché gli ricordava la sua defunta figlia, morta in tenera età. Tilde era inoltre l’unica con la quale, di tanto in tanto, scambiava una qualche forma di corrispondenza, soprattutto in occasione delle feste.»
«Non ne eravamo al corrente, nostra madre non lo ha mai nemmeno menzionato...» contestò Davide perplesso.
«Vostra madre è morta che voi eravate molto piccoli. E comunque, come ripeto, la loro era una corrispondenza piuttosto esigua. Tuttavia per il signor Iotti, che non era abituato ad alcun tipo di gentilezza da parte degli altri parenti, significava molto. Dopo la morte della moglie e dei due figli, ha ritenuto necessario far redimere un testamento per non permettere ai suoi parenti più prossimi di mettere mani sulla sua eredità, ritenendoli immeritevoli.»
«È tutto parecchio strano...» rifletté Melissa, per niente convinta. Come nessun altro di loro, del resto.
«Beh, il testamento è chiaro: voi tre siete gli unici eredi menzionati, ma niente vi impedisce di rifiutare l’eredità, se non vi è gradita.»
«Nello specifico, di cosa si tratta?» volle sapere a quel punto Niccolò, che iniziava a farsi ansioso di concludere.
«Vediamo un po’...» disse l’avvocato inforcando gli occhiali e avvicinandosi il documento agli occhi. «Di una casa.»
«Una casa. Tutto qui?» obiettò Niccolò, e Davide si vergognò per lui. Che suo fratello fosse perennemente oberato dai debiti era un fatto piuttosto noto, ma questo non gli dava il permesso di essere maleducato.
«Va bene, a quanto ammonta il valore?» chiese ancora Niccolò.
«Vediamo un po’... Il signor Iotti l’aveva fatta valutare da un geometra qualche mese antecedente la sua morte... Ecco qua: ottantacinquemila euro.»
«Che divisi in tre fanno meno di trentamila a testa. Senza considerare che potrebbero volerci mesi, forse addirittura anni, prima di riuscire a venderla... Che inutile perdita di tempo!» finì di lamentarsi Niccolò.
«Le cose non hanno un valore solo in moneta, Niccolò» lo rimproverò Melissa a quel punto, e Davide mostrò di trovarsi d’accordo con lei annuendo.
La minore si voltò nuovamente verso l’avvocato e gli sorrise amabilmente. «Immagino che si tratti della casa nella quale viveva il signor Iotti, giusto?»
«Sì, è così. Non solo ci viveva: in quella casa ci è nato e ci è morto» spiegò l’avvocato. «In effetti è una casa molto antica. Avrà cento anni, se non di più...»
A quella notizia, Niccolò emise una nuova serie di borbottii seccati, ignorati dal resto dei presenti.
«Tanto perché possiamo farci un’idea più precisa dell’immobile in questione, dove si trova?» indagò a quel punto Davide.
«Nel centro storico di Mestrieri, un piccolo paese della bassa reggiana. Stiamo parlando di un piccolo borgo di stampo medievale, davvero molto caratteristico...»
Mentre lo strambo avvocato snocciolava tutta una serie di commenti positivi sul borgo in questione, Melissa, che aveva fatto di internet la sua seconda casa e, tra le altre cose, sapeva avviare una ricerca in tempi brevissimi, trovò le immagini del paese, le aprì e le mostrò ai fratelli.
Le foto mostravano uno spiazzo erboso rettangolare sul quale erano stati messi dei giochi per bambini. Niente di che: un paio di scivoli, due altalene e due cavallucci a molla.
Entrambi i lati lunghi erano costeggiati da strette case a schiera. Due filari di alberi di tiglio fiancheggiavano uno dei due lati, quello attraversato dalla strada principale, in un viale alberato che, probabilmente, donava al parco una discreta ombra in estate.
Su uno dei lati corti si ergeva imponente una chiesa barocca a pianta centrale, costruita in solidi mattoni. E, a poche decine di metri dalla chiesa, in mezzo al rettangolo erboso, un curioso pozzo ottagonale in forma di tempietto rinascimentale, sorretto da colonne doriche.
Davide avvertì un brivido attraversargli la spina dorsale, i peli delle braccia si rizzarono: sembrava il medesimo luogo che aveva sognato quella notte.
«C’è spesso la nebbia a Mestrieri, non è così?» chiese, interrompendo il blaterare, per altro ignorato, dell’avvocato. Tutti si voltarono a guardarlo perplessi, disorientati dalla strana domanda.
L’avvocato si sistemò il farfallino sul collo, poi rispose, incerto: «Credo di sì. Mestrieri si trova nella bassa reggiana, proprio dietro il Po. Tutta la zona è famosa per la nebbia e le zanzare.»
«Perfetto. Una vecchia casa ammuffita che probabilmente cade a pezzi in una zona paludosa infestata dalle zanzare... Venderla non sarà difficile, sarà impossibile» si lagnò nuovamente Niccolò.
«Smettila, Niccolò! È pur sempre un dono, non capisco di cosa ti lamenti!» lo apostrofò a quel punto Davide, che cominciava a non poterne più dell’ingratitudine del fratello.
«Un dono che ci darà più seccature che altro, Davide!»
«Come ho detto, non siete tenuti a riscattare la proprietà. Potete sempre rinunciare all’eredità» intervenne l’avvocato a quel punto.
«Non sarà necessario. Acquisterò la casa dando ai miei fratelli la quota spettante» comunicò Davide, generando in tutti nuovo stupore.
Melissa lo guardava sbigottita, gli occhi e la bocca spalancati.
«Forse faresti meglio a darle un’occhiata prima di prendere decisioni avventate, Davide. Detesto ammetterlo ma una volta tanto Niccolò potrebbe avere ragione.»
«Non sarà necessario, Melissa. Se fino a poche settimane fa ci viveva una persona anziana non vedo perché non potrei farlo io. Inoltre quello è il posto che fa per me: poco sole e tanta tranquillità. E, come ormai sai fin troppo bene, avevo giusto bisogno di una casa...»


Davide osservava la gente passeggiare sotto i portici della Via Emilia da dietro i vetri del bar dove lui e Melissa avevano deciso di fermarsi a prendere un caffè per fare due chiacchiere prima di rimettersi in viaggio.
Provava invidia per loro, per la libertà con la quale camminavano alla luce del giorno, senza doversi stare a preoccupare di proteggere la pelle con creme solari o indossare vestiti pesanti in piena estate, quando la temperatura all’ombra sfiorava i quaranta gradi.
«Figuriamoci se vostra altezza imperiale si abbassava a prendere un caffè con i fratelli...» sbuffò Melissa, lamentandosi del fatto che Niccolò, come al solito, si era congedato appena erano usciti dallo studio dell’avvocato, asserendo di dover tornare a Milano per impegni inderogabili ed urgenti.
«È un imprenditore, magari ha davvero da fare» lo giustificò debolmente Davide, nella speranza di convincere la sorella a parlare d’altro.
«Sì, come no... Deve correre dalla sua amante, ecco qual è il suo impegno inderogabile» si accanì invece quella.
«Sono fatti suoi, Melissa...» sospirò Davide.
«Non lo vediamo mai, Davide! Ha sempre troppo da fare per stare in nostra compagnia, cazzo! Questa cosa non ti fa arrabbiare?»
Davide si strinse nelle spalle. Certo che lo faceva incazzare, ma che poteva farci? Niccolò era fatto così: cinico ed arrivista. Il lavoro era il suo solo apparente interesse, donne a parte. Ci si buttava a capofitto con meticoloso impegno, sacrificando tutto il resto. In fondo non era solo per le scappatelle extraconiugali che sua moglie Erica lo aveva lasciato e si era trasferita in Inghilterra, portandosi dietro i loro due figli.
Già, Niccolò era un fottuto egoista, però non era sempre stato così. Tutti loro avevano dovuto costruirsi un muro dietro al quale rifugiarsi dopo la morte della madre, solo che Niccolò se l’era fatto più alto e più robusto.
«E adesso va a finire che perdo anche te...» aggiunse dopo un po’ Melissa, riscuotendolo dalle sue elucubrazioni.
«E dai, Melissa, ne abbiamo già parlato. Non è detto che io decida di trasferirmi definitivamente in Emilia Romagna. Non so nemmeno dove si trovi Mestrieri, figurati. Ho solo bisogno di starmene per conto mio per un po’ di tempo.»
«Sì, ma perché?»
«Non sto attraversando un bel momento, tutto qui» tagliò corto lui.
«Per via di Sara?»
«Anche...»
«Mi dirai mai cosa è successo tra voi?»
«Lo farò, ma non ora.»
«Perché?» sospirò esacerbata lei.
«Perché è una faccenda delicata che riguarda solo me e lei e che non abbiamo ancora chiarito del tutto tra di noi. Quando succederà, ti prometto che tu sarai la prima a sapere come stanno le cose.»
«Quindi ci sono buone probabilità che vi rimettiate insieme?»
«Melissa...»
«Lo sai che Sara è come una sorella, per me.»
«Smettila, Melissa, ti prego... Senti, oggi per me è una giornata particolarmente stressante. Sai quanto mi costi affrontare un viaggio in macchina in pieno giorno, per non parlare di tutto il resto. È agosto, fa un fottuto caldo e io indosso guanti e maglione. Devo sembrare uno squilibrato e infatti ho gli occhi di tutti puntati addosso, il che, credimi, è piuttosto umiliante. Come se non bastasse sudo come un maiale e la crema protettiva comincia a venire via perciò ti prego, ti supplico, non complicarmi ulteriormente le cose. Non parliamone più, non oggi. D’accordo?»
Melissa tacque un lungo istante, impegnata a fissarlo con i suoi grandi ed espressivi occhi nocciola, nel tentativo di sondargli l’anima, penetrarlo in profondità, carpire i suoi pensieri e le sue emozioni, e Davide, temendo che potesse riuscirci, si ritrovò ad abbassare lo sguardo in un istintivo gesto di difesa.
«Va bene, Davide. Solo, per favore: non sparire del tutto» si arrese infine dopo un lungo, esacerbante silenzio.

 
   
 
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