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Autore: Krgul00    03/12/2021    2 recensioni
Charlie è una donna con dei segreti stufa che questi la tengano lontana da suo padre, l'unica persona che può chiamare famiglia. Tornata al suo paese natale per ricucire il loro rapporto, Charlie si troverà coinvolta con l'affascinate nuovo sceriffo.
Ma ancora una volta, il non detto rischia di mettere a repentaglio ciò che ha di più caro.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO UNO
L’unico Caffè di tutta la cittadina di Sunlake era il Red, aperto da Oliver Davis nel 1982 a soli vent’anni.
Alla fine degli anni Novanta il locale era stato ampliato per ospitare l’area ristorante ed eventi, ed ora, due delle quattro pareti del locale erano interamente in vetro, in modo da permettere un’ottima visuale della piazza centrale del paese.
Dalla parte opposta all’entrata c’era il lungo bancone in legno, orgoglio di Oliver, che, in casi normali, poteva ospitare dieci persone; tuttavia, quando la città si riuniva al Red si riusciva anche ad arrivare al doppio degli sgabelli.
Il resto della stanza era disseminato di tavoli di forme diverse, tondi quadrati e rettangolari, tutti rigorosamente in legno. Il risultato era uno stile decisamente rustico.
Nonostante fosse l’unico Caffè del paese, alle otto di quella mattina di novembre si contavano solo tre clienti. Due uomini in uniforme erano seduti al centro del bancone e parlavano con Benjamin Davis – unico figlio di Oliver. Arthur Foster, invece, era seduto al suo solito tavolo – sempre lo stesso ormai da vent’anni - ed era immerso nella lettura del suo giornale, il cappello invernale che copriva i capelli grigi in disordine faceva capolino dal bordo del quotidiano. Questi, quindi, non si accorse della donna che entrò, così come i due seduti al bancone, che davano le spalle alla porta.
Benjamin, che stava finendo di pulire il filtro della caffettiera, alzando gli occhi avrebbe potuto far caso al nuovo cliente, ma era preso dalla conversazione con Pit Cooper e Alex Peterson seduti di fronte a lui.
Perciò, la donna si avvicinò tranquillamente e si sedette a tre sgabelli di distanza dai due agenti.
“Buongiorno”, salutò.
La conversazione tra i tre uomini si interruppe bruscamente e tutti si girarono verso la sconosciuta.
In un paese piccolo come Sunlake tutti conoscevano tutti e il preannunciato arrivo in città di un forestiero sarebbe stato sulla bocca di tutti. Tuttavia, nessuno ne sapeva niente dell’arrivo di una donna: se qualche turista avesse prenotato all’unico albergo del paese “La Rosa”, Gracie Howard non ne avrebbe fatto certo mistero e tutti in città avrebbero aspettato con trepidazione l’arrivo dei nuovi ospiti; stessa cosa per dei parenti in visita.
Ancor di più se il forestiero aveva l’aspetto della donna seduta al bancone. Sui trent’anni, aveva capelli biondissimi a caschetto che incorniciavano un viso roseo e curato, gli zigomi alti erano scuriti da un rossore più intenso, così come la punta del naso fino e dritto, segno evidente del vento freddo all’esterno. Labbra carnose erano coperte da uno strato lucido di burrocacao, unica traccia di trucco su un viso altrimenti pulito, che delineava un arco di cupido e un bordo del vermiglio ben definiti.
Infine, ad illuminare un volto perfetto, grandi occhi di un blu profondo incorniciati da folte ciglia.
Il busto era coperto da un piumino largo, che ne nascondeva le forme, ma dalle gambe lunghe e toniche avvolte in jeans scuri, seminascoste sotto il bancone, se ne poteva dedurre una corporatura snella.
Una bellezza così non si vedeva certo tutti i giorni a Sunlake.
I tre uomini, presi alla sprovvista non risposero al saluto, ma si limitarono a fissarla.
L’attenzione minuziosa di tre paia d’occhi su di lei non sembrò turbarla in alcun modo, e passato il tempo socialmente riconosciuto per ricambiare il saluto, la donna fece il suo ordine: “Prenderei due di quelle ciambelle al cioccolato, per favore”. I suoi occhi blu, quasi ipnotici, sembrarono addolcirsi quando incontrarono quelli castani di Benjamin e le labbra, già curvate in un piccolo sorriso gentile, si allungarono in uno più profondo e amichevole.
Il ragazzo arrossì furiosamente sotto quello sguardo.
“C-certamente”, balbettò.
Come risvegliati, Pit e Alex distolsero lo sguardo, cercando tuttavia di sbirciare la bellezza seduta a pochi sgabelli di distanza.
“Me le puoi incartare, gentilmente?”, chiese lei, la voce dolce e musicale che riempiva l’aria.
Se possibile il viso già bordeaux di Benjamin divenne ancora più rosso quando balbettò confusamente un altro “certamente”.  I due uomini si mossero a disagio sullo sgabello, l’imbarazzo di Benjamin permeava l’aria e l’unica che non sembrava esserne toccata era lei.
Quegli occhi azzurri seguirono gli spostamenti del ragazzo dietro al bancone mentre le preparava il suo sacchetto, anche se, uno sguardo più attento avrebbe notato come non sembravano focalizzarsi sulle azioni meccaniche che svolgeva Benjamin, ma piuttosto su qualche sua riflessione personale.
Quando l’altro le porse le sue ciambelle, lei lasciò una banconota da dieci dollari sul tavolo – ben più del valore del suo acquisto – e si alzò.
“Grazie, Benjamin. È stato un piacere”, denti bianchi e dritti spuntarono in un sorriso sincero e senza aspettare una risposta, si incamminò verso l’uscita. Converse nere calcarono il pavimento del corridoio tra i tavoli, con andatura sicura. I tre uomini al bancone – Arthur non si era nemmeno accorto della nuova arrivata, tutto preso dal suo giornale – la seguirono con lo sguardo, mangiando con gli occhi ogni centimetro di quelle lunghe gambe e del sedere alto e sodo lasciato appena scoperto dal piumino che indossava.
Nessuno di loro si rese conto che la donna conosceva Benjamin Davis.
 
Appena uscì dal Red, il sorriso di Charlie Royce si affievolì. Il solo pensiero di tornare a casa la sconfortava. L’ultima volta che era tornata a Sunlake, quasi sette anni prima, era rimasta un solo giorno, non aveva avuto nemmeno il tempo per disfare la valigia. Non era riuscita a gestire al meglio la situazione con suo padre, all’epoca, e il susseguirsi degli eventi avevano portato alla sfibrante impasse attuale.
Frugando nel sacchetto che le aveva dato Benjamin prese una ciambella e ne strappò un bel morso. Il dolcetto calmò la fame nervosa che le era presa da quando aveva varcato la soglia della sua casa d’infanzia, la notte prima.
Si incamminò, non badando agli occhi degli uomini all’interno del Red che la seguivano attraverso le grandi vetrate.
Alle otto della mattina Sunlake era ancora mezza addormentata. La giornata, in una città – anche se non si poteva proprio chiamarla così – come Sunlake, iniziava ad ingranare verso le nove. La scuola apriva alle nove e mezza così come i negozi e le altre attività commerciali, tranne la centrale di polizia, il municipio e il Red, ovviamente.
Charlie ricordava a malapena com’era vivere in un paese piccolo come quello, ma era riposante rispetto al fermento di una grande città. Strappò un altro morso dalla ciambella, il silenzio del mattino spezzato dal rumore leggero dei suoi passi e dall’ululare del vento.
Rallentò quando svoltò nella sua via e poté ammirare uno scorcio delle montagne in lontananza; ricordava quando suo padre la portava a sciare, l’odore della montagna, i rifugi confortevoli in cui si fermavano a prendere la cioccolata calda o le patatine fritte e poi il rientro alla baita nel tardo pomeriggio, con i muscoli piacevolmente intorpiditi dopo una giornata di attività.
Distolse lo sguardo e lo rivolse al cielo terso di novembre, cercando di ricacciare indietro le lacrime al ricordo di quei giorni in cui andava ancora tutto bene. Giorni in cui la delusione non era presente negli occhi di suo padre quando la guardava.
Inspirò profondamente, contò fino a sette e poi espirò. Come al solito i muscoli delle spalle si rilassarono e la mente di svuotò di tutti i pensieri indesiderati. Si infilò il resto della ciambella in bocca e si incamminò decisa verso casa e quando varcò la soglia era il ritratto della calma.
La sua casa di infanzia era piccola ed accogliente, appena entrati si accedeva al piccolo salotto, una libreria strabordante di volumi occupava tutta una parete, davanti al divano e alla poltrona di suo padre c’era il piccolo tavolino da caffè. Nessuna televisione, solo un piccolo caminetto che illuminava le giornate invernali come quella.
Com’era prevedibile suo padre sedeva sulla poltrona, il viso immerso nel giornale, e non diede segno di averla sentita entrare. Il maggiore Stephen James Royce era un uomo abitudinario, si svegliava alle sette in punto ogni mattina, si lavava, beveva il suo caffè, si sedeva in poltrona e leggeva i suoi quotidiani fino alle nove.
Charlie si levò con clama il cappotto e si avviò verso la cucina.
“Ti ho comprato una ciambella al cioccolato. La tua preferita”, gli disse con disinvoltura, senza girarsi a guardarlo.
Entrò in cucina, appoggiò la ciambella sulla credenza e contò lentamente fino a dieci. Non avendo ancora ricevuto risposta, tornò in salone, suo padre ancora intento a leggere il giornale.
Decise di riprovarci. “Ti ho comprato-” si interruppe bruscamente quando il quotidiano si abbassò e gli occhi azzurri di suo padre la fissarono. I suoi settantatré anni lo avevano reso più magro e con l’età, la meravigliosa muscolatura giovanile di un uomo che aveva fatto della vita militare la sua carriera, era ormai svanita. Sul viso una volta liscio, erano comparse diverse rughe e i capelli, una volta castani, si erano ingrigiti; tuttavia, si poteva ancora definirlo un bell’uomo ed era facile immaginare da dove sua figlia avesse ereditato la sua bellezza.
Quando suo padre le rivolgeva quello sguardo, Charlie poteva facilmente comprendere il nervosismo che provavano le altre persone quando era lei stessa a guardarli in quel modo.
Nonostante fosse invecchiato, Stephen era ancora in grado di innervosirla ma, rispetto a quando era più giovane, Charlie era diventata un’esperta nel mascherare le sue emozioni; d’altronde era parte del suo lavoro.
“Non devi comprarmi niente, lo sai perfettamente”, Stephen Royce fece per riprendere la lettura del suo giornale, ma fu interrotto da Charlie, ancora in piedi davanti la porta della cucina. “Non mi dispiace”, disse alzando le spalle e facendo finta di niente, “te la metto in un piatto o-”, anche stavolta non riuscì a concludere la frase.
“Non mi piacciono le cose comprate con soldi sporchi.” Quelle parole, come sempre, la colpirono come uno schiaffo in faccia - non che lo diede a vedere – e con fare impassibile si girò e tornò in cucina; la rabbia iniziava a ribollire dentro di lei, poteva sentirne il calore che le saliva lungo il collo. Chiuse gli occhi, inspirò profondamente, contò fino a sette e poi espirò. La calma la pervase nuovamente.
Mise comunque la ciambella nel piatto e tornò in salotto. Se suo padre aveva intensione di giocare a questo gioco, allora poteva farlo anche lei. Era infantile? Sicuramente. Le importava? Non più di tanto.
Vedendola tornare dalla cucina con il piatto in mano, Stephen borbottò un “puoi anche buttarla via” e riprese a leggere. Il giornale di nuovo sollevato come una barriera tra loro.
Senza fare una piega Charlie si stravaccò sul divano e iniziò a mangiare il suo dolcetto con gusto, emettendo esagerati suoni di piacere.
Il quotidiano si abbassò nuovamente e Stephen la fulminò con lo sguardo, ma fu un’occhiataccia sprecata poiché la figlia era concertata sulla ciambella e non gli prestava alcuna attenzione. “Siediti bene, non ho cresciuto un animale.”
Charlie lo ignorò e raccolse qualche briciola che le era caduta sul maglione, poi prese un altro morso. “Ti dirò, i soldi sporchi hanno proprio un buon sapore”, disse con la bocca piena.
Se con il tempo Charlie aveva imparato a simulare e nascondere qualsiasi espressione facciale volesse, Stephen non ne era mai stato capace e, in tutti gli anni che Charlie era stata via, sembrava non avesse ancora imparato. Perciò, a quelle parole, chiuse di scatto il giornale, la faccia rossa per l’indignazione. “Non ti permetto di mancarmi di rispetto sotto questo tetto” - Charlie alzò lo sguardo, un’espressione di finta meraviglia sul volto, come se proprio non riuscisse a capire quale fosse il problema - “finché resterai qui ti comporterai come si deve” - Charlie prese l’ultimo morso e iniziò a leccar via il cioccolato dalle dita, come gustandosi uno spuntino durante uno spettacolo televisivo - “e non tollererò alcun comportamento criminale. Sono stato chiaro?”
Alla domanda del Maggiore Royce, Charlie si alzò con calma dal divano, il piatto ancora in mano. “Signorsì”, rispose facendo un piccolo gesto militare, che fece assottigliare ancor di più lo sguardo del padre.
Quando uscì nuovamente dalla cucina, dopo aver lavato le stoviglie, Stephen stava cercando di ritrovare una posizione comoda sulla poltrona. “Va bene, allora”, disse Charlie dirigendosi in camera, “vado di là, ho un po’ di chiamate da fare.” Guardando l’orologio aggiunse, “avevo in programma una rapina nel pomeriggio e ora devo avvertire che non vado.”
Non gli permise di rispondere. Si rifugiò nella sua stanza e aspettò di sentire la porta d’ingresso chiudersi. Alle dieci Stephen Royce aveva la sua passeggiata quotidiana.
La stanza non era cambiata da quando era partita per la scuola militare a quindici anni. Il piccolo letto occupava la maggior parte dello spazio. Anche le lenzuola rosa con fiori bianchi erano le stesse di quando era bambina. L’armadio ad incasso ravvivava la stanza con il suo color giallo pastello. Nessuna scrivania, solo una poltroncina in un angolo. L’unico elemento di novità erano le due valigie ai piedi del letto.
Appoggiandosi alla porta, Charlie chiuse gli occhi ancora una volta, inspirò profondamente, contò fino a sette e poi espirò.
Scivolando lungo il battente, si mise seduta a terra e aspettò in silenzio.
Solo quando sentì suo padre uscire di casa, poco tempo dopo, si mosse di nuovo. Frugando nella valigia trovò l’altro telefono, quello per le chiamate cifrate e non rintracciabili, e compose il solo numero che le era permesso chiamare usandolo.
Matthew Allen rispose subito. “Ce l’hai fatta a chiamare, stavo iniziando a preoccuparmi.”
Charlie sbuffò. “Cosa mai potrebbe capitarmi a Sunlake?”
Dall’altro capo della linea Matthew ridacchiò. “Sei rinsavita e hai cambiato idea?”, le chiese, senza nascondere una nota di speranza nella voce.
Charlie alzò gli occhi al cielo. Le aveva fatto la stessa domanda almeno venti volte nelle ultime ventiquattr’ore.
“Per la milionesima volta Matty, ho preso la mia decisone, rassegnati.”
L’uomo dall’altra parte della linea sbuffò. “Sai che odio quando mi chiami così.”
La bocca di Charlie si aprì in un sorriso da Stregatto. Appoggiò la testa alla porta dietro di lei e chiuse gli occhi, godendosi quella sensazione di calore che le scaldava il cuore.
“Lo so”, gli rispose in un sussurro confidenziale.
“E sai che sono ancora il tuo capo, vero?” - la voce di Metthew scherzosamente seria- “Non capisco perché ancora ti sopporto, invece di licenziarti e basta.”
Questo la fece ridere. “In dieci anni che ci conosciamo sono l’unica persona, oltre tua moglie, che riesce a sopportare te. Ecco perché.”
Matt borbottò qualcosa che Charlie non riuscì a cogliere.
“Tuo padre ancora pensa che tu sia una spacciatrice?”
“Non credo pensi che io sia una spacciatrice”, disse e dopo un momento aggiunse in un borbottio fintamente indignato “sono troppo carina.”
Matthew rise. “Dannatamente giusto. Non ho mai visto uno spacciatore così attraente.”
Charlie sbuffò e riprese il discorso. “Pensa che io sia una delinquente qualsiasi”, chiarì. Dopo un momento di silenzio riprese a parlare infervorandosi ad ogni parola. “Come diavolo può pensare che sua figlia è una delinquente?”
“Perché gli hai mentito?”, suggerì Matt.
“Una piccola bugia non fa di una persona un delinquente.” A quelle parole Charlie si alzò e iniziò a muoversi nella stanza.
“Mentire su dove lavori e dove vivi per anni non è proprio una piccola bugia”, le fece notare Matt. “Inoltre lui si è presentato sul tuo posto di lavoro, che si supponeva essere un’agenzia di consulenza legale, e si è trovato difronte uno Starbucks dove nessuno ti aveva mai sentito nominare.”
Charlie si accasciò sul letto. “Mi avevi detto che non lo avrebbe mai scoperto”, gli disse.
Nonostante potesse sembrare un’accusa, entrambi erano consapevoli che una cosa del genere poteva capitare. La maggior parte delle volte, però, la gente preferisce chiamare prima di farsi tremila chilometri per andare a trovare i parenti; evidentemente, suo padre non era la maggior parte della gente.
“Quando la transizione sarà completata potrai dirgli tutto. Devi solo aspettare quattro mesi o giù di lì”, e subito aggiunse: “Anzi, verro di persona a dirlo a tuo padre. Che ne pensi?”
Charlie sorrise. “Sarebbe fantastico, Matty.”
Al nomignolo Matt sbuffò di nuovo.
“Nel frattempo, cerca di comportanti come una normale ragazza di ventott’anni. D’accordo?”
A quelle parole Charlie si mise più dritta sul letto. “Non sono già una normale donna di ventott’anni?”, chiese incredula.
Lo sbuffo di derisione dall’altra parte della linea fu sufficiente come risposta.
“Mimetizzati tra queste persone. Fai amicizia, partecipa alle iniziative del comitato di paese, trovati un hobby normale; cazzate così.”
“Cosa c’è che non va nei miei hobby?”, chiese lei indignata.
“Sparare al poligono di tiro non è un hobby normale”, rispose prontamente Matthew e prima che potesse ribattere continuò: “La pasticcieria, lo è.”
“Non ho mai fatto una torta in vita mia”, sussurrò in risposta Charlie.
Il sospirò di Matt fu pieno di esasperazione. “Promettimi che farai del tuo meglio.”
Charlie chiuse gli occhi e sospirò. “Lo giuro”, promise ed entrambi sapevano che lo avrebbe fatto.
 
Ovviamente la notizia che una sconosciuta era giunta in città si diffuse in un lampo in una piccola cittadina come quella di Sunlake. Poiché Pit Cooper e Alex Peterson erano due delle uniche tre persone che avevano assistito allo straordinario avvistamento, lo Sceriffo Logan Moore ne sentì parlare tutto il giorno.
Era entrato in centrale, quella mattina, guardando accigliato il messaggio di sua madre. Era difficile che Sylvie Moore disturbasse suo figlio durante l’orario di lavoro; perciò, la mente di Logan era andata subito a suo figlio Jake.
D’altronde, però, se fosse successo qualcosa, sua madre non si sarebbe limitata a scrivergli “Chiamami appena arrivi in ufficio”.  Inoltre, erano appena le dieci di mattina e aveva lasciato Jake a scuola solo mezz’ora prima. Cosa poteva mai combinare un bambino di otto anni in trenta minuti?
Con questi pensieri in testa, non si era reso subito conto che Hannah, la giovane receptionist della centrale, non era al suo posto dietro alla scrivania all’entrata e solo quando il suo “Buongiorno” non aveva ricevuto risposta, aveva alzato lo sguardo dal telefono.
Si era accorto immediatamente di due cose: primo, che oltre ad Hannah non c’era nessun altro nel grande stanzone principale. Secondo, che dalla sala ristoro proveniva una gran cacofonia di voci.
Era successo qualcosa, e il messaggio di sua madre, ci avrebbe scommesso, aveva a che fare con quello che aveva spinto tutta la centrale di polizia – o quasi – nella sala relax.
Aveva iniziato a pensare agli scenari più disparati e apocalittici.
Quando era arrivato sulla soglia della stanza c’era un gran chiacchiericcio e una voce sovrastava tutte le altre, quella di Pit Cooper.
“-il povero Benjamin”, stava dicendo. “Non ho mai visto una persona diventare più rossa, lo giuro su Dio.” Aveva riso e poi, per mantenere l’attenzione su di sé, aveva subito continuato. “Quando è uscita mi ha sorriso e vi posso giurare che c’è stata dell’intesa tra noi e-” si era interrotto quando i suoi occhi avevano incontrato quelli di Logan e aveva alzato la voce per parlargli dall’altra parte della stanza.
“Buongiorno, Capo. Hai sentito la novità?”
Tutti gli occhi si erano focalizzati su Logan e pian piano la stanza era diventata più silenziosa.
Noncurante di tutta quell’attenzione, lo sceriffo aveva alzato un sopracciglio scuro e aveva fissato lo sguardo su Pitt. Prima di parlare lo aveva scrutato in silenzio per qualche secondo; Pitt era sembrato eccitato e felice, sicuramente non pareva una persona sconvolta per una brutta notizia o un evento terribile.
La preoccupazione di Logan aveva rapidamente lasciato posto all’irritazione: non sembrava fosse successo qualcosa di grave, ma piuttosto che fosse in corso una sessione di gossip nella sua stazione di polizia.
“Cosa sta succedendo, Cooper?”, aveva chiesto.
Pitt si era apprestato a colmare le lacune del suo superiore sugli eventi di quella mattina, non notando la sua irritazione. “Io e Alex stavamo facendo colazione al Red, questa mattina, quando è entrata la donna più bella” – aveva enfatizzato quella parola in modo esagerato e fastidioso – “che io abbia mai visto. Mio Dio, Capo, se l’avessi-”, alzando la mano, Logan, lo aveva interrotto bruscamente.
Pitt non gli era mai stato particolarmente simpatico, soprattutto per il suo bisogno incessante di essere al centro dell’attenzione, ma fino ad allora non gli aveva mai dato problemi.
“Non credo di aver capito bene, Cooper. Mi stai dicendo che durante l’orario di servizio stai spettegolando come un adolescente arrapato, nella mia stazione di polizia?”, il tono calmo di Logan e i suoi occhi scuri, che non si erano distolti dal suo viso, avevano fatto sbiancare visibilmente Pitt, il quale aveva distolto lo sguardo e aveva iniziato a spostare nervosamente il peso da un piede all’altro.
Il disagio era dilagato nella stanza e in molti si erano guardati i piedi in preda all’imbarazzo, altri avevano iniziato a torcersi le mani e nessuno aveva avuto il coraggio di incontrare lo sguardo di Logan. Era stato sicuro che molti avrebbero lasciato subito la stanza, se solo lui non fosse rimasto davanti alla porta.
Prima che Pitt potesse balbettare delle scuse, Logan gli aveva chiesto: “Almeno sappiamo come si chiama questa fantomatica miss universo?”
Se possibile il disagio di Pit crebbe e Logan aveva saputo, ancor prima di sentirla, quale sarebbe stata la risposta alla sua domanda.
Aveva deciso di aver perso già troppo tempo con quella stupida storia e di farla finita. Detestava fare la parte del guastafeste, ma certe volte sembrava non se ne potesse proprio fare a meno.
“Tornate tutti a lavoro, non voglio più sentir parlare di questa storia. Cooper e Peterson nel mio ufficio”, detto questo si era voltato e si era diretto nel suo ufficio, si era accomodato sulla sedia, aveva chiesto ad Hannah il suo caffè e aveva strigliato per bene quei due idioti che credevano di poter trasformare una giornata di lavoro in una centrale di polizia in un brutto episodio di Brooklyn Nine-Nine.
Nonostante tutta la confusione di quella mattina, però, non si era scordato di chiamare sua madre.
Ancora non aveva idea che tutta la città, quel giorno, era impazzita e trovava perfettamente normale interrompere il lavoro altrui per parlare di una donna che molto probabilmente – visto che nessuno sembrava conoscerla e non aveva prenotato alcuna stanza nell’unico hotel della città – era solo di passaggio.
Pertanto, anche Sylvie Moore aveva trovato normale disturbare il lavoro di suo figlio per parlare della novità. “Hai sentito della nuova donna che è arrivata in città sta mattina?”, era stata la prima cosa che aveva chiesto.
Logan si era appoggiato allo schienale della sedia con un sospiro, ben conscio di dove avrebbe portato quella conversazione. Non appena Logan aveva borbottato un “ne ho sentito parlare”, sua madre gli aveva scagliato contro un torrente incessante di parole.
“Gli unici ad averla vista sono Pit, Alex e Benjamin. Il signor Foster era troppo concentrato sul suo sciocco giornale per accorgersene” – aveva sbuffato – “Gracie giura che ancora non ha prenotato una stanza; non credo che sia solo di passaggio però, sicuramente rimarrà in città.” – Sembrava che la sua sola volontà dovesse essere sufficiente a tener quella donna a Sunlake – “Sono sicura che per stasera Gracie avrà notizie. Dicono sia bellissima. Devi assolutamente scoprire chi è questa donna, tesoro. Altrimenti come posso organizzare un incontro-”, Sylvie aveva continuato a parlare, inconsapevole dello sconforto del figlio.
Essendo Logan Moore un uomo single, padre di un bambino di otto anni che non aveva mai conosciuto sua madre, una delle missioni di vita di Sylvie Moore era quella di sistemare suo figlio con una donna – sembrava che anche una sconosciuta andasse bene allo scopo - pertanto, aveva iniziato a gestire la vita sentimentale di Logan, organizzando appuntamenti con le donne di Sunlake, inizialmente, per poi spaziare anche nella contea di Lake Rock.
Alcuni avrebbero potuto pensare che un’ingerenza del genere mettesse Logan a disagio, soprattutto perché la cosa era di dominio pubblico. Ed era stato così all’inizio, ma il disagio ben presto era scemato in un leggero fastidio e poi in una inevitabile rassegnazione.
Negli ultimi cinque anni, da quando si era trasferito a Sunlake ed era diventato sceriffo, era uscito a cena con un numero imbarazzante di donne, le aveva portate tutte al Red, aveva pagato il conto e le aveva riaccompagnate a casa. Al primo appuntamento non ne seguiva mai un secondo e nonostante Logan fosse certo che molte di quelle donne fin dall’inizio conoscessero l’esito della serata, era convinto che ormai accettassero ancora di uscire con lui, su invito di sua madre, per l’eventuale possibilità di poter dire di aver conquistato il cuore impossibile dello sceriffo di Sunlake.
In parte era così, ma Logan Moore era anche un uomo affascinante.
Non si poteva certo dire che fosse di una bellezza straordinaria. Il viso, dai lineamenti spigolosi, era segnato da una cicatrice, lunga tre falangi, vicino l’orecchio destro, che scendeva in verticale verso la mascella. Il naso era leggermente storto, come se fosse stato rotto una volta di troppo e non fosse stato medicato come si deve. Capelli scuri erano pettinati in modo ordinato, corti ai lati e più folti in cima. Ma gli occhi scuri, espressivi e profondi, sembravano avere il potere di carpire tutti i segreti di una persona con un solo sguardo ed erano una delle caratteristiche più affascinanti dello sceriffo.
Ciò per cui Logan Moore era famigerato tra le donne, però, era il suo sorriso. Quando le sue labbra sottili si schiudevano nel suo particolare sorriso obliquo, tutto il volto dell’uomo si illuminava, e anche gli occhi – quegli occhi così espressivi – sembravano risplendere.
Non era facile essere il destinatario di quel particolare sorriso. Non perché lo sceriffo ridesse poco, ma piuttosto perché quello sembrava riflettere un sentimento di vera e profonda felicità. Non era raro, infatti, che quella particolare espressione comparisse sul viso dell’uomo quando guardava suo figlio Jake.
Inoltre, aveva anche una certa reputazione nella contea di Lake Rock, in cui era considerato alla stregua di un eroe, per aver salvato, quattro anni prima, un bambino dalle acque del lago – motivo per cui, anche se molto giovane, tutti lo avevano reputato idoneo a ricoprire il ruolo di sceriffo - e ciò lo rendeva sicuramente il miglior partito di tutta la contea.
“-aver esagerato, ma conosco Benjamin e sarà anche un ragazzo timido, ma sicuramente del suo parere mi fido di più che di quello degli altri due. Tu non pensi?”
“Mamma, per favore, possiamo parlarne stasera? Sto lavorando”, l’aveva interrotta dopo tre minuti incessanti di sproloquio.
La donna, come realizzando solo in quel momento che il figlio doveva lavorare, aveva detto: “Oh, certo tesoro. Ti voglio bene.” E aveva riattaccato.
Quella non ara stata l’unica volta in cui qualcuno aveva interrotto il suo lavoro quel giorno, solo per poter parlare della donna misteriosa del Red.
Prima di pranzo, Gracie Howard era passata per informare di persona Logan del fatto che ancora nessuna donna aveva prenotato una stanza al suo albergo.
Poi il suo pranzo era stato interrotto da tre telefonate diverse, prima che dicesse a Hannah di liquidare chiunque volesse parlare di quella donna; ma i più intraprendenti non si erano lasciati scoraggiare da quel semplice impedimento. Verso le due aveva intercettato Daisy Peterson, in cerca del figlio Alex, per chiarimenti sull’evento del giorno; l’aveva mandata via.
Poi era stata la volta di Set Young, che oltre ad essere il primo cittadino di Sunlake era anche il primo pettegolo del paese. Per Logan era stato molto più difficile sbarazzarsi del sindaco.
Quel pomeriggio era passato anche Arthur Foster, che per fortuna non si era fermato a lungo: un breve saluto per scusarsi – come se ce ne fosse bisogno – di non aver “raccolto informazioni”, come disse, sulla giovane sconosciuta.
Il culmine di quella giornata, però, era stato quando a varcare la soglia del suo ufficio fu Annabelle King, presidentessa del comitato cittadino e spina nel fianco di Logan.
La donna era innamorata di lui da quando Sylvie Moore aveva avuto la malsana idea di organizzare un appuntamento, anni prima. Nonostante il tutto fosse avvenuto nel modo canonico – cena e passeggiata fino a casa – e nel modo più platonico possibile, da allora sembrava essere convinta del fatto che quella delle cene fosse solo una fase – che durava da cinque anni – e che alla fine Logan avrebbe deciso di sposarla.
Si era accomodata sulla sedia di fronte a lui, aveva sbattuto le ciglia in modo seducente e aveva iniziato a parlare di come era necessario identificare la donna misteriosa – come se lo sceriffo potesse perder tempo a setacciare la città per trovarla – capire se era un pericolo per la citta – come se fosse necessario – e infine allontanarla prima che creasse scompiglio – come se Logan potesse o volesse vietare il transito, sul suolo della contea di Lake Rock, a chiunque vi passasse pacificamente.
Aveva tratto un respiro di sollievo quando lo squillo del telefono aveva interrotto la tirata di Anabelle e aveva avuto una scusa in più per mandarla via.
Pertanto, alla fine di quella giornata lavorativa infinita e poco fruttuosa, Logan si era ritrovato con un gran mal di testa e un leggero fastidio – che sapeva essere insensato – verso una donna di cui non conosceva il nome e che non aveva mai visto.
Nonostante fosse stravolto, quando alle sei di sera entrò in casa di sua madre, non poté fare a meno di sorridere – con quel suo sorriso obliquo - a suo figlio che gli corse incontro per abbracciarlo.
Lo prese in braccio, le gambe e le braccia di Jake che gli avvolgevano i fianchi e il collo.
“Papà! Lo sapevi che i bradipi non bevono mai?”, lo salutò.
Se possibile gli occhi di Logan brillarono ancora di più a quelle parole. Dopo una giornata passata a sentir parlare sempre della stessa cosa, i bradipi gli sembrarono la cosa più affascinante al mondo.
“Non ne avevo idea”, rispose passando una mano tra i capelli scuri di Jake.
“Si! Io e nonna stiamo vedendo un documentario”, ogni parola piena di entusiasmo aveva il potere di cancellare la fatica della sua giornata. “Vieni a vederlo anche tu?”, gli chiese con quegli occhi pieni di esaltazione – per dei bradipi, nientemeno – a cui Logan non avrebbe mai detto di no.
Jake Moore era sempre stato un bambino curioso della natura in generale. Gli animali e le piante lo affascinavano, la matematica e la fisica lo meravigliavano e le stelle lo stregavano. Era normale che quelle scientifiche fossero materie in cui eccellesse, a scuola. Aveva un approccio entusiasta e si meravigliava per ogni più piccola cosa.
Logan imparava qualcosa di nuovo ogni giorno. In particolare, il figlio gli insegnava come apprezzare anche le cose più banali, che magari si davano per scontate per abitudine o per sbadataggine.
Si ritrovò a guardare, quindi, un mucchio di bradipi che si muovevano a rallentatore, che mangiavano foglie che digerivano dopo un mese e che scavavano buche in cui seppellivano i loro bisogni.
Dopo cena e un film d’azione scelto da Jake, era tornato a casa: suo figlio addormentato in braccio.
Solo quando fu nel suo letto, ripensò a quello che le aveva brevemente accennato sua madre, piena di sconforto, a cena: nessuno aveva più visto la sconosciuta per tutto il giorno.
Sicuramente non ne sentiremo più parlare, aveva pensato beato, prima di addormentarsi.
   
 
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