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Autore: Baudelaire    15/12/2021    2 recensioni
Rebecca Bonner sta per tornare ad Amtara, per il suo secondo anno.
Questa storia è la continuazione della mia precedente "La stella di Amtara".
Cuore di ghiaccio diCristina è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rebecca uscì dall’infermeria il lunedì seguente, il giorno prima del funerale di Morgana.
Scoprì di essere nuovamente al centro dell’attenzione di tutta la scuola, com’era prevedibile. Il suo nome era sulla bocca di tutti e le Prescelte erano morbosamente curiose di conoscere tutti i dettagli di quanto accaduto nell’ufficio della Poliglotter.
Rebecca si era aspettata quella reazione da parte delle compagne, ma era piuttosto restia a parlare, ogni volta che una di loro le si avvicinava, tempestandola di domande sulla vicenda.
Le voci erano circolate in fretta, e siccome Rebecca non era scesa troppo nei particolari, alcune Streghe cominciarono ad inventare dettagli assurdi, ben lontani dalla realtà.
Rebecca si rese conto di questo, quando una ragazza del primo anno le chiese se era vero che il Wendigo era esploso, provocando la distruzione dell’ufficio della Poliglotter.
Un’altra Strega le domandò, eccitata, se il Wendigo era davvero alto otto metri.
Tralasciando il fatto che, se fosse stato così, il Wendigo non avrebbe mai potuto stare in piedi all’interno dell’ufficio e ignorando volutamente la domanda, Rebecca si allontanò, irritata.
Sembrava proprio che l’unica cosa che interessasse alla gente fossero i macabri dettagli dell’accaduto. A nessuno importava del fatto che una Prescelta innocente avesse perso la vita, proprio lì, sotto il loro naso.
Rebecca si sentiva terribilmente in colpa, mentre il resto della scuola sembrava interessato solo a quei futili dettagli.
“Come si può essere tanto ciniche?” – sbottò Rebecca un giorno, dopo aver cacciato via in malo modo una ragazza che le aveva appena chiesto se era vero che anche la Poliglotter era esplosa insieme al Wendigo.
“Lasciale perdere.” – commentò Brenda.
“Beh, dopotutto, Morgana non era simpatica quasi a nessuno.” – disse Barbara.
Rebecca e Brenda di voltarono a guardarla, con sguardo truce.
Barbara avvampò. “Beh, è la verità!”
“Morgana era posseduta da Posimaar, in caso tu non l’abbia capito.” – precisò Rebecca.
“Sì, questo lo so benissimo. Ma non puoi aspettarti che si mettano a piangere per lei, in ogni caso.”
“Sai, la tua delicatezza è disarmante.” – fece Brenda, piccata.
“Sono solo obiettiva. Non piacciono nemmeno a me tutte queste storie che si stanno inventando. Comunque, come al solito, dimenticheranno presto. E poi, un po’ di curiosità è più che legittima. Non succede mica tutti i giorni che qualcuno si trasformi in un Wen… come diavolo si chiama.”
“Si chiama Wendigo.” – puntualizzò Rebecca. “E comunque più che curiosità io la chiamerei morbosità.”
“Ho sentito che dopo i funerali porteranno via il corpo.” – disse Brenda. “Morgana sarà tumulata nella tomba di famiglia.”
“Chi te l’ha detto?” – domandò Rebecca, sorpresa.
“Ho sentito Garou parlare con la Collins, per caso.”
“Per caso?” – le fece eco Barbara, con occhi maliziosi.
“Sì, per caso. Non sono mica come te, che spii le conversazioni degli altri.”
“Ah no? Mi pare che non ero sola ad origliare, quando Alyssa e Morgana litigavano in camera loro.”
Brenda arrossì. Aveva dimenticato quell’unica volta in cui si era concessa di mettersi ad origliare alla porta di qualcuno.
“Beh, non se ne poteva fare a meno. Alyssa urlava come una matta.”
“Sì, sì, certo.” – rispose Barbara, con aria di sufficienza.
“Comunque mi sembra carino, da parte dei genitori di Morgana, voler celebrare il funerale qui.” – disse Brenda, sviando deliberatamente il discorso.
“Sì.” – rispose Rebecca. “La Collins mi ha detto che sono stati loro a chiederlo, espressamente.”
“Beh, è strano.” – disse Barbara. “Voglio dire, come minimo dovrebbero essere arrabbiati per aver perso la figlia a causa di Posimaar.”
“Morgana sarebbe potuta morire ovunque, per colpa di Posimaar.” – disse Rebecca. “Le Prescelte continuano a morire anche là fuori, ogni giorno.”
“Questo è vero.”
“E poi, Amtara è il posto dove Morgana ha vissuto gli ultimi mesi della sua vita. Credo sia giusto darle il nostro ultimo saluto qui.”
 
Più tardi, nel pomeriggio, Rebecca incontrò Clio. Vagabondava sola nel corridoio, assorta nei suoi pensieri, con gli occhi un po’ arrossati. Rebecca si domandò se i fantasmi potessero piangere.
Quando la fata si accorse di lei, la trafisse con uno sguardo carico di odio.
C’era da aspettarselo. In fin dei conti, Rebecca aveva ucciso Morgana. Clio non l’avrebbe mai perdonata.
La fata si allontanò in fretta, cosa di cui Rebecca fu estremamente grata. Non avevano mai avuto nulla da condividere e tantomeno l’avrebbero avuto ora che Morgana non c’era più. Inoltre, Rebecca era già abbastanza depressa per conto suo, senza alcun bisogno che Clio rincarasse la dose.
Chissà, forse il tempo, lentamente, avrebbe sistemato le cose, anche se Rebecca aveva la sgradevole sensazione che per lei e Clio le cose sarebbero andate diversamente.
Decise di andare a parlare con il professor Garou.
Durante tutto il tempo che aveva trascorso in infermeria, lui non era mai andato a trovarla e Rebecca sentiva il bisogno di parlare con qualcuno, che non fosse la Collins, di quanto accaduto. Si sentiva ancora molto scossa e sperava che confidarsi con lui l’avrebbe aiutata a sentirsi meglio.
“Come va il tuo braccio?” – le chiese, invitandola con un gesto ad accomodarsi.
“Meglio, grazie.”
Garou sedette e rimase in attesa.
La guardò, sorridendole incoraggiante.
“Un Wendigo.” – disse lei, senza preamboli.
Garou increspò le labbra in un sorriso sghembo, annuendo.
“Già.”
“Lei l’avrebbe mai immaginato?”
“No.”
Rebecca sospirò. “Domani ci sarà il funerale. Sarà terribilmente difficile, per me.”
“Hai dovuto difenderti. Non avevi scelta.”
“No, immagino di no.”
“Hai salvato la professoressa Poliglotter.”
“Ma un’altra Prescelta è morta.”
“Non per colpa tua.”
Rebecca abbassò gli occhi. “Io… la odiavo.”
“Non odiavi lei. Odiavi ciò che il Demone aveva fatto di lei. Sono due cose diverse.”
“Lo so, ma questo non mi aiuta a sentirmi meglio.”
“Non sei costretta a presenziare, domani, se non te la senti.”
Rebecca alzò la testa, di scatto. “Non potrei mancare per nulla al mondo.”
“Allora fa quello che devi fare. Dalle l’ultimo saluto. Glielo devi. E parla con la sua famiglia. Sono certo che ti ascolteranno.”
Rebecca annuì. “Ci proverò.”
“Sei stata davvero coraggiosa.”
“Ho creduto di morire.”
“Posso solo immaginare cosa devi aver provato, chiusa là dentro, con un Wendigo. E’ una creatura particolarmente pericolosa, imprevedibile. Si nutre di carne umana. Tu e la professoressa Poliglotter siete vive per miracolo.”
Rebecca si rese conto, in quel momento, di essere stata fortunata a non sapere nulla di un Wendigo. Se ne avesse conosciuto l’effettiva pericolosità, probabilmente il suo inconscio le avrebbe giocato un pessimo tiro, inducendola ad arrendersi prima ancora di lottare. Invece aveva combattuto, aveva resistito, fino all’arrivo della Poliglotter e, infine, aveva tentato il tutto per tutto, riuscendo a salvare entrambe.
“Credo che non dimenticherò mai quei momenti.”
“Sei una Strega in gamba, Rebecca. Sono sicuro che, un giorno, sarai tu a liberare il nostro Mondo dalla minaccia di Posimaar.”
Rebecca gli lanciò un’occhiata penetrante.
Garou era sincero.
Si sentì lusingata da quelle parole e, al contempo, investita di una responsabilità che le pesava addosso come un macigno. Sarebbe andata effettivamente così? Avrebbe avuto la forza, da sola, di distruggere il Demone Supremo?
 
Il giorno dopo uscì un tiepido sole. Il funerale di Morgana si sarebbe svolto nei giardini di Amtara. La Collins aveva fatto allestire le sedie dinanzi al portone d’ingresso.
Quando Rebecca e le gemelle uscirono, subito dopo colazione, si accorsero che i posti erano già tutti occupati. In prima fila, i rappresentanti del Consiglio Superiore di Stregoneria Bianca, presidiato da una rigida ed altera Calì Amtara, seduta accanto alla preside. In seconda fila, c’erano tutti i professori della scuola.
Le Prescelte si erano già accomodate nelle prime file, insieme ai tanti genitori venuti a rendere omaggio, per l’ultima volta, a Morgana. Rebecca si stupì della loro presenza. Non ricordava tutta quella gente al funerale del povero Alvis. Forse perché si trattava semplicemente di un umile Gnomo? Quel pensiero la irritò.
“Ci sono dei posti liberi.” – disse Barbara.
Rebecca e Brenda la seguirono. Erano rimaste tre sedie vuote, in ultima fila.
Rebecca fu molto felice di sedersi lì, lontana da sguardi indiscreti.
La preside si alzò e si rivolse alla platea. “Miei cari, oggi siamo qui riuniti per dare il nostro ultimo saluto ad una ragazza davvero speciale, Morgana Curter. Morgana era una Prescelta e, come tutti sapete, è morta per colpa di Posimaar. Il Demone Supremo si è impadronito del suo corpo, inducendola con la forza a commettere azioni terribili e conducendola, infine, alla morte.”
Alcune persone si voltarono a guardare Rebecca, la quale si inquietò sulla sedia, a disagio. Conosceva perfettamente i loro pensieri. Era stata lei a lanciare l’Incantesimo che aveva ucciso Morgana. Abbassò lo sguardo, sentendosi avvampare.
“Morgana Curter non ha potuto mostrare il suo vero volto qui ad Amtara. Noi non sappiamo in quale momento il Demone si sia impossessato di lei. Sappiamo solo che per tutto l’anno è stata costretta a portare una maschera. Morgana non era la ragazza vuota e frivola che molte di voi hanno conosciuto, né la ragazza altezzosa e arrogante con cui alcune di voi si sono scontrate. Non era crudele, né cattiva, né odiosa. Tutto ciò che di negativo avete visto in lei, lo avete visto in Posimaar. Ora sapete di cosa è capace il nostro nemico. Ora sapete fin dove può spingersi il suo odio profondo verso le Prescelte.”
Rebecca fissava la Collins senza staccarle gli occhi di dosso, affascinata da quel discorso così sentito.
Tutti erano chiusi in un religioso silenzio, rapiti dalle sue parole.
“Oggi non siamo qui solo per dire addio a Morgana, ma anche per renderle omaggio e per dirle che la sua morte sarà giustamente vendicata. Noi continueremo a combattere, noi vendicheremo questo piccolo fiore spezzato, noi non ci arrenderemo!”
Uno Gnomo si avvicinò alla preside, porgendole un mazzo di fiori, che lei depose sulla bara bianca.
Ci fu qualche istante di silenzio, poi le persone cominciarono ad alzarsi. Ci furono abbracci, strette di mano, saluti.
Qualcuno piangeva.
Poi, gradualmente, la folla si disperse.
Rebecca rimase a guardare gli Gnomi mentre caricavano la bara su un’auto nera, con ogni probabilità della famiglia Curter.
Un uomo e una donna, che non aveva mai visto prima, si avvicinarono alla Collins.
“Credo che siano i genitori di Morgana.” – disse Brenda.
Insieme a loro c’era una ragazza, che non doveva avere più di quindici anni. A giudicare dai lunghi capelli neri, doveva essere la sorella di Morgana. Rebecca avvertì una fitta allo stomaco.
La preside scambiò alcune parole con loro. La signora Curter si soffiò il naso, mentre il marito le accarezzava la spalla. Poi, anche Calì Amtara si unì a loro.
Mentre parlavano, la sorella di Morgana si guardò attorno finchè i suoi occhi si posarono su Rebecca, indugiando su di lei per un lungo, infinito istante. Rebecca si trovava a parecchi metri di distanza, ma quello sguardo le penetrò l’anima.
Poi, la ragazza tornò a rivolgere l’attenzione a sua madre.
Rebecca si chiese cosa stesse provando. Odio? Desiderio di vendetta?
Il professor Garou le aveva consigliato di parlare con loro, ma Rebecca non riusciva nemmeno a muoversi. Cos’avrebbe potuto dire? Come avrebbe giustificato il fatto che, per difesa o meno, era stata lei a provocare la morte della figlia?
La Collins e Calì Amtara salutarono la famiglia Curter e si allontanarono.
Fu allora che il cuore di Rebecca perse un battito. Il signore e la signora Curter l’avevano individuata e stavano venendo verso di lei, insieme alla figlia.
Rebecca deglutì a vuoto.
“Ehm, Rebecca, noi rientriamo.” – le disse Barbara, in tono incerto.
“Sì, ci vediamo dopo.” – disse Brenda, in tono più deciso.
Rebecca non ebbe nemmeno la forza di rispondere.
Pochi secondi dopo, la famiglia Curter era di fronte a lei.
“Rebecca Bonner, giusto?” – le chiese il padre di Morgana.
Rebecca annuì.
“Volevamo conoscerti, prima di andare.”
Le strinsero la mano.
Rebecca scoprì che non c’era traccia di rancore sui loro volti. La donna aveva gli occhi arrossati dal pianto e la guardava, un po’ titubante. Rebecca pensò che dovesse sentirsi in imbarazzo almeno quanto lei.
Non sapeva cosa dire. La ragazzina la stava fissando con espressione seria, facendola sentire ancora più a disagio.
“Sono sicuro che se avessi conosciuto la vera Morgana, sareste andate d’accordo.” – disse l’uomo.
Quelle parole le gelarono il sangue nelle vene, gettandola nello sconforto più totale.
La donna tirò su col naso, asciugandoselo nel fazzoletto.
Cosa diavolo avrebbe dovuto rispondere? Perché la stavano mettendo in imbarazzo in quel modo? Perché non la odiavano a morte? Dopotutto, Morgana era morta per colpa sua.
“Signor Curter, io…”
“No, non dire niente, ti prego. Non ce n’è bisogno. Sappi solamente che non ce l’abbiamo con te.”
Rebecca fu investita da un immenso moto di gratitudine.
Il signor Curter le porse nuovamente la mano. “Addio.”
Rebecca gliela strinse calorosamente. “Addio.”
Poi accadde qualcosa di totalmente inaspettato.
La signora Curter l’abbracciò.
Per un istante, Rebecca si sentì come quando la signora Lansbury la stringeva a sé, ogni volta che la incontrava. Avvertì tutto il suo calore e un profumo inebriante, di mughetto e di rosa.
“Addio, cara.” – mormorò la donna, staccandosi da lei.
“Addio, signora Curter.”
“Ciao.” – la salutò la ragazza.
“Ciao.”
Rebecca restò lì a guardarli mentre si allontanavano.
Li vide salire in macchina e ripartire.
Era stato un colloquio brevissimo, ma che le aveva alleggerito il cuore di un pesante fardello. La famiglia di Morgana non ce l’aveva con lei. In realtà, era lei ad avercela con se stessa, per come erano andate le cose, per non aver capito, per aver detestato Morgana senza conoscere la verità.
Rebecca non aveva bisogno del perdono dei Curter, aveva solo bisogno di perdonare se stessa.
Si guardò attorno. Molti genitori se n’erano andati e le Prescelte stavano rientrando a scuola. I professori erano spariti, così come la Collins.
Brenda e Barbara la stavano sicuramente aspettando.
Si voltò per raggiungerle, quando una voce la fermò.
“Rebecca.”
Con un sussulto, si voltò.
Di fronte a lei c’era Calì Amtara.
“Scusa, non volevo spaventarti.”
Era una donna di media altezza, con un corto caschetto di capelli corvini, qualche ruga e le labbra sottili. I grandi occhi grigi la guardavano con dolcezza. Rebecca si accorse che somigliavano a quelli di Morgana, anche se lei non l’aveva mai fissata in quel modo. Morgana l’aveva sempre guardata con odio.
“Volevo solo sapere come ti senti.”
“Bene.” – mentì.
“Non hai bisogno di fingere con me. Ho parlato con la professoressa Collins.”
Chiedendosi cosa potesse aver raccontato la Collins a Calì Amtara, Rebecca distolse lo sguardo.
Calì la prese dolcemente per le spalle, costringendola a guardarla.
“Non hai niente di cui rimproverarti, cara. È stata solo una terribile tragedia.”
Rebecca cominciava ad essere stanca di sentirselo ripetere. Ma che potevano saperne tutti di come si sentisse veramente?
“Probabilmente starai pensando che nessuno di noi ti può capire.”
Rebecca la guardò, sbalordita, chiedendosi se la donna che aveva dato il nome alla scuola fosse in grado di leggere nel pensiero.
Calì Amtara sorrise. “Sai, anch’io ho perso alcune persone care, a causa di Posimaar.”
Rebecca aggrottò la fronte. “Davvero?”
Calì Amtara annuì. “Prima mia sorella e poi mio padre. Mia madre è sopravvissuta, ma il colpo è stato troppo duro per lei. Ha perso completamente la ragione.”
Rebecca era sconvolta. “M-mi dispiace. Non lo sapevo.”
“Due Streghe Nere particolarmente audaci. Non abbiamo potuto fare niente.”
“Credevo attaccassero solo i Protetti.”
“Non è sempre stato così. Molte persone sono cadute per mano delle Streghe Nere ma, naturalmente, i Protetti sono i bersagli più facili.”
Rebecca tacque. Non aveva idea che quella donna avesse vissuto una tragedia simile. Ora capiva per quale motivo si era tanto prodigata per istituire quella scuola.
“E’ stato terribile. Ma la vita continua, così come questa guerra. Lo sconfiggeremo, ne sono certa.”
“Mi dispiace, io non avevo idea…”
“Non preoccuparti, cara. Ormai fa parte del passato. Ma ci tenevo a raccontartelo, sai? E c’è stato perfino un momento in cui sono stata sul punto di mollare. Volevo abbandonare la presidenza del Consiglio. Non m’importava più nulla, soprattutto con mia madre in quelle condizioni.”
“E cosa le ha fatto cambiare idea?”
“Voi.” – rispose Calì, con semplicità.
Rebecca corrugò la fronte. “Noi?”
Calì sorrise. “Sì, voi Prescelte.” Alzò la testa indicando con un gesto il maestoso edificio dietro di loro. “Tutto questo. La scuola, la nuova generazione di Streghe. Volevo davvero lasciare campo libero a Posimaar? Potevo permettergli di distruggere anche questo? Potevo abbandonare la scuola che porta il mio nome e in nome della quale avevo tanto combattuto? No, non avrei mai potuto farlo. Vedi, Rebecca, a volte bisogna mettere da parte il proprio ego, e scegliere ciò che è giusto, piuttosto che ciò che è comodo.”
Rebecca era senza parole. Mai avrebbe creduto che dietro alla fondatrice della scuola si celasse un dolore personale tanto immenso.
“Sono sicura che hai ancora molto da dare ad Amtara.”
Rebecca assottigliò lo sguardo. Che cosa voleva dire, esattamente, con quelle parole? Era sicura che non si riferisse al suo rendimento scolastico.
Ma prima che potesse fare domande, Calì Amtara si congedò da lei.
“Abbi cura di te, cara. Spero di rivederti presto.”
Rebecca restò lì a guardarla mentre salutava la preside, prima di andarsene.
Quella donna aveva compiuto una scelta coraggiosa.
Sarebbe riuscita a fare lo stesso, nel momento in cui si sarebbe trovata faccia a faccia con Posimaar?
“Rebecca!”
Per la seconda volta, nel giro di pochi minuti, Rebecca si voltò nell’udire il suo nome.
“Ciao Alyssa.”
Alyssa si avvicinò. “Ciao! Hai un minuto?”
“Sì, certamente.”
“Che ne dici di fare due passi?”
“Sì, d’accordo.”
Si avviarono lungo il vialetto, verso il cancello.
Rebecca era un po’ a disagio. Non aveva più parlato con Alyssa da quando Morgana era morta.
“Come ti senti?” – le chiese.
“Malissimo.” – rispose Alyssa.
“Già, ti capisco.”
“Non oso immaginare cosa devi aver passato. Voglio dire, dover lottare contro di lei e poi… lanciare quell’Incantesimo…”
“Se non ti dispiace, preferirei non parlarne.” – la bloccò, con più fervore di quanto non avesse voluto.
Alyssa arrossì. “Oh, scusami.”
“Non fa niente.” – si affrettò a rispondere Rebecca.
Se Alyssa era venuta per parlare di quello che era accaduto nell’ufficio della Poliglotter, per quello che la riguardava, poteva anche andarsene.
“Io… non volevo…” – balbettò Alyssa.
“E’ tutto a posto. E’ solo che sono giorni che la gente continua a farmi domande su quello che è successo e, sinceramente, sono stanca di parlarne.”
“Sì, certo, lo capisco.”
“Però se hai voglia di parlare d’altro, sono qui.”
Alyssa si fermò e la guardò. Rebecca doveva aver intuito il suo tormento.
Si scambiarono uno sguardo penetrante, prima che Alyssa riprendesse a parlare, con gli occhi lucidi e la voce incrinata.
“Il fatto è…il fatto è che non riesco a darmi pace.” – confessò disperata. “Non riesco a perdonarmi di averla trattata così. Se solo avessi saputo che non era in lei, io…”
“Nemmeno io lo sapevo. Nessuna di noi poteva saperlo. Non è stata colpa tua.”
“Sì, lo so. Ma questo non mi fa sentire meglio.”
Non fa sentire meglio nemmeno me.
Rebecca sospirò. Quella situazione aveva qualcosa di surreale. Alyssa era venuta a cercare conforto proprio da lei, la persona che aveva ucciso Morgana e che, meno di tutte, poteva confortare qualcuno in quel momento. Possibile che non se ne rendesse conto? Possibile che nessuno, lì dentro, avesse un minimo di tatto nei suoi riguardi?
Improvvisamente, alzò gli occhi al cielo, provando un istintivo desiderio di rientrare a scuola, tra le rassicuranti mura di Amtara, al riparo da sguardi indiscreti, al riparo da tutto e da tutti e, soprattutto, lontano dai sensi di colpa di Alyssa, dal momento che ne aveva già abbastanza dei suoi.
“Scusa, mi dispiace.” – continuò Alyssa, tirando su col naso. “Lo so che non dovrei parlare di questo con te, dopo quello che hai passato. Ma Margaret e Viola non mi rivolgono più la parola.”
Rebecca sgranò gli occhi. “E perché?”
“Perché ho abbandonato Morgana. E ora che sanno che non era davvero in sé, è anche peggio.”
“Ma tutto questo è assurdo!” – sbottò Rebecca, irritata. “Proprio perché non era in sé dovrebbero capire che il tuo comportamento è stato più che giustificato. Morgana si è comportata malissimo mentre era posseduta dal Demone. E ora che tutta questa storia è finita, dovremmo smetterla di portare rancore le une verso le altre, una volta per tutte.”
“Vorrei che anche loro la pensassero come te.” – commentò Alyssa, depressa.
“Lasciale perdere. Non meritano la tua amicizia.”
“Sì, forse hai ragione.” – mormorò Alyssa.
“Sai, poco fa una persona di grande valore mi ha detto che, a volte, bisogna scegliere ciò che è giusto, piuttosto che ciò che è comodo. Io credo sia ora di guardare avanti. Non hai bisogno di loro, Alyssa. Non hai bisogno di nessuno.”
Rebecca le sorrise.
Alyssa si asciugò gli occhi. “Grazie, Rebecca.”
 
“Hai preso tutto?” – domandò Brenda a Barbara.
“Possa cadermi un fulmine sulla testa se ho dimenticato qualcosa!” – rispose Barbara.
“Allora forse è meglio se mi scanso.”
“Spiritosa.”
Era arrivato il giorno della partenza e, come sempre, nell’atrio c’era un gran via vai di gente.
In quel trambusto, Rebecca riuscì a scorgere Elettra e Justine e, gesticolando vistosamente, le chiamò a gran voce.
“Ciao Rebecca!” – la salutò Elettra con un sorriso luminoso.
“Come state? Nervose per gli esami?”
“Un pochino.” – rispose Justine.
“Io no.” – rispose Elettra. “Mi sento più tranquilla di quanto non mi aspettassi.”
“Davvero?”
“Davvero.”
“Quando cominciano gli esami?” – domandò Rebecca.
“Tra una settimana.” – rispose Justine.
“Oh, non manca molto.”
Elettra le lanciò un’occhiata profonda, che Rebecca le restituì.
Non c’era bisogno di dire nulla. Entrambe sapevano che quello, probabilmente, era l’ultimo giorno in cui si sarebbero viste.
Dopo gli esami, anche Elettra e Justine, come ogni altra Prescelta, sarebbero state assegnate ad un Protetto.
Certo, avrebbero potuto scriversi, rimanere in contatto, ma non sarebbe stata la stessa cosa.
Rebecca ricacciò indietro le lacrime.
Per fortuna intervenne Barbara a stemperare la tensione.
“Se penso che il prossimo anno tocca a noi, ho il voltastomaco.” – commentò depressa.
“E tu allora non pensarci.” – le disse Elettra. “Hai ancora un anno intero davanti. E possono accadere un sacco di cose…”
Con quelle ultime parole, Elettra si era voltata verso Rebecca, lanciandole un’occhiata penetrante.
Rebecca trasalì. Che cosa voleva dire, esattamente? Era forse convinta, anche lei, che durante l’ultimo anno ad Amtara Rebecca avrebbe potuto sconfiggere Posimaar? Se l’avesse fatto, avrebbe liberato per sempre tutte le Prescelte da un futuro di schiavitù e dal pericolo mortale delle Streghe Nere.
Rebecca avrebbe tanto voluto avere la medesima fiducia in se stessa. Il Mondo della Magia Bianca si aspettava molto da lei. Sarebbe riuscita a non deluderlo?
Elettra abbracciò stretta Rebecca.
“Ci rivedremo?” – le chiese Rebecca, in un soffio.
“Resteremo in contatto. C’è ancora tempo prima che mi trovino un Protetto. Potrei tornare a farti visita a Villa Bunkie Beach dopo gli esami, che ne dici?”
Il viso di Rebecca s’illuminò. “Dico che è un’idea fantastica!”
“Sono arrivati mamma e papà.” – disse Brenda. “Dobbiamo andare.”
Si salutarono tutte, tra abbracci e qualche lacrima.
Rebecca salì in macchina.
Il signor Lansbury mise in moto e l’auto partì.
Stavolta Rebecca non si voltò indietro.
Mancava un anno, un solo anno, prima che il suo destino cambiasse per sempre.
O forse no…
Se solo avesse scovato Posimaar, se solo fosse riuscita ad ucciderlo…
Ma c’era ancora tempo. Aveva davanti tre lunghi mesi torridi, durante i quali avrebbe potuto salutare meglio Elettra e passare del tempo in montagna dai Lansbury.
Sì, c’era ancora tempo.
Poi, avrebbe pensato al domani.




JACK
 
“Sei un idiota!”
Jack emise un mugolio e andò a rifugiarsi in un angolo.
“Mi dispiace…” – piagnucolò.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse!” – ringhiò la voce.
“La prossima volta non sbaglierò.”
“Puoi scommetterci! Finora ho lasciato la cosa nelle tue mani, ma vedo che ho sbagliato a fidarmi di te!”
Jack emise un gemito, che la voce ignorò.
“Da adesso in poi farai come dico io.”
“S-sì.”
Si alzò una folata di vento gelido e Jack sollevò la testa, quel tanto che bastava per avere la fugace visione di un’ombra indistinta, che si ergeva maestosa dinanzi a lui.
Jack spalancò la bocca per lo stupore.
In tutti quegli anni, era la prima volta che la voce si manifestava a lui. Fino ad allora, non aveva fatto altro che obbedire agli ordini.
Jack sapeva a chi apparteneva la voce e conosceva il motivo per cui l’aveva spinto ad agire. Ma mai, prima di allora, aveva avuto il coraggio di chiedergli di manifestarsi. Sapeva che, al momento giusto, l’avrebbe fatto di sua spontanea volontà.
E il momento era arrivato.
Ma le sue aspettative furono deluse. Tutto ciò che riusciva a distinguere era una forma oscura, dalle sembianze umane. Non aveva un volto, non aveva occhi né bocca. Jack udiva ancora la voce, ma era come ascoltare un fantasma.
“Sei troppo debole per questa missione. I sentimenti ti offuscano la mente.”
A quelle parole, Jack si ridestò. “Io non provo niente.” – ruggì arrabbiato.
“Ne sei proprio sicuro? Forse, la piccola Strega non è alla tua portata… Forse è troppo forte per uno come te…”
“NO!” – urlò.
“Allora dimostralo! Dimostra che intendi distruggerla con le tue stesse mani! Dimostra di essere figlio di tuo padre!”
Un barlume d’odio accese lo sguardo di Jack, che si rialzò in piedi, lentamente.
L’ombra scrutò attentamente quel volto così familiare e capì che le sue parole avevano raggiunto il loro scopo.
Sì, ora Jack era pronto a obbedire a qualunque suo ordine, pronto ad uccidere.
“Dimmi cosa devo fare.” – mormorò Jack, in tono pacato.
Nell’oscurità della stanza, un sorriso diabolico increspò le labbra invisibili dell’ombra.
 
 
   
 
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