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Autore: settembre17    04/02/2022    20 recensioni
“Nessuno mai sulla terra
ha scoperto da parte d’un dio
un segno certo di ciò che sarà;
la cognizione del futuro è cieca.
Molte cose succedono agli uomini
contro il piacere; altri s’imbattono
in un vortice di pene
e mutano in breve il male
in un bene profondo”
(Pindaro, Olimpica XII)
Il temutissimo (per chi scrive) finale dell’episodio 28 e l’inizio dell’episodio 29. Da qui parte questa piccola storia. Nei primi capitoli il tempo scorre molto lentamente, più all’indietro che in avanti, poi la vicenda procederà secondo una strada diversa da quella originale.
Come sempre nei miei racconti, più introspezione che avventura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAP. 8 Quello che voglio

 

Aube

Non aveva chiuso occhio tutta notte: era rimasta sveglia con lo sguardo al soffitto in un letto che non toccava da quando era bambina, a fianco di un uomo incosciente per il vino e per il dolore. Dopo averlo messo con fatica sul letto si era sdraiata anche lei, il suo corpo a un palmo da lui: non lo sfiorava nemmeno, ma averlo vicino, sentire il suo respiro nell’oscurità, saperlo lì, accanto a lei, la rendeva forte, caparbia, libera. In quel letto, con lucidità, aveva messo insieme gli indizi che suo padre e Girodelle avevano incautamente sparso qua e là nell’ultimo mese, di certo dimenticandosi che avevano a che fare con lei e non con una damina sprovveduta.
E per questo, quando ancora all’alba suo padre l’aveva fatta chiamare, lei sapeva esattamente dove lui voleva andare a parare, perché ci aveva pensato per ore a quelle parole di André, Oscar ti prego non ti sposare, e aveva senza sforzo capito tutto: i progetti di suo padre e quelli di Girodelle le si erano rivelati chiarissimi nel buio della notte, a una spanna dal corpo addormentato di André.
 
Il generale misurava a lunghe falcate il tappeto, era molto concentrato.
Due cose doveva dirle: che non avrebbe comandato quei soldati a Parigi e che si sarebbe sposata con Girodelle. Due cose. E lei avrebbe chinato il capo perché quello era il volere di suo padre. Punto. Serrò involontariamente i pugni guardando il sole che prepotente si alzava all’orizzonte.
“Padre, mi avete fatto chiamare.”
“Vieni, Oscar, ti devo parlare. Siediti qui.” Le mostrò la sedia di fronte alla sua stendendo il palmo della mano. Pareva stranamente mansueto, ma a lei avevano spiegato che gli animali feroci sono più pericolosi proprio quando si mostrano docili. Così, dopo essersi accomodata, gli lasciò il campo:
“Padre, ditemi, allora.”
Lui la guardò e si sentì rassicurato dalla gentilezza filiale di lei; c’era solo un dettaglio fuori posto ed erano quelle occhiaie, quegli occhi… leggermente arrossati… come se lei non avesse dormito…
Optò per un cauto accerchiamento:
“Immagino che questo periodo di congedo tra un incarico e l’altro ti abbia dato modo di pensare alle tue scelte e al tuo futuro e vedo che hai mantenuto rapporti amichevoli con il tuo successore, con Girodelle, intendo…”
Ma lei aveva passato la notte ad affilare le armi ed ora era pronta alla prima stoccata:
“Girodelle è sempre stato un ottimo sottoposto. Farmi obbedire da lui in questi anni è stato molto facile, lo riconosco.”
Lui si ritrovò impicciato: non era quello il ritratto di un futuro marito! Che stava facendo sua figlia? Stava anticipando le sue mosse? La fissò con attenzione mentre lei proseguiva:
“In tutta sincerità, padre, avete ragione: ho avuto occasione di riflettere a lungo in questo mese e vi confesso che sono impaziente di iniziare il mio nuovo incarico. Comandare i soldati della Guardia a Parigi è una sfida nella quale avrò occasione di mettere alla prova la preparazione militare e l’attitudine al comando che voi mi avete insegnato sin dalla mia più tenera età.”
Si accorse allora che lei lo stava accerchiando con spietatezza scientifica: l’accerchiatore che si ritrova accerchiato, ah!
Così, spazientito, cambiò tattica e optò per l’attacco frontale, perché, in fondo, aveva ragione il generale Bouillé quando gli diceva “Jarjayes, avreste voi il mio posto se non foste tanto irruente!”, e allora, guardandola negli occhi, sguainò la sua arma:
“Ho preso delle decisioni che ti riguardano, Oscar.”
Ma lei non si impressionò:
“Vi ascolto, padre.”
Il tono era accomodante, ma gli occhi dardeggiavano: lui se ne accorse e si irritò. Che cosa stava facendo sua figlia? Lo stava sfidando a colpire per primo? Pensava di avere una qualche arma da usare contro di lui?
“Non comanderai i soldati della Guardia. È un incarico che ti espone a una vita troppo dura e rischiosa.”
La guardò e vide lo sforzo che lei faceva per dominare la rabbia, ma soprattutto riconobbe nel suo sguardo il furore che aveva sempre cercato di suscitare nei suoi sottufficiali troppo spesso svogliati e indolenti. Avrebbe voluto portare sua figlia ad esempio per quei rammolliti! Così si distrasse e lei, che se ne accorse, ne approfittò con destrezza:
“Padre, non vi dovete preoccupare di questo: voi mi avete addestrato, voi sapete che sono pronta ad affrontare qualunque tipo di difficoltà. Sarò il vostro orgoglio.”
Gli aveva rubato l’arma? Stava usando la sua arma contro di lui? Non sapeva se essere più furioso o più ammirato.
Così, nell’incertezza di lui, lei, implacabile, proseguì:
“D’altro canto, padre, la mia vita è la vita di un militare, proprio come la vostra. Come potrei, alla mia età, cambiare il mio modo di vivere? Che cosa dovrei fare invece che comandare i soldati della Guardia? Dovrei per caso… sposarmi??” e scoppiò in una risata talmente argentina che rendeva perfettamente l’assurdità di quell’ultima ipotesi.
Lui si accorse con chiarezza di essere sotto assedio, ma tentò una resistenza:
“Che cosa significa alla tua età? E perché dovrebbe farti ridere l’idea di sposarti? Sei una donna, Oscar, non hai mai pensato a quello che ti è mancato a causa della mia decisione di allevarti come un uomo?”
Ecco, una piccola concessione per minare la sicurezza dell’avversario.
Lei invece gli sorrise e con pazienza rispose:
“Padre, la vostra decisione mi ha consentito una vita che è preclusa alle altre donne. Se mi aveste allevato come una contessa, chissà, ora probabilmente starei pensando ad accasare i miei figli… - un altro accenno di quella risata - invece, guardate: da colonnello sono stata promossa Comandante! Sono nel pieno della mia carriera, padre. Come potrei non ringraziarvi?”
Lui, traboccante di orgoglio paterno, sentì di voler abbracciare quel nemico che in realtà amava e il pensiero di lei in abito da sposa al fianco di quel belloccio di Girodelle gli parve uno degli abbagli più grandi che mai avesse preso.
Ma c’era ancora qualcosa che non gli consentiva di lasciarsi andare, di arrendersi: si accorse in effetti che doveva decifrare qualcosa che gli stava sfuggendo, ma che lui, con l’istinto, con il fiuto, percepiva chiaramente.
La studiò e tornò a quello che aveva notato quando era entrata: aveva le occhiaie, gli occhi cerchiati di chi non ha dormito… ma perché non aveva dormito?
Ma certo!
Come aveva potuto trascurare quel dettaglio? E come conciliare quella evidente stanchezza fisica con la ferma combattività che stava dimostrando? Da dove le veniva quella forza?
Poi, improvvisa, una rivelazione: non doveva chiedersi da dove, ma da chi!
E lui sapeva da chi!
Dall’uomo che era tornato da un giorno solo, dall’uomo che lui stesso quasi trent’anni prima aveva posto al fianco di sua figlia, dall’uomo che nemmeno un prestigioso incarico in Normandia aveva tenuto lontano da lei!
Così, quando lei si era già alzata e si stava ritirando da vincitrice, ma da vincitrice clemente, da vincitrice che risparmia il nemico, purché il nemico sappia ben chiaramente di essere stato graziato, in quel momento lui, che non voleva la sua clemenza e che era ormai determinato a mettere in chiaro tutto, la colpì alle spalle, come il peggiore dei nemici:
“Girodelle mi ha chiesto la tua mano e io ho accettato. Sono però disposto a tornare sulla mia decisione a patto che lui ritiri la sua proposta visto che evidentemente i suoi sentimenti non sono da te ricambiati. Come dici tu, alla tua età, meriti di poter scegliere con chi vuoi condividere la tua vita. A meno che quella persona non sia…”
Lei si voltò di scatto, il respiro trattenuto e un fuoco a incendiarle gli occhi: suo padre, un avversario da non sottovalutare!
Lui restò impietrito, indeciso se esultare per aver colto nel segno o se inorridire per quello che la reazione di lei rendeva esplicito.
Ma lei voleva la vittoria, piena, assoluta:
“Padre, in più di trent’anni l’ultima cosa di cui vi siete occupato è stata la mia vita personale. Che cosa ho fatto, che cosa ho provato, se ho conosciuto l’amore… questi argomenti fanno arrossire me come figlia e, credo, anche voi come padre. Lasciate stare la mia vita privata come avete sempre fatto. La mia vita pubblica sarà al comando dei soldati della Guardia, come vuole la nostra Regina, e al servizio della Francia.”
Detto questo, senza aspettare risposta se ne andò, lasciando il generale vinto e consapevole di quanto sua figlia gli somigliasse.
 

Matin

Lui si svegliò abbracciato al suo cuscino e vestito come la sera prima. Impiegò un po’ di tempo a percepirsi nello spazio e nel tempo, finché realizzò che era mattina avanzata e che si trovava nel suo letto.
Come ci era arrivato? Non ne aveva idea.
Che ore erano? Non gli importava.
Della sera prima ricordava solo una cosa. Orribile.
Eppure… eppure vagamente ricordava anche… no… impossibile…
Eppure… ad un certo punto, ma era davvero ubriaco in effetti, gli era persino sembrato che lei l’avesse… accarezzato? No… impossibile!
Eppure… strizzò gli occhi chiusi per recuperare ancora un frammento di ricordo… un profumo conosciuto… un braccio che lo sorregge fino alla porta della sua camera… no, no… impossibile.
“André, sei un povero illuso!”
Aprì gli occhi e poi, con un movimento deciso, si alzò: il corpo chiamava.
Dopo essersi sistemato, lavato e rasato prese il cuscino per sprimacciarlo e fu in quel momento che vide sul lenzuolo stropicciato un lungo, lunghissimo capello biondo.
Lo guardò incredulo: possibile?
 
Quando arrivò nell’atrio di ingresso dove la nonna stava sistemando nei vasi i fiori appena arrivati, le andò incontro e lei, con aria di rimprovero lo scrutò dalla testa ai piedi:
“Abbiamo dormito stamattina, Monsieur Grandier!”
“Scusami nonna, ieri sera devo essere crollato… la stanchezza…”
Lei lo guardò da sopra gli occhiali con aria investigativa: che cosa vedeva la nonna nel suo volto? André avrebbe voluto saperlo.
“Comunque, fatta eccezione per te, la casa si è svegliata presto stamane. Il generale ha fatto colazione all’alba e poi ha voluto subito parlare con Oscar…”
Perché sua nonna faceva quelle pause dense di sottintesi? Lui non aveva idea di che cosa fosse successo quella mattina, i movimenti di Oscar e del generale gli erano completamente sconosciuti.
“E quando hanno finito lei è corsa a prendere il cavallo ed è uscita al galoppo…”
Di nuovo quella sospensione della frase: che cosa doveva capire, lui?
“Nonna, perché mi stai dicendo queste cose come se io dovessi saperne più di te?” sbottò infine.
Allora lei lo prese per un braccio e lo condusse in un angolo dell’atrio, vicino a un tendone e lontano dalle orecchie delle altre cameriere che giravano per la casa affaccendate:
“Senti, non so, non so che cosa stia succedendo in questa casa. Ma da un mese, un mese!, lei non suonava il pianoforte: beh, ieri, che casualità vero?, ha suonato! E per essere precisi, lei non stava semplicemente suonando, nossignore, ieri quel pianoforte parlava! E io non so di che cosa parlava, ma ho una certa idea di sapere a chi parlava.”
Lui le mise le mani sulle spalle e con un impercettibile tremito le disse:
“Nonna, non ti devi preoccupare così, non è davvero il caso…”
“No, sei tu che non ti devi preoccupare – disse lei con tristezza – e non ti devi nemmeno ubriacare, André. Non sposerà mai Girodelle, per quanto lui possa essere insistente – alzò gli occhi verso di lui, strinse le labbra con forza e poi abbassò la voce – ma questo non vuole dire niente, per te. Ricordatelo, André.”
“Nonna…”
Non fece in tempo a proseguire che sentirono gli zoccoli di un cavallo battere la ghiaia e poi videro lei che balzava giù dalla sella mentre il cavallo ancora correva. Si affacciò alla porta con il frustino in mano, accaldata, le guance rosse e gli occhi che lacrimavano per il vento fresco della mattina:
“Sei qui, André” disse in modo diretto guardandolo negli occhi.
“Buongiorno, Oscar” la salutò senza chinare il capo, restituendole lo sguardo. Pensò che da ragazzi si guardavano sempre così.
La nonna borbottò un “allora io vado…” che non ottenne risposta perché entrambi stavano trattenendo il respiro nell’emozione di incontrarsi di nuovo.
Allora lei, rinunciando a comandare, a dare ordini, a volere, disse:
“Hai voglia di venire a Parigi con me?”
Lui capì dalla inflessione un po’ scivolata di quella domanda che c’era qualcosa di diverso in lei, qualcosa che gli riusciva difficile decifrare e così esitò a rispondere. Ma poi ricordando lo schiaffo il bacio la camicia strappata, ricordando i progetti del generale e ricordando anche le parole della nonna, ma non ricordando la forcina che lui stesso aveva lucidato, la musica che aveva sentito e nemmeno quel capello biondo che si era trovato sul letto, le rispose:
“Oscar, c’è tanto da fare stamattina e io ho promesso alla nonna che…”
Allora lei fece un passo ancora verso di lui e quasi con timidezza ripeté:
“Hai voglia di venire a Parigi con me?”
Come poteva resisterle? Come poteva?
Si morse appena le labbra per scacciare l’ultima esitazione, poi avanzò verso di lei e poco prima di superarla di lato, disse a voce bassa:
“Dammi un minuto, vado a prendere il cavallo.”
Lei sentì alle sue spalle il frusciare della sua camicia e percepì la consistenza della sua presenza intorno a lei.
Si voltò e riempì i suoi occhi con la figura di André, l’uomo che le stava insegnando la libertà.
 
Mentre galoppavano verso Parigi, André dimenticò quella sera in cui le aveva strappato una camicia, dimenticò che lei amava un conte svedese, dimenticò che lei avrebbe forse sposato un conte francese, dimenticò che lei voleva vivere come un uomo. Non pensò a nessuna di queste cose perché era troppo concentrato a vivere quel momento in cui di nuovo erano insieme e lui era al suo fianco e insieme volavano nel vento.
Mentre galoppavano verso Parigi, Oscar non dedicò nemmeno un pensiero al povero Girodelle; quella mattina presto, all’ultimo incrocio prima della reggia dove lei lo stava aspettando con l’impazienza di chi legge l’ultima riga di un libro poco interessante per poi chiudere la quarta di copertina una volta per tutte, l’aveva liquidato senza lasciargli il tempo di rispondere: “Dovete dimenticarmi, e in fretta. Vi prego di ritirare la vostra proposta, se è vero che tenete a me come dite” così gli aveva detto. Ma lei proprio non pensò a Girodelle e, mentre galoppava leggera nel mattino profumato di primavera, si fece superare più volte da André per poi inseguirlo e superarlo a sua volta: non voleva perderlo di vista, non voleva che lui galoppasse dietro di lei come un Jacquerelle qualunque, non voleva che la figura di quell’uomo fosse lontana dai suoi occhi. Tutto il resto? Che andasse al diavolo!
 

Midi

Entrati in città e percorso un tratto oltre la Senna, lei tirò con forza le redini e arrestò il cavallo:
“Guarda, André!”
Lui si fermò e tutto quello che aveva rimosso gli piombò addosso di colpo: davanti a lui, imponente, massiccia, investita dalla luce che veniva poi riflessa dai finestroni che davano sulla piazza d’armi c’era la caserma dei soldati della Guardia. Ebbe un capogiro e anche l’occhio sano si appannò per un istante.
Vide sé stesso, il giorno prima, uscire felice e incosciente da quel cancello, rivide il braccio alto di Léonie che gli faceva segno dal calesse, rivide il sorriso sghembo di Alain.
“Dal mese prossimo sarò in servizio qui, comanderò i soldati della Guardia”, lei gli parlava guardando la cancellata d’ingresso.
Lui sentiva salire il dolore strato dopo strato, parola dopo parola:
Oscar… tu non comanderai questi soldati…
“Senti, André, devo ritirare dei documenti dal colonnello d’Agoult: vuoi venire con me?” nel chiederlo si voltò verso di lui e fu colpita dall’evidente sforzo che lui stava facendo per assecondarla.
“Oh, no, Oscar, vai pure. Io ti aspetterò qui, non devi preoccuparti.”
“Come vuoi, André. Non mi ci vorrà molto.”
E mentre lei sul suo cavallo bianco entrava nella caserma e mentre il rumore degli zoccoli sul selciato si allontanava, André sentì crescere la disperazione.
Che cosa farò qui, se tu non ci sarai?
Come potrò vivere lontano da te?
 
In effetti lei tornò presto. Pareva molto concentrata e seria. Lui le fece un cenno con la mano e lei gli si affiancò; allora lui indicò con lo sguardo il fondo del viale e le chiese:
“Vuoi tornare a casa, adesso?”
“No.” Lei lo guardava negli occhi, ma la sua voce non tradiva emozioni.
“Preferisci restare sola?” anche lui la guardò.
“No.”
Perché lo guardava così? Che cosa stava cercando di dirgli con quegli occhi? Quale strana creatura aveva di fronte?
Poi lei scavalcò tutti i suoi pensieri con una frase, anzi con due.
“André, non credo proprio che mi sposerò tanto presto. E fidati, io comanderò questi soldati.”
Lui trasalì perché intravide sotto le ciglia di lei brillare una determinazione nuova e allora lesse nei suoi occhi:
Ti fidi di me?
E André si affidò a quella donna che amava e sentì placarsi tutte le tempeste del suo cuore e le credette: no, non si sarebbe sposata e sì, avrebbe comandato quei soldati; e sentì la speranza che tornava ad abitare il suo cuore e mentre dentro di lui tutto pareva acquistare una nuova luce, con il suo occhio le rispose:
Certo che mi fido di te
Poi lei con uno sguardo allegro e lieve, tirando le redini al petto gli disse:
“Posso chiederti un favore, André?”
Da quando chiedeva? Chiedeva e non ordinava?
“Ma certo, Oscar”, la voce gli uscì strozzata.
“Portami al Café Procope, ho voglia di un gelato!” e poi lei rise, rise!, e girò il cavallo verso la riva della Senna.
 
Quando furono seduti a un piccolo tavolo rotondo in fondo alla sala e vicino al camino che scoppiettava allegramente, lei gli chiese curiosa:
“E che cosa fai di solito, André, quando vieni qui?”
Lui non aveva ancora capito da dove fosse spuntata quella donna così sicura, così loquace, così diretta: rinunciando a volerlo scoprire e deciso a godersi la sua compagnia, assecondò il suo buonumore:
“Di solito leggo il giornale.”
Allora lei allungò la mano verso il tavolo vicino, afferrò due fogli piegati e glieli porse:
“Eccoti il giornale, allora.”
“Vuoi che te lo legga?”
“Oh, no. Leggilo tu, io intanto mi gusto il mio déjeuner.”
Sei così… strana, pensò lui, … ma io voglio solo vivere questo momento. Io e te al Café Procope… quante volte avrei voluto portarti qui…
Così stettero al tavolo una buona mezz’ora: lui, seduto di tre quarti, con le gambe accavallate che si allungavano sul tappeto, ben appoggiato allo schienale della poltroncina, reggeva il giornale tenendo un braccio sul tavolo; lei, di fronte a lui, gustava gelato e caffè cercando di farli durare più a lungo possibile. Osservava anche il viavai degli avventori, guardandoli tutti ma non fissando l’attenzione su nessuno, come se non fossero altro che lo sfondo del suo déjeuner con André. E poi di tanto in tanto lo sbirciava, concentrato nella lettura, con quella piccola ruga tra le sopracciglia che forse indicava lo sforzo di leggere con un solo occhio, le mani, dio che belle mani!, che reggevano i fogli con eleganza, le dita morbidamente piegate che scorrevano verso l’alto o verso il basso dei margini dei fogli a seconda del punto che André stava leggendo…
Dopo un po’ lui si sentì osservato e abbassò il giornale per guardarla:
“Ti stai annoiando, Oscar? Vuoi che andiamo?”
“Cosa…? oh, no… no, André. Finisci pure di leggere. Mi stavo solo chiedendo… come mai non c’è nessuno che discute, che parla? Una volta mi hai detto di aver ascoltato discorsi politici, qui.”
“Oh, per quello bisogna venire nel tardo pomeriggio, Oscar, meglio ancora la sera. A quest’ora la gente lavora…” poi si fermò temendo di averla offesa.
Ma pareva che niente la potesse turbare quel giorno:
“Hai ragione, André. Sono una sciocca, come ho potuto non pensarci?”
Lui la fissò negli occhi, chi sei tu?, poi, non lasciando gli occhi di lei che ricambiavano lucidi il suo sguardo, piegò i fogli che ripose sul tavolo. Si sporse un po’ verso di lei e lentamente, trattenendo a stento il desiderio di baciarla lì, in pubblico, in mezzo a quella sala di specchi e d’oro, con la voce bassa le disse:
“Vado a pagare. Mi sembri stanca, forse hai voglia di riposare.”
Lei rimase seduta:
“… sì… non ho dormito stanotte…” mormorò.
“L’avevo immaginato” alzò la mano per spostarle una piccola ciocca di capelli dal viso ma poi si trattenne e lasciò che facesse lei.
Turbata e stranamente inquieta, Oscar lo vide avviarsi al bancone e poi alla rimessa dei cavalli.
Quando la luce del giorno la inondò, mentre usciva dal café e andava verso di lui, sentì il mondo che si fermava.
 

Après-midi

Si avviarono verso palazzo Jarjayes nella tiepida luce del primo pomeriggio.
Lui non parlava: tante cose erano ancora irrisolte, sospese, indefinite, ma lui sapeva che in quel loro linguaggio fatto di tanti sguardi e di poche parole stavano tornando a capirsi come un tempo. E poi c’era anche altro nel loro ritrovarsi dopo quel mese di lontananza, un’emozione nuova e mai vissuta prima, una tensione irresistibile a cui lui non osava dare un nome. Ma al Café, al riparo di quei due fogli di giornale, in quel loro silenzio così familiare e così dolce, mentre con lo sguardo stava leggendo le ultime notizie e con il cuore stava sentendo la calda presenza di lei e mentre, contemporaneamente, la memoria selezionava ricordi del passato da avvicinare a quello che stavano vivendo lì, davanti a quel gelato e a quel caffè, gli era balenato nella mente che in effetti non erano mai andati a Parigi per un gelato, ma sempre per bere… e che era sempre sera tardi… e che… di solito lei era triste mentre in quel momento… no, non lo era per niente… E poi André, con la velocità di chi ritrae la mano da un bellissimo fiore che sta per cogliere quando vede che la sua corolla è abitata da un’ape, aveva cacciato lontano da sé l’inizio di una intuizione.
E quell’intuizione, fulminea, era il pensiero che quel giorno a quel tavolo del Café Procope c’erano solo loro due. Solo loro e nessun fantasma di un conte svedese.
 
Lei non parlava: ad ogni passo sentiva che la sua vita si stava aggiustando, pezzo dopo pezzo: suo padre, Girodelle, i soldati della Guardia… ma soprattutto...
Lui. Lui che era tornato. Loro due ancora insieme, fianco a fianco. E quel loro capirsi senza troppe parole, quello stare insieme senza avvertire il bisogno di conversare… aveva sempre amato la naturalezza con cui lei e André sapevano condividere il silenzio. E poi la presenza del suo corpo alla portata dei suoi occhi, il corpo di André…
Due cose sole restavano in sospeso: la prima la faceva sentire smarrita e in bilico, la seconda la faceva sentire a un passo dal comprendere che cosa fosse la felicità.
La prima: Hai pensato al tuo futuro, André?
La seconda: Hai capito che cosa mi è successo, André? Hai capito che ti amo?
 
In silenzio e senza essersi messi d’accordo rallentarono all’altezza del laghetto della loro infanzia e poi, con un cenno d’intesa, deviarono fino alla radura.
Liberarono i cavalli che andarono pigramente verso l’acqua, mentre lei si sdraiava al sole e lui un po’ più indietro, per proteggere la vista nella penombra creata dalla chioma di un faggio.
“Mi è sempre piaciuto questo posto” disse lei ad occhi chiusi stiracchiandosi un po’.
Lui non disse niente.
“André?”
“Dimmi, Oscar.”
“Com’era la Normandia?”
Lui non disse niente. Allora lei aprì gli occhi e lo guardò:
“André, raccontami della nostra Normandia, ti prego.”
Disse proprio così, “della nostra Normandia”.
E André rinunciò ancora una volta a chiedersi perché lei fosse così diversa dalla donna che si aspettava di trovare al suo ritorno e così simile alla donna di cui si era innamorato e decise che quello non era il tempo delle domande. E decise che quel momento di armonia assoluta lui se lo sarebbe preso e bevuto tutto, perché non riusciva a immaginare nulla di più bello che parlare con lei, nella radura invasa dalla primavera, con l’orizzonte che finiva nella figura di lei, stesa nell’erba, con gli occhi chiusi e con le labbra curvate in un morbido sorriso.
E allora André, che si era accorto già al Café Procope di quanto lei fosse stanca e che fin da quando l’aveva vista nell’atrio di casa aveva intuito che quella notte lei non aveva dormito affatto, raccontò della Normandia con la voce bassa e lenta di chi sta raccontando una storia della buona notte.
E lei che voleva proprio questo, si lasciò cullare dalle parole di André che raccontavano di tutte le stanze della villa in Normandia in cui avevano giocato a nascondino da piccoli, del vento che la notte soffiava così forte, a volte, che persino le doppie cortine di velluto che sua madre aveva voluto in ogni camera da letto non bastavano a coprire gli spifferi, del fuoco dell’atrio d’ingresso, secondo André il camino più ingovernabile del mondo, fin dal tempo in cui da ragazzo aveva impiegato ore perché finalmente la cappa tirasse adeguatamente, e… e poi André, che si era accorto che lei ormai dormiva, continuò a raccontare, perché voleva che lei al risveglio sapesse che lui non si era fermato e voleva che lei si svegliasse ancora con la sua voce a portarla dal sonno alla veglia e allora andò avanti e con le parole uscì dalla porta della villa e le fece vedere le dune di sabbia e poi le fece sentire le onde del mare, il vento che gli sollevava le falde del mantello e che innervosiva i cavalli, il grido di albatri che si perdeva nei colori della sera e poi le fece sentire la consistenza della sabbia, dalle dune morbide vicino alla villa fino a quella dura e bagnata della riva, lì a loro piaceva cavalcare, vero?, in quella striscia che non era più terra e ancora non era mare, sì: lì a loro piaceva cavalcare - forse fu in quel momento che lei sognò di cavalcare con lui in riva al mare? -  e poi ancora le raccontò dei colori, del profumo dell’erica, delle conchiglie e dei sassi che aveva raccolto per portarli a lei - tanto lei non sentiva: poteva dirglielo, no? - e poi ancora le raccontò della palizzata che aveva riparato dopo che una tempesta ne aveva fatto cadere tutti i paletti e le raccontò che sempre, sempre, ogni giorno aveva pensato a lei e poi le raccontò ancora che era stato poco in mezzo alla gente in quel mese e che il suo occhio destro stava meglio perché aveva imparato che doveva lasciarlo riposare qualche ora e tenerlo al riparo dal sole diretto e…
E vide che lei lo guardava. Era seria e attenta:
“Continua, André”
“E… - le sorrise - e non è vero che se perdi un occhio comunque ti rimane l’altro. Perché l’altro fa fatica e allora bisogna aiutarlo.”
“Come lo aiuti, André?”
Ma perché era così preoccupata? Perché pareva che fosse lei ad aver perso un occhio?
“Ma non ti devi preoccupare, Oscar, davvero. Lo chiudo per un paio di ore al giorno, lo riparo dalla luce diretta del sole e poi ho imparato a tenere con me una lente d’ingrandimento per leggere…”
“Non l’hai usata al Café Procope…”
“Non volevo che tu mi prendessi in giro!”
Lei allungò il braccio e gli diede una manata sul polpaccio:
“Sei uno stupido, Grandier!”
“E tu sei una zuccona, madamigella. Hai freddo, vero? Stai tremando! Dai, torniamo a casa che hai dormito almeno un’ora sull’erba di marzo!”
“Quasi aprile”, puntualizzò lei montando in sella, “a chi arriva primo?”
Lui rise e la seguì.
 
Arrivarono a palazzo insieme a un carro pieno di merce:
“Guarda, Oscar, è arrivato il carico dalla Normandia.”
“mh?” lei osservò stupita il carro dal ciglio della strada, aveva fatto accostare il cavallo per lasciarlo passare.
“Tuo padre ha voluto che riportassi indietro alcuni oggetti di famiglia… un paio di quadri, la poltrona dello studio rosso, i cuscini che tua madre ricamava d’estate…”
Tutte le cose che suo padre più amava, pensò lei. E con una stretta al cuore comprese che suo padre pensava di non vedere mai più la Normandia.
Arrivarono in silenzio davanti alla scuderia, smontarono da cavallo e, mentre lui prendeva le briglie di entrambi, lei, prima di avviarsi verso il palazzo, appoggiò una mano al pannello del portone e guardandolo disse:
“Un tempo sono stata innamorata di Fersen…”
Lui si bloccò e si voltò verso di lei, ma lei aveva distolto lo sguardo e fissava un punto imprecisato davanti a sé con aria concentrata, con le sopracciglia strette nello sforzo e poi aggiunse, come sovrappensiero:
“… ma ora… non me lo ricordo più… non me lo ricordo più…”
Poi diede le spalle al portone e si mise di fronte a lui:
“Vuoi cenare con me?”
Lo chiese ancora con quel tono, il tono di chi contempla anche un no come risposta, e con quel sorriso un po’ timido di chi di quel no ha paura.
“Oscar, forse io e te dovremmo parlare, non credi?”
Allora lei si aggrappò alle briglie del cavallo di lui, le mani un po’ più in alto di quelle di André, poi lo guardò e ripeté:
“Vuoi cenare con me, stasera?”
“Certo che voglio cenare con te. Ma dobbiamo parlare, io ti devo parlare.”
 

Soir

Poco più tardi, però, nella sala da pranzo, André non fece in tempo a iniziare nessun discorso che lei venendogli incontro lo investì di parole: furente brandiva tra le mani dei fogli che fece precipitare sul tavolo con il movimento più violento che potesse:
“Mi vuoi spiegare che cos’è questo, André?”
Lui non capiva.
“Sai perché stamattina sono andata in caserma? Indovina? Per avere l’elenco aggiornato dei soldati della Guardia dopo la chiusura dell’arruolamento di marzo!”
Lui contrasse la mandibola e la fronteggiò senza abbassare lo sguardo:
“Quindi?”
“Quindi?? Ti sei arruolato!! Ti sei arruolato, André!!”
“Certo che mi sono arruolato! Che cosa credevi, che ti avrei lasciato da sola tra i soldati della Guardia? Che sarei rimasto qui a palazzo ad aspettarti tutte le sere? Che cosa ti aspettavi, di preciso, da me, Oscar?”
Ma lei non finì di sentirlo, furiosa salì in camera sua ed entrò sbattendo la porta.
 
Qualche minuto dopo, lei sentì bussare alla porta della sua stanza.
“Puoi uscire, per favore? Ti prego, parliamo.”
“Entra.”
“Preferirei non entrare, Oscar. Ti prego, scendi con me.”
“Ho detto: entra, André.”
Era la prima volta in quel giorno che lei ordinava.
Lui obbedì, ma entrare in quella stanza era molto faticoso.
Sapevano tutti e due che cosa era successo in quella stanza un mese prima.
Lei però sembrava non ricordarlo: gli dava le spalle e guardava fuori dalla finestra. Un po’ tremava. Ma non tremava come quel giorno, non tremava di rabbia, non c’era rabbia in quella stanza, no.
Lui appoggiò sul tavolino vicino al fuoco una cassetta di legno chiaro che teneva tra le mani e nel farlo si accorse che sulla consolle di fronte a lui c’era la scatola color carta da zucchero. Si avvicinò con emozione:
“E questa? Pensavo che tu l’avessi buttata anni fa…”, la dolcezza del ricordo di una bambina bionda e riccioluta che indossa un tricorno e che scarta statuine del presepe si impossessò di lui, “che cosa contiene ora?” Lei si voltò di scatto per impedirgli di aprirla, ma lui stava già guardando perché il coperchio era solo appoggiato un po’ sbilenco sulla parte superiore della scatola e vedere dentro era proprio facile.
Così, quando si voltò, lei vide lui che già osservava il fondo della scatola.
“Oscar…” non sapeva che cosa dirle. Ma il suo cuore capiva, capiva e cercava di spiegare alla sua ragione ancora incredula.
 
“Non permetterò che tu sacrifichi altro per me, André. Non voglio che tu ti arruoli.” Lo disse piano, guardandolo con tutto l’amore di cui era capace.
Lo capisci che ti amo, André?
Allora lui, che ormai aveva capito, tese la mano verso di lei.
Ma certo che ho capito, lo vedi che ti amo anche io?
Lei non pensò e tese la mano verso di lui.
Ciao
Lui strinse quella mano e la avvicinò un poco a sé.
Ciao
 
Poi con l’altra mano prese la maschera dal fondo della scatola e, sempre tenendo lei per mano, la portò davanti al fuoco.
“Non sono queste le cose che voglio che tu conservi di me”, la maschera si accartocciò tra le fiamme.
Poi lui alzò lo sguardo: vide sulla mensola la forcina e sorrise.
“Mi sono già arruolato. È una vita che siamo insieme, non mi pare il caso di smettere ora, non trovi?”
Anche lei sorrise guardando la forcina e un po’ arrossì:
“Fa’ come ti pare, Grandier” ma la sua voce era miele e i suoi occhi dicevano
Non lasciarmi mai, André
Poi lui voltò la testa al tavolino alle loro spalle:
“Ti ho portato un regalo dalla Normandia, magari lo vuoi vedere.”
“Una cassetta di champagne?”, in effetti questo c’era sul tavolo.
Lei guardò il regalo con aria stupita e vagamente delusa. Ma lui fu veloce a prendere tra le mani quella cassetta:
“Beh, portarti lo champagne poteva essere un’idea, ma… no, niente champagne. Quello l’ho portato per Léonie, la cameriera tuttofare: dice che non ha mai posseduto una bottiglia di champagne!”
Quando lei lo vide ridere, leggero come un tempo, desiderò violentemente di baciare quel sorriso.
E poi, sentendo freddo alla mano che lui le aveva appena lasciato per prendere la cassetta, disse:
“Appoggiala qui – e indicò la consolle –, vicino alla scatola” e quando lui la appoggiò, gli riprese la mano e con naturalezza intrecciò le dita alle sue:
“Aiutami ad aprirla”
Facendo scattare i fermagli, aprirono il coperchio e lei fu avvolta da un profumo conosciuto e amatissimo e vide mazzetti di erica che coprivano conchiglie intere e a pezzi, sassi grandi e piccoli, legni nodosi, stortati dal vento e levigati dal mare.
“Mi hai portato la Normandia, André…” e strinse forte la mano di lui sperando che da quella stretta lui capisse quanto l’amava.
“Se vuoi possiamo mettere tutto in quella scatola vuota e buttare questa brutta cassetta di champagne”, le sorrise lui trattenendo a stento il desiderio di sollevarla tra le braccia e stringerla e baciare quelle labbra che stavano per aprirsi e dire qualcosa che non gli importava, non gli importava, non gli importava,
“Sì, è una buona idea. Ma non adesso” non le importava niente, niente, non le importava di quelle due scatole in quel momento perché una sola cosa lei non poteva più, non poteva più rimandare e…
E allora lei si accorse che piano, con trepidazione e con dolcezza, tutto il suo orizzonte era chiuso prima dal volto di lui e poi solo dalla sua bocca e subito dopo con un brivido avvertì un calore sospirato sulle sue labbra e poi… e poi una morbidezza mai sentita si posò sulla sua bocca e si mosse piano per assaggiarla e in quel momento, un’esplosione nel cuore, mentre quel bacio ancora non era umido ma era solo l’incontrarsi nuovo e inesplorato della pelle di lei e della pelle di lui, sentì in ogni sua fibra di essere amata di un amore purissimo e allora chiuse gli occhi e si lasciò invadere da quella dolcezza perché non voleva che gli occhi la distraessero. E prima che quel loro bacio diventasse vorace e impetuoso, prima che lei sentisse di desiderare con un’urgenza assoluta che la sua pancia aderisse completamente a quella di lui, e quindi prima che quell’abbraccio diventasse una stretta, prima che entrambi avvertissero come un odioso ostacolo quel sottile strato di cotone che divideva la loro pelle, e prima che le loro mani, mosse da una frenesia sconosciuta, alzassero la stoffa della camicia uno dell’altra fuori dai pantaloni e lasciassero correre le dita e i palmi delle mani sulla schiena dell’altro e prima che la mano di lei, decisa e ardita, scivolasse giù dalla schiena sotto la cintura dei pantaloni di lui e la mano di lui, impaziente e golosa, si avventurasse più in alto verso una rotondità a lungo sognata, e prima ancora che entrambi, contemporaneamente, decidessero di levare di mezzo quelle inutili camicie e prima che sentissero, con un brivido lunghissimo che cosa significava stare pelle contro pelle e quindi si guardassero per un lungo istante negli occhi, riconoscendo se stessi fino in fondo, prima che lui interpretasse quello sguardo come un invito, prima che lei sentisse che i loro corpi parlavano un linguaggio ben più esplicito di quello delle parole, prima allora, che lui si decidesse a spogliare completamente entrambi senza che lei opponesse alcuna resistenza ma piuttosto con un incitamento sospirato e ansimato al suo orecchio e con una completa collaborazione in ogni movimento, e poi, prima che scivolassero su quel letto, come? non lo sapevano nemmeno loro, e prima che scoprissero che cosa vuol dire diventare una sola, un’unica creatura nella carne e nello spirito, prima che pronunciassero parole d’amore che nessuno aveva insegnato loro, insomma prima che tutto questo accadesse, quando ancora erano in piedi e le loro labbra si erano appena conosciute, quando chiuse gli occhi, lei sentì che una mano si avvicinava alla sua guancia e poi sentì che la sua guancia aderiva a quel palmo che la conteneva come se fosse la cosa più preziosa del mondo e sentì in quel bacio e in quella carezza che lei apparteneva a quell’uomo, da sempre, e sentì che allo stesso modo lui le apparteneva, che era suo, e così sollevò anche lei la mano, e in un gesto gemello, la posò delicatamente sulla guancia di lui e la tenne lì, ferma e sicura.
 

(Nuit)

Fine

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Alla mia carissima Galla88, che è una persona speciale, dedico un particolare ringraziamento per aver esaudito il mio desiderio di chiudere questa storia con una sua opera: sono onorata!
 
Arrivata alla fine, vi confesso quanto sia stato laborioso questo capitolo. Oscar e André sono per me due passionali, ma io li ho sempre visti come due persone che comunicano, anche l’amore, più con gli sguardi e con i gesti che con le parole. Non so se sono riuscita nel mio intento, me lo direte voi. Io vi dico che l’affetto di cui mi avete sommerso è difficile da raccontare e sicuramente impossibile da dimenticare.
E quindi grazie a chi c’è sempre, grazie a chi si aggrega in corsa, grazie a chi legge e commenta, a chi legge e non commenta, a chi ha letto e vorrebbe commentare ma è timido, a chi ha letto e, pur non apprezzando, si è astenuto dalle critiche, a chi anche a distanza di tempo leggerà.
Grazie,
Settembre

 
 
   
 
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