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Autore: michaelgosling    26/02/2022    1 recensioni
Tre amiche appassionate una di Harry Potter, una di Star Trek e una della Disney in seguito ad un incidente vengono catapultate ognuna in uno di questi universi, ma non di quello di cui sono fan.
Proveranno ad usare quello che sanno della storia per renderla migliore? O le loro azioni porteranno ad un finale peggiore? La loro presenza influenzerà queste storie molto più di quanto immaginano, perché una sola persona può cambiare tutto.
[Fandom Variabile: il Fandom in cui verrà pubblicata la storia dipenderà dall'ambientazione dell'ultimo capitolo pubblicato. Sarà comunque possibile trovare la storia anche negli altri due Fandom nella categoria Crossover]
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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QUEL CASTELLO DELLA SCOZIA – CAPITOLO 1






 
 
Quando Yvonne riprese conoscenza, si sentiva come se avesse un martello pneumatico nel suo cranio, tale era il dolore che sentiva, e per aggiungere il danno alla beffa, non riusciva nemmeno a trovare i suoi occhiali: senza era più cieca di Geordi La Forge senza il suo apparecchio visivo.

Ogni mattina raggiungeva gli occhiali ancora prima di essere completamente sveglia. Li teneva sempre rigorosamente alla sua sinistra, sopra una scrivania di legno, sempre nello stesso punto. Era un’abitudinaria in quasi tutti gli aspetti della sua vita, e se una mattina avesse trovato i suoi occhiali a qualche millimetro di distanza dalla loro solita posizione, sapeva già che quella che si prospettava sarebbe stata una giornata nera.
 
Ma ora non era in camera sua.
 
Invece del comodo materasso, sotto di sé sentiva la pavimentazione irregolare tipica dei marciapiedi: in un attimo arrivò la realizzazione di trovarsi per strada, e la vergogna la assalì con la stessa velocità con cui una tigre azzanna la sua preda.
 
Sforzò la vista in un tentativo disperato che sapeva non sarebbe andato a buon fine: inutile per l’appunto, le ombre intorno a lei rimanevano ombre. Poteva trovarsi ovunque. Poi, un colpo di fortuna: le sue mani, che non avevano mai smesso di tastare il pavimento, trovarono degli occhiali con la montatura.. scura? Erano i suoi.
 
Li aprì e se li mise più velocemente di quanto avesse mai fatto in vita sua, ma la sua fortuna durò poco: una lente era talmente appannata da peggiorare la sua vista e l’altra era scheggiata. Il risultato fu che non vedeva nulla da una parte e dall’altra aveva la vista di un carcerato, che guardava il mondo da dietro le sbarre, solo che le sue sbarre invece che essere grosse e dritte, erano ondulate e sottili.
Per quanto limitata, almeno la sua vista era nitida al punto da rendersi conto di cosa stesse accadendo, ma il fatto che trovò qualcosa di insolito in sé stessa invece del mondo intorno a lei la sorprese non poco.

Abbassando lo sguardo, vide il suo petto improvvisamente minuto, più piccolo, e.. piatto? Com’era possibile?
 
Dove cazzo sono le mie tette?!? Qualcuno le ha asportate mentre dormivo?!? Ho sempre avuto un seno abbastanza abbondante, e ora niente??? Non è che al loro posto ora ho un cetriolo in mezzo alle gambe, vero? Ma che cazz—
 
I suoi pensieri si fermarono di colpo nel momento stesso in cui percepì quanto si sentisse a disagio. Non per la sua mancanza di seno. Non per il suo corpo piatto. No. Erano i suoi pensieri a renderla nervosa e.. disgustata? E sporca.
 
Non riusciva davvero a capire cosa l’avesse turbata tanto.
 
Eppure, più guardava il suo corpo, più si sentiva a suo agio, e più pensava a ciò che inspiegabilmente le mancava, più il disgusto cresceva. Non le ci volle molto per capire cosa la turbava.
 
Tette.
 
Per qualche assurdo motivo, si sentiva notevolmente di più a disagio a pensare a normali parti del corpo, che fino a poco tempo fa facevano parte di lei da anni, che alla loro mancanza improvvisa senza una spiegazione logica.
 
D’istinto, si passò le mani sul petto piatto e lì ci fu un’altra rivelazione sconcertante: anche le mani si erano fatte più piccole.

Le sue dita un tempo grosse, ora erano piccole e sottili, le unghie che mangiava sempre erano nuove come se fosse appena uscita dall’estetista e il palmo della mano più piccolo: quelle non erano mani di una giovane adulta tra i venti e i trent’anni. No. Quelle erano le mani di una bambina. Una bambina non più piccolissima, ma pur sempre una bambina.
 
Come il petto, piccolo e piatto e minuto, come quello di una bambina.
 
Come il disagio nel pensare a parti del corpo che si sviluppano con la pubertà come le tette, quello stesso disagio che un bambino proverebbe nel parlare di quelle cose.
 
Era assurdo. Troppo assurdo.
 
Deve essere un sogno, non c’è altra spiegazione. Quando mi sveglierò, andrò dritta a parlare con qualcuno perché non è normale.
 
Alla sua sinistra trovò un muro mal messo, ma alla sua destra doveva esserci la via principale, non larghissima, eppure piena di persone che girovagavano e indicavano tutto attorno a loro.
 
Piegò le esili ginocchia per alzarsi, ma ancora prima di mettersi completamente in piedi, sentì qualcosa alle gambe: erano i suoi pantaloni, troppo larghi per quella vita diventata troppo piccola per essere in grado di reggerli.
 
Il rumore fece girare qualcuno che si trovava per la via principale verso la sua direzione, che indicò e rise. Altri la guardarono imbarazzati: i pantaloni ricoprivano le scarpe, anch’esse troppo grandi, e le sue gambe nude e le sue mutande erano ben visibili a tutti. Per la prima volta da quando era precipitata in quello strano sogno, Yvonne fu grata di avere il corpo di una bambina. Sarebbe stato molto più imbarazzante se l’avessero vista in quelle condizioni quando era una donna adulta, con le sue gambe pelose e l’inguine non depilato.
 
Si vergognò profondamente, ma non quanto si sarebbe immaginata.
 
Yvonne era sempre stata un’anticonformista. Non si vergognava mai di quello che era. Di come si vestiva. Di come parlava. Di come ragionava o di come si esprimeva. Di quali erano i suoi gusti o di quanto strana potesse apparire davanti ad un estraneo. Avrebbe potuto trovarsi in un enorme salone pieno di persone attive in una discussione e se lei avesse pensato che era corretto A sarebbe continuata con A e non avrebbe avuto remore a dirlo, anche se tutti gli altri fossero stati dei sostenitori incalliti di B. Se per lei era A continuava ad essere A. La sua capacità di ragionare sempre con la sua testa e di non lasciarsi influenzare dagli altri era il tratto distintivo di cui era più orgogliosa.
 
Però era anche molto insicura, con poca autostima. Non era brava a socializzare o rapportarsi in modo normale con gli altri, per quanto si sforzasse. Quando faceva una figuraccia in pubblico, come scivolare per strada, si sentiva sprofondare e ci rimuginava su per giorni e giorni, incapace di dimenticarsene o di pensare ad altro. Era una parte del suo carattere che detestava enormemente, ma dovette abituarsi arrivando alla consapevolezza che la situazione non sarebbe cambiata.
Eppure, alla figuraccia appena fatta, ci pensò qualche secondo e poi non degnò gli altri dello sguardo, come se fosse già andata oltre.

Come una bambina. Una bambina sarebbe già andata oltre.
 
Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarla, e solo allora la vide. La borsa. C’era solo un piccolo problema.

Non era la sua borsa.
 
Su di essa, vide lo stemma delle quattro casate di Hogwarts: Grifondoro, Tassorosso, Corvonero e Serpeverde.
 
Cazzo. Ho la borsa di Nolwenn. Avrei preferito avere la mia, ma una borsa è meglio di niente.
 
E guardandola, le venne anche in mente un’idea per risolvere il problema dei pantaloni, ma non avrebbe avuto la forza necessaria per metterla in atto: le serviva un coltellino, o meglio ancora delle forbici.
 
Aprì la borsa nella speranza di trovare uno di questi oggetti: una parte di lei si sentì in colpa a frugare tra le cose di Nolwenn, ma non aveva molta scelta.
 
L’amica aveva il mondo nella sua borsa, ma dopo vari tentativi trovò un astuccio in una tasca interna, dentro il quale c’era un piccolo coltellino. Non aveva idea del perché Nolwenn ritenesse di dover avere un oggetto simile, ma era esattamente quello di cui aveva bisogno in quel momento quindi qualunque fosse la ragione, ne fu grata.
 
Fu più faticoso del previsto, soprattutto considerando la sua forza era diminuita a causa del suo cambiamento fisico, e lo sforzo le causò un rossore non poco evidente sulle mani, ma alla fine riuscì a tagliare la tracolla, che poi usò come cintura per tenere su i pantaloni, legandola con un fiocco davanti simile a come legava i lacci delle scarpe.
 
Diede una rapida occhiata alla via centrale per vedere se era ancora molto affollata prima di alzarsi di nuovo, e tutto quello che trovò fu una coppia che guardava nella direzione opposta, probabilmente nella vetrina di un negozio, e.. un asino.
 
Un asino grigio piccolo, probabilmente un cucciolo. Che la guardava. Era forse lo stesso asino che aveva visto a Notre Dame, quando era ancora “sé stessa”?
 
L’ultima volta che l’aveva visto era successo il finimondo, così voltò velocemente lo sguardo, quasi spaventata da quell’animale, ma la curiosità la tradì: con la coda dell’occhio, continuava a guardarlo, e vide che si spostava per la via principale.
 
Non riusciva a capire perché le persone intorno non facessero niente nonostante un asino girovagasse tra loro indisturbato, ma decise di non pensarci più. Era stanca di quel cunicolo e doveva muoversi, anche se non sapeva dove andare. Per saperlo doveva prima capire dove si trovava.
 
Si alzò, e i pantaloni non caddero. Sorrise. Finalmente qualcosa andava per il verso giusto, ma si accorse comunque di avere un aspetto strano. La maglietta dei Pokémon che indossava, che già le stava grande da adulta, sembrava un lungo vestito: le arrivava alle ginocchia.
 
E in un lampo, finì nella via principale.
C’erano edifici stretti e alti ammassati ai lati della via, la quale sembrava piuttosto stretta per essere così affollata. C’erano tantissime persone, ma nessuna di loro parve notare la sua presenza, tanto erano impegnate nei loro affari, indicando negozi e guardando pezzi di carta che stringevano in mano.
 
Cosa ancora più strana era il loro inusuale abbigliamento: tuniche scure lunghe simili a mantelli, vestiti particolari.. alcuni avevano addirittura il cappello a punta.
 
Yvonne trovò tutto quanto estremamente divertente. C’era forse una fiera e lei ci era capitata dentro? Qualcosa che celebrava le figure del mago e della strega?
 
Iniziò a dare una veloce occhiata ai negozi, ma ciascuno era più assurdo del precedente: alcuni vendevano dolciumi mai visti prima, altre scope particolarmente antiche. Perché uno dovrebbe comprare una scopa vecchia? Gente strana questa.
 
Yvonne era sempre più divertita, ma smise improvvisamente di ridere quando vide due bambini che avranno avuto dodici anni con l’uniforme di Harry Potter: uno era un Tassorosso, l’altro un Corvonero.
 
Pff. Figurati. E’ una fiera su Harry Potter. Giusto questa ci mancava.
 
Fece per girarsi e tornare indietro, ovunque indietro fosse, ma nel farlo sentì qualcosa nella sua tasca destra. Un biglietto forse.
 
Cercò con la mano e tirò fuori quello che appunto sembrava un biglietto. C’era scritto qualcosa sopra.
 
“Da Londra a Hogwarts. Binario 9 e ¾.”
 
Tutto questo non aveva senso. Il biglietto era chiaramente scritto in inglese. London to Hogwarts. Platform 9 ¾. Eppure lei lo lesse nella sua lingua madre, come se fosse scritto in francese. Come se fosse diventata un traduttore universale automatico. Era talmente elettrizzata da questa capacità da non rendersi conto che aveva un biglietto per andare a Hogwarts, e nemmeno si accorse dell’uomo che si era avvicinato a lei.
 
“Serve aiuto?”
 
La paura fu tale che balzò all’indietro come una lepre.
 
Alzò lo sguardo e vide un signore anziano alto e molto magro. Il viso talmente magro e scavato che riusciva a vedere le ossa, gli occhi piccoli e scuri come due puntini neri e due spessi occhiali non molto diversi dai suoi. Lo riconobbe subito, ma si rifiutò di credere che fosse chi pensava.
 
Nonno?
 
Era in tutto e per tutto uguale a suo nonno, il padre di suo padre. Anche nell’abbigliamento ci somigliava. Camicia bianca ordinata, pantaloni beige.
 
C’era soltanto un piccolo, minuscolo inconveniente: suo nonno era morto da anni.
 
Aveva l’Alzheimer. Yvonne ricordava ancora quando dopo la scuola lo andava a trovare con suo padre nella casa di cura in cui si trovava. Era diventato ancora più magro a causa della malattia, e sulla sedia a rotelle. Lei era l’unica nipote che lo era andata a trovare: gli altri non ce la facevano a vederlo in quello stato, e Yvonne non poteva biasimarli.
 
Aveva pianto al suo funerale, e riusciva ancora a ricordare sua nonna che cercava di consolarla dicendo che lui non avrebbe voluto vederla così, il tutto mentre piangeva anche lei.
 
“Sembra che qualcuno stia per andare ad Hogwarts.” Continuò il vecchio, guardando il suo biglietto “hai già preso quanto ti occorre?”.
 
Quel sogno l’aveva divertita all’inizio, ma ora la stava irritando. E il fatto che quel vecchio somigliasse a suo nonno non avrebbe cambiato le cose. Yvonne era molto razionale, lo era sempre stata, e per quanto parte di lei avrebbe voluto abbracciarlo, sapeva che niente di tutto questo era reale. Suo nonno, il suo vero nonno, era sottoterra, e lei non aveva intenzione né di fare amicizia con un suo clone né di fingere di essere contenta di frequentare una scuola di magia nemmeno per finzione, perché non lo era.
 
“Non io.” Disse seccamente, dando il biglietto al vecchio e allontanandosi, rispondendo solo alla prima domanda dell’uomo.
 
“Se non hai ancora il necessario, posso aiutarti io.” Insistette il vecchio.
 
“Questo non è il mio posto” pensò Yvonne, ignorando l’uomo, tenendo stretti i resti della borsa di Nolwenn senza tracolla.
 
“Albus Silente sarà molto deluso se uno dei suoi studenti non si presenta.”
 
Vogliamo continuare con questa assurdità del sogno eh? Con questo giochino stupido? Okay allora, giochiamo.
 
“Silente non è reale, come non lo è Hogwarts. E se anche fossero reali, io sarei sicuramente più babbana dei Dursley.”
 
“Questo biglietto che avevi tra le mani dice altrimenti.” Fece l’anziano, agitando con la mano il biglietto per farglielo vedere.
 
“Vacci tu ad Hogwarts se ci tieni tanto.”
 
Fanculo.

Sono sicura che i miliardi di fan in tutto il mondo sarebbero estasiati di andare ad Hogwarts, ma non io.

 
Lei aveva sempre odiato Harry Potter, sempre.
 
Non aveva mai capito né compreso l’hype che tutta la gente aveva per quella storia. Lei la trovava noiosa, ripetitiva e banale.
 
Nolwenn amava Harry Potter. Doveva esserci lei lì. Dov’era?

Anche Arielle sarebbe stata contenta. Non era fan tanto quanto Nolwenn, ma a modo suo amava anche lei Harry Potter.

 
Ma Yvonne? No.
 
“Sai in quanti vorrebbero essere al tuo posto?”
 
“Allora che ci vadano loro. Io non voglio.”
 
“Non loro. Tu.”
 
“Ma perché? Perché io? Io non andrò in quella scuola di merda, mi hai capito?!?”
 
“Scuola di merda? Molti direbbero che è la scuola dei sogni. Potrai imparare a fare gli incantesimi.”
 
“Tu gli incantesimi ce li hai nella testa” pensò fra sé Yvonne.
 
“Non mi interessano i trucchetti di magia. Non ho neanche una bacchetta!”
 
“Questo perché non l’hai ancora comprata! Andiamo, ti accompagno. Ollivander è qui vicino. Avrà sicuramente la bacchetta giusta per t—”
 
“No.” La voce di Yvonne era quella di una bambina, ma il tono era freddo e risoluto, lo era al punto che l’uomo parve sinceramente sorpreso.
 
“Voglio solo aiutarti.”
 
“Sto bene.”
 
“Davvero?”
 
“Sto alla grande.”
 
“Capisco. E quali sono i tuoi piani esattamente, se posso chiedere?”
 
Piani? Ma di che diavolo sta parlando?
 
L’uomo parve leggerle nella mente.
 
“Mettiamo che io me ne vado e che tu non prendi niente e non vai ad Hogwarts. Cosa farai? Intendi passare la tua vita in quel cunicolo in cui ti sei svegliata o intendi recarti ad un orfanotrofio in cui avrai un tetto sulla testa e un letto ma al contempo sarai costretta a frequentare una scuola babbana? Ora dimmi, preferisci frequentare una scuola babbana o la scuola di magia e di stregoneria più famosa al mondo?”
 
Yvonne fu in silenzio, come se stesse valutando le sue opzioni.
 
“Ci stai seriamente pensando su?” ribatté il vecchio.
 
“Sto valutando i pro e i contro.” Sbottò Yvonne, come se stesse dicendo una cosa ovvia.
 
“In quale universo una scuola babbana sarebbe migliore di una scuola di magia?”
 
“In quello in cui voglio vivere.”
 
Probabilmente tutti quei ragazzini che vorrebbero essere al mio posto e frequentare Hogwarts sono stati così inebriati da tutti quegli incantesimi del cazzo da aver completamente rimosso tutti i pericoli che si corrono.
 
La Umbridge che abusa dei minorenni? Il Torneo Tremaghi in cui un ragazzino di quattordici anni viene costretto suo malgrado a partecipare ad una specie di Hunger Games? Il cazzo di cane a Tre Teste nascosto nella fottuta scuola? Il ragno gigante nella foresta proibita? Il basilisco nella camera dei segreti? Per non parlare di Voldemort e di una fottuta guerra che si svolge nella fottuta scuola.
 
Hogwarts non è una scuola. E’ una zona di guerra. Un invito alla morte. E io non intendo farne parte solo per imparare un paio di incantesimi inutili.
 
“E quanto conti di vivere da sola, in un mondo estraneo e senza niente?” poi l’uomo le si avvicinò “la verità è che c’è un mondo pericoloso là fuori, ovunque tu sia. La differenza è che ad Hogwarts, non saresti sola.”
 
Yvonne rimase in silenzio per una manciata di minuti, e sentì per la prima volta la paura.
 
L’uomo sorrise.
 
“Andiamo. C’è una bacchetta che sta aspettando di essere impugnata dalla sua padrona.”

 







 
  
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