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Autore: Yellow Canadair    09/06/2022    3 recensioni
Lucci, Kaku e Jabura si svegliano nudi in un laboratorio sconosciuto. Dove sono? che è successo al resto del gruppo? perché non riescono più a trasformarsi? Tutte domande a cui risolvere dopo essere scappati, visto che sono giustamente accusati di omicidio plurimo.
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Nefertari Bibi è sparita da Alabasta: Shanks il Rosso l'ha portata via per salvarla da morte certa, perché qualcuno vuole il suo sangue per attivare un'Arma Ancestrale leggendaria. Ma i lunghi mesi sulla Red Force suggeriscono a Bibi che forse chiamare i Rivoluzionari potrebbe accelerare i tempi...
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Intanto Caro Vegapunk ha una missione per gli agenti: recuperare suo padre, prigioniero nella Sacra Terra di Marijoa. Ma ormai Marijoa è inaccessibile, le bondole sono ferme, e solo un aereo potrebbe arrivare fin lassù...
I Demoni di Catarina, una long di avventura, suspance e assurde alleanze in 26 capitoli!
Genere: Angst, Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cipher Pool 9, Jabura, Nefertari Bibi, Rob Lucci, Shanks il rosso
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Capitolo 10
Ritorno a Catarina

 

 

Kaku, Lucci e Califa arrivarono sulla spiaggia dov’erano rimasti Jabura, la pilota e l’aereo quella mattina presto, giusto in tempo per fare colazione tutti insieme con il caffè preparato dal Lupo e con uova e pancetta portate da Victorian Hall, cucinate sul piccolo falò tra i sassi sulla spiaggia.

«Com'è andata qui, per dieci giorni?» chiese Kaku guardandosi attorno. Dentro il Canadair si intravedevano coperte, materassi e cuscini, e un grande lenzuolo era stato attaccato con delle corde a un'ala e a un albero vicino, perché facesse ombra come un gazebo.

Jabura si strinse nelle spalle. «Non male, ci siamo adattati. Ma personalmente non vedo l'ora di andare in una trattoria!» rise.

«Tu come stai col piede?» si rivolse il giovane agente alla pilota.

Lili mosse la caviglia e il piede nudo che sporgeva dal lungo pantalone di tuta. «Meglio, grazie. Un punto adesivo è anche caduto da solo.» 

«Una doccia calda farà il resto.» promise Jabura.

«Quanto tempo ci vorrà per montare il motore?» chiese Lucci, appena finito di mangiare.

«Non lo so, non l’ho mai fatto da sola.» rispose la pilota, mangiucchiando delle fette di bacon sul pane tostato. «Forse mezza mattina. Forse di più.»

Rob Lucci sospirò contrariato: odiava quelle stime approssimative, ma poteva andargli peggio.

«Va anche testato: non possiamo metterci in viaggio senza aver fatto un volo di prova.» gli fece notare Lilian.

Jabura la osservava di sottecchi: era abbastanza brava a indossare la maschera della solita segretaria, tuttofare e pilota, ma adesso che conosceva la verità sui suoi ultimi due anni notava che c’era qualcosa di più tenue nella voce, di meno spavaldo. Sperò che non cedesse all’improvviso. Aveva vomitato troppo spesso in quei giorni… le aveva proposto di andare dal dottore, una volta a Catarina, ma lei aveva scosso la testa, perentoria. Invece gli aveva chiesto di tagliarle i capelli, aggiustarle quelle ciocche sparute e strappate da due anni allo stato brado, e ora sembrava quasi un ragazzino, con i capelli mori più corti di quelli di Kaku, con uno stranissimo sbaffo quasi rasato sulla nuca perché lui, Jabura, non era mai stato bravo come barbiere.

Lucci aveva detto di indagare sul conto di Lili, però lei gli aveva chiesto di non dire niente a nessuno… ma era meglio informarlo: se qualcuno l’avesse riconosciuta come schiava, poteva diventare un problema, Lucci ne doveva assolutamente essere messo al corrente.

Gli uomini scaricarono con grandissima precauzione il motore dalla Catarina; Califa aveva fatto sbarcare il suo agile bagaglio e si era sistemata al tavolino pieghevole, sotto l’ala dell’aereo che faceva ombra: il suo smalto si era scheggiato, bisognava correre ai ripari.

«Performer di burlesque! Che bello!» sospirò la pilota, con la testa sul tavolo, assonnata.

«Era un locale elegante.» specificò Califa, passando con attenzione il pennellino sulle lunghe unghie, vestendole di un brillante bordeaux. «Per clientela selezionata.»

In punta di dita, stando ben attenta a non sbeccare lo smalto ancora fresco, ripescò dal suo beauty case alcune cose, e cominciò a mostrare alla ragazza delle piccole cartoline che la ritraevano coperta solo da ventagli, vestita da ballerina spagnola ma senza corpetto, seduta su un trapezio con un cortissimo gonnellino di foglie… il tutto circondato da bolle dai riflessi arcobaleno, che erano state fatte diventare parte del fondale grazie a un lavoro fantasioso degli scenografi dell’Hot Swanna.

«Tu… tu finora hai fatto la spogliarellista?» balbettò Jabura, ancora sporco del grasso del motore, cercando di gettare un occhio su quelle fotografie.

«Si chiama “burlesque”, ed è una cosa completamente diversa.» lo stilettò Califa con aria di superiorità, soffiando sulle proprie unghie.

«Sì ma… eri nuda!» protestò rubando l’ultimo goccio di caffè dal bricco sul tavolo.

Vedere arrossire quel bastardo di Jabura era strano, ma quando Lili alzò nella sua direzione una fotografia molto piccante di Califa, per poi eclissarla dopo mezzo secondo, le guance dell’uomo si tinsero effettivamente di rosso.

«Sei uno zotico, il burlesque non prevede nudità… ero in tanga e copri-capezzoli.» spiegò con dignità la donna, facendo andare il caffè di traverso a Jabura.

Il Lupo si voltò verso Lucci e Kaku. «Voi l’avete vista!» li accusò, come se poi fosse una colpa.

«Vuoi darti una calmata?» cercò di rabbonirlo Kaku. «Che ti prende?»

«Sì, l’abbiamo vista.» rispose Lucci con noncuranza. «Abbiamo visto tutto il suo numero. Molto interessante. Sono sorpreso, Califa ha un talento naturale per togliersi i vestiti.» 

Stavolta fu Califa ad arrossire: «Siete una banda di molesti!!» gridò.

 

~

 

Nella tarda mattinata la prua dell’aereo era rivolta verso il mare.

La pilota appese la propria giacca al gancio dietro al suo sedile, fece un bel respiro, e accese i quadri elettrici sopra la sua testa. Le luci del quadro si accesero. Le luci all’estremità delle ali, anche. Le eliche cominciarono a girare, Kaku e Lucci tolsero i cunei che tenevano ferme le grandi ruote, e il test finale ebbe inizio.

Il rombo del motore riempì l’aria del mezzogiorno, le eliche persero la loro forma e divennero un turbinio grigio, si alzarono grandi folate che sollevarono la sabbia. Gli agenti fecero istintivamente un passo indietro, Califa calzò dei grandi occhiali da sole.

«Dici che funzionerà?» domandò Kaku. «Forse era meglio dargli fuoco e andare con la barca.»

«Ci ho investito tempo che potevo dedicare a uccidere qualcuno, farà meglio a funzionare.» ruggì Lucci. 

«C’è sempre la possibilità che qualcosa si inceppi e si schianti.» ricordò positiva Califa.

Hattori sarebbe stato l'unico ad avere voce in capitolo in materia di decolli, ma purtroppo chissà dov'era, cosa stava facendo. Si ricordava ancora dei suoi amici, nel suo morbido cuore colombo? 

L’aereo cominciò a muoversi in avanti, prese velocità. La sabbia terminò e le grosse ruote andarono in mare, il velivolo sembrò arrestarsi, ma i motori ruggirono più forte e prese di nuovo potenza, come se si fosse dovuto abituare al nuovo elemento, per poi ricominciare a correre sulle acque calme lasciando dietro di sé una scia di spuma bianca.

«Per lo meno galleggia.» osservò Kaku dalla spiaggia.

«Bene, così abbiamo due barche.» rispose Lucci ironicamente.

Poi finalmente, in lontananza, la carlinga si sollevò a fatica dal mare e l’aereo decollò, la prua puntò decisa il cielo azzurro e un grande rombo riempì finalmente l’aria, là dove una tempesta aveva spezzato il volo del Canadair.

L’aereo compì un largo giro sul mare, inclinandosi lievemente a destra e dando sfoggio della carlinga ripulita che ora riluceva al sole. Quel maledetto relitto, l’ultimo degli aerei di Caro Vegapunk, era ritornato a volare.

 

~

 

Appuntamento a Bitter Gold O’Mine: prima di tornare a Catarina, bisognava vendere la barca, e quella era la città più vicina. Se ne incaricarono Lucci e Califa, e fu la donna a contrattare per la vendita della grande Catarina, con Lucci minaccioso alle sue spalle che alzava il prezzo e sottolineava tutte le eccellenti caratteristiche tecniche.

Jabura li avrebbe preceduti in aereo, e aspettati al porto. Venduta la barca, sarebbero decollati insieme alla volta dell’Arcipelago di Catarina.

Kaku intanto, sbarcato per l’ultima volta dallo sloop, preferì fare un giro per la città, nonostante la cappa di smog che la avvolgeva; era in parte arrabbiato con sé stesso: anni prima aveva fatto la morale a quel ragazzo della ciurma di Cappello di Paglia perché non voleva saperne di arrendersi all’idea che la sua amata nave fosse arrivata alla fine delle sue onde, e adesso invece eccolo a fare i capricci lui stesso davanti al veliero che aveva costruito e che adesso doveva vendere.

“Che idiozia. La Catarina è una nave incompleta, costruita in fretta, arronzata” si diceva per convincersi. Però com’era bello il colore che aveva scelto Lucci, lo scafo blu lucido… 

Venne venduta a un carpentiere per quattro milioni di Berry.

«Quattro milioni?» fece Kaku, sorpreso, quando incontrò di nuovo Lucci e Califa fuori dalla bottega del carpentiere, in un vicolo del porto. Lì arrivava l’aria salmastra del mare, e si respirava molto meglio.

«All’inizio non riuscivamo ad andare oltre i due milioni.» spiegò Califa aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Ma poi ho notato che, in fondo al negozio, c’era un vecchio poster dei cantieri di Water Seven.»

Kaku sgranò gli occhi. «Davvero?» chiese, fermandosi per la sorpresa al centro della stradetta. Ma nessuno se ne lamentò: attorno a loro c’era poca gente, a quell’ora tutti erano in miniera a lavorare e anche al porto c’era poco traffico.

Califa si concesse una breve risata. «Abbiamo avuto una bella fetta di notorietà, a quei tempi. Mi ricordo ancora quando venne scattata la foto: era il nostro terzo anno, Iceburg aveva dimenticato che…»

«…che quel giorno sarebbe venuto un reporter, quindi non aveva una camicia stirata in cantiere. Ma tu l’hai tirata fuori all’ultimo secondo.» completò Kaku, incrociando le braccia.

Califa sospirò. «Era sempre distratto. Ma il mio lavoro era quello di anticiparlo.»

«Il tuo lavoro era quello di pedinarlo e scoprire dove tenesse i progetti del Pluton.» le ricordò Lucci, lugubre. Non gli era mai piaciuto il periodo a Water Seven.

«Oh, andiamo, non essere così serio.» lo rimproverò Califa. Poi si rivolse a Kaku: «Il carpentiere si è scusato mille volte per non aver riconosciuto subito il grande carpentiere Rob Lucci, e così ha alzato il prezzo. Era così emozionato all’idea di comprare una nave fatta da lui!»

«Io non ero d’accordo.» precisò l’uomo, ombroso. 

«Una recita a fin di bene.» gli ricordò Califa, riprendendo a camminare. «Ci servono soldi.»

Il gruppo voltò una curva e vide il porto in lontananza, con il Canadair giallo che li stava aspettando, ancorato a fatica a un piccolo molo che sembrava sparire sotto le sue immense ali.

Kaku sospirò. Era impossibile negare l’evidenza: muoversi in aereo sarebbe stato molto più rapido. «Sono contento che almeno la nave sia andata a un carpentiere.»

«A un pessimo carpentiere.» precisò Lucci. 

«È nervoso perché ha dovuto firmare un autografo sul poster e sul petto del compratore.» spiegò Califa.

 

~

 

Rob Lucci varcò con eleganza il portello del Canadair e andò verso il sedile del co-pilota, avanti a tutti. Quello era il suo posto, con il pieno controllo sulla rotta e sull’ago della bussola che portava a Catarina.

E c’era seduto Jabura.

«Cedi il posto. La giostra è finita.» sibilò Lucci. 

«Ti cagavi sotto al pensiero di cadere, ecco la verità.» ringhiò il rivale. Lui era stato a bordo durante il volo di prova, ma Lucci non gli avrebbe permesso di usurpare oltre il suo trono.

Il Lupo andò nel cargo, dove viaggiavano anche Kaku e Califa. Era decisamente più sgombro visto che, per qual viaggio, erano solo in cinque, e senza nemmeno la compagnia del piccolo Hattori.

Califa si sedette composta dietro Rob Lucci, tirò fuori da un beauty-case un cuscino a forma di ferro di cavallo e una mascherina in seta; si coprì gli occhi, sistemò il cuscino dietro la nuca e, immobile, sembrava che dormisse.

Jabura si sedette per terra, con la testa poggiata su una delle panche, e poco dopo il decollo nessuno si sorprese nel sentirlo russare. Kaku si sedette dalla parte opposta, vicino a uno degli oblò, e guardava in basso, verso lo sfavillante mare blu che stavano sorvolando. Ogni tanto compariva un’isola in lontananza, e lui si chiedeva quanto fossero cambiate le cose in quei due anni anche laggiù. 

«Quando saremo in vista dell’Arcipelago di Catarina.» disse Lucci alla pilota. «Non ti avvicinare. Ammara a dieci chilometri dalla costa e getta le ancore.»

Otto chilometri era il massimo che l’occhio umano poteva vedere all’orizzonte: evidentemente il leader non voleva che l’aereo fosse visto dalla terraferma.

Continuò: «Scenderemo da soli e controlleremo se è sicuro attraccare al porto militare. Rimani in attesa di ordini.»

Intendeva usare il Geppo per avvicinarsi alle isole.

«Quanto tempo contiamo di stare a Catarina?» chiese Kaku.

«Lo stretto necessario. Dormiremo alla Torre e poi intendo andare a comprare degli abiti decenti. Sono stanco di vestirmi come un profugo.» disse altero.

La traversata continuò con le tappe strettamente necessarie per riposarsi e per rimettere carburante nel serbatoio; l’aereo filava veloce e tranquillo nel cielo azzurro, scintillante sotto il sole.

 

~

 

Un lumacofono a Sweet Gold O’Mine squillava con ilarità in un grande ufficio nel palazzo più importante della cittadella. Nessuno però entrava nella stanza a interrompere il trillo: tutto era quiete, rotta a sprazzi dal verso dell’animale. Durante le pause, c’era così tanto silenzio che si poteva sentire persino il rumore della macchia di caffè che si seccava sul tappeto verde.

«Arrivo! Arrivo!» imprecò la voce di Spandam dal bagno.

Uscì dall’elegante toilette con i capelli lilla gocciolanti, annodandosi alla bell’e meglio un asciugamano in vita, mentre con un altro cercava di tamponarsi l’acqua che grondava dai capelli.

Ma mentre marciava a grandi passi verso la scrivania dove squillava il lumacofono, mise un piede in fallo in una piega del tappeto, schiantandosi sulla tazzina di caffè rovesciata dieci minuti prima.

«AAHHH!!!» gridò. Maledizione, dov’era quella stordita della donna delle pulizie?? Perché non aveva rimediato a quel disastro?? Nah, sicuramente avrebbe tirato fuori scuse assurde, come che lui si fosse dimenticato di chiamarla! Screanzata scansafatiche!

«Pronto!» ringhiò alla cornetta.

«Pronto, signor Spandam! Sono Big Squat! Di Bitter Gold! Si ricorda di me??»

«Chi saresti? E perché hai questo numero??»

«Sono il carpentiere! Chiamo da Bitter Gold O’Mine! Due mesi fa è venuto qui cercando una barca nuova per i suoi viaggi, si ricorda?»

Ahhh, quel Big Squat! Lo zotico che aveva l’unica bottega di carpenteria decente nei dintorni… nonché l’unica bottega decente tra Bitter Gold e Sweet Gold O’Mine. Mesi prima gli era venuta la fissa di comprare una nave personale per brevi viaggi sulla Red Line, sempre scortato da agenti s’intende! Così gli aveva chiesto di costruirgli una nave, ma cosa si era sentito rispondere? Che era oberato di lavoro, che aveva già i cantieri occupati, e che c’era una lista d’attesa lunga sei mesi o più! Villano! Screanzato! Con chi credeva di parlare?! 

Spandam aveva strepitato talmente tanto che l’uomo, pur di levarselo di torno, gli aveva promesso di cercare in giro, da amici carpentieri in giro per il mondo, una nave già pronta che potesse soddisfarlo in tempi più brevi.

«Ho trovato la barca che mi avevate chiesto, signore! Ha solo bisogno delle finiture, ma è una barca esattamente come la cercavate! Dodici metri, tre cabine, bagno con doccia e cucina! Bisogna solo aggiungere la mobilia e potete già navigarci!»

Spandam aveva altro per la testa che la barca da crociera che aveva richiesto mesi prima, ma era comunque una buona notizia, e quindi domandò: «Bene, bene… quanti anni ha? quanti proprietari ha avuto?»

«Nuova, senza un graffio! Letteralmente appena costruita!»

Spandam si compiacque: aveva fatto proprio bene a mettersi nelle mani di quel tipo, aveva ottimi agganci; già sognava placide crociere, servito e riverito dai camerieri nella sua nuova barca a vela. «E per quanto riguarda i precedenti proprietari?»

«Un colpo di fortuna, signore! Due celebrità! due ex carpentieri di Water Seven! Rob Lucci e Kaku, i capomastri di Iceburg, il presidente della Galley-Là Company!! Signore…? signore…

Spandam era crollato per terra. Il fiato corto, i brividi sul corpo pallido e bagnato.

«Sono… sono qui.» mormorò al lumacofono.

«E pensi che con loro c’era anche la segretaria del presidente!! La donna bionda! Mi hanno fatto l’autografo!»

«DOVE ERANO DIRETTI??» ruggì Spandam con la voce resa stridente dal terrore.

«C-che ne so…?» rispose il carpentiere, colto alla sprovvista. 

«IDIOTA, FATTELO VENIRE IN MENTE O COL CAZZO CHE COMPRO LA TUA STUPIDA NAVE!!»

Il carpentiere, all’altro capo del filo, ingoiò il rospo: non poteva mancare l’affare.

«Non so dove siano andati, ma si sono imbarcati su una grande nave gialla, che da sola ha occupato tutto il porto. Pensi, alcuni paesani dicono che si sia alzata in volo! Assurde panzane, non trova?»

Spandam ridacchiò, isterico e in preda al panico. «Assurde panzane, sì…»

«Senta, per la barca, ha bisogno di qualche lavoretto ma vorrei venirle incontro con il prezzo… pronto? Pronto…? Signor Spandam, mi sente ancora? oh accidenti, è caduta la linea!»

 

~

 

Alzò la testa all’improvviso, come colto da uno strano presentimento. 

Si guardò attorno: non c’era nulla di diverso, in quel pomeriggio nell’Arcipelago di Catarina. La torre dell’Isola Centrale era la stessa, una montagna di ruderi sui quali si era arrampicata l’edera, che diventava sempre più verde e sempre più fitta dopo ogni acquazzone.

Gli ultimi tre piani erano crollati del tutto, le macerie erano sparse nel prato, e ogni tanto arrivava qualcuno, di notte, a portare via qualche tegola per aggiustare il proprio tetto, qualche lastra di marmo per completare la mensola di un camino, qualche pezzo di legno per rinforzare un carretto.

Quello che una volta era stato il terzo piano, con la casa di Blueno e di Kumadori, ora era la vetta della torre, una vetta spaccata e invasa dalla vegetazione, in cui sventolava, di tanto in tanto, come un vecchio sipario rosso cupo, un copriletto, rimasto impigliato tra le pietre sgretolate.

Nelle mura superstiti erano ancora visibili, come ferite di guerra, i crateri lasciati dalle palle di cannone e dalle bordate di artiglieria che avevano distrutto la torre.

Tutt’attorno, il parco che una volta dava frescura e riposo a tutti gli abitanti dell’arcipelago, non era nient’altro che una selva dimenticata, con le piante cresciute a dismisura e tagliate quel tanto che bastava per tenere libere le strade che collegavano le varie isole, ancora battute da qualche carro sparuto e da qualche viandante che doveva andare da un’isola all’altra.

Era marzo, faceva freddo, arrivava un vento gelido dall’Isola dell’Inverno, e Hattori se ne stava acciambellato proprio nel suo vecchio nido, nel cestino che ormai tre anni prima Lucci aveva preparato apposta per lui, accanto alla scrivania nel suo ufficio al primo piano, perché potesse riposare anche quando gli teneva compagnia mentre compilava rapporti e studiava isole lontane per le future missioni mai avvenute.

Era tutto quello che gli rimaneva di Rob Lucci: un cestino di vimini con un maglione ripiegato come cuscino, e un ufficio deserto e vuoto, in una torre diroccata. E l’odore del dopobarba che diventava sempre più fioco…

Doveva aspettare lì. Era stato l’ultimo ordine di Kumadori durante quel maledetto combattimento: attendi fedele alla Torre. Ognuno di noi farà ritorno, non dubitar di questa promessa.

E Hattori stava aspettando da ormai due anni e mezzo.

Finché, nell’aria di marzo, non gli parve di sentire qualcosa di nuovo, nell’aria. Qualcosa di nuovo ma anche di incredibilmente familiare.

Spalancò gli occhi nel buio: non c’era molta luce nel vecchio ufficio, perché i paesani per evitare che nella torre si annidassero bestie troppo grandi e pericolose avevano chiuso con delle assi di legno tutte le finestre e il grande portone di ferro e di legno all’entrata.

Hattori non voleva illudersi, troppo spesso si era svegliato nella notte credendo di sentire voci; era volato in tutto l’edificio vuoto, aveva controllato ogni stanza deserta, e poi si era rimesso a dormire sul vecchio maglione di Rob Lucci, con le minuscole lacrime che bagnavano le piume bianche sotto l’ala.

 

~

 

Lucci, Kaku, Jabura e Califa si fermarono attoniti davanti a quella che era stata la loro casa.

Contarono le finestre dal pianterreno all’ultimo piano, il terzo, e comunque avevano difficoltà ad elaborare la cosa. Certo, non si aspettavano che qualcuno durante gli anni di assenza gli avesse innaffiato i fiori e ritirato la posta, ma nemmeno si sarebbero mai immaginati un simile sfacelo.

«L’hanno bombardata.» affermò Kaku con le braccia incrociate, osservando lo scenario che aveva davanti.

Il suo appartamento all’ultimo piano non esisteva più. Anzi, non esisteva più nemmeno l’ultimo piano, con il terrazzo da cui si vedeva l’intero arcipelago e la grande bandiera del Governo Mondiale.

«Ma che cazzo è successo?» si chiese Jabura. «Come gli è venuto in mente di bombardare una torre? Non era una sede importante, non c’era nulla di valore dentro. Non è stato nemmeno un Buster Call.» osservò, notando che, a parte qualche cambiamento, le isole tutt’attorno sembravano vitali come al solito, e da lontano era palese che non fossero state attaccate.

Non esisteva più neanche casa sua: il quarto piano era completamente distrutto, il suo bel prato zen, con il ruscello, e gli alberi, e il pollaio con le galline, erano solo ricordi.

Rob Lucci fissava il portone sigillato dalle assi di legno e non diceva nulla. Abitava di fianco a Kaku, all’ultimo piano, e il suo grande letto era esattamente al di sotto della grande bandiera del Governo.

“Dormiremo alla Torre” si era dissolto come fumo nel vento.

Tuonò: «Andiamocene. Non abbiamo più niente da fare qui.»

 

~

 

Hattori spalancò gli occhietti e schizzò fuori dal cestino di vimini, si infilò nella crepa vicino alla finestra che portava all’esterno e volò disperato, contro il vento e contro le prime gocce di pioggia.

«Torniamo all’aereo?» fece Jabura.

«No.» rispose Lucci. «Andiamo su una delle isole: qualcuno saprà cos’è successo qui due anni f-»

Califa urlò: «ATTENTO!»

Rob Lucci si spostò, fluido, con il Kami-e, evitando il minuscolo proiettile bianco, che sfrecciò oltre, prese una curva larghissima e poi tornò a volare verso di lui.

«È Hattori!» lo riconobbe l’agente più giovane.

Hattori, piangendo di felicità, provò nuovamente ad atterrare sul petto di Rob Lucci, e stavolta lui non si spostò, e finalmente il minuscolo piccione bianco fermò il suo volo fra le braccia dell’amico, piangendo al più non posso, agitando le ali, finalmente a casa dopo tanto tempo.

Rob Lucci diede le spalle ai colleghi, e si spostò di qualche passo. Accolse il piccolo piccione fra le lunghe dita, senza una parola, avvicinando al volto la candida creatura e accarezzando le piume arruffate.

I tre agenti non lo seguirono, si limitarono a guardarli mentre si allontanavano di pochi metri nel parco selvaggio.

Kaku guardò verso la torre. «Forse dentro c’è ancora qualcuno dei nostri.» ipotizzò.

«Difficile, gli ingressi sono tutti sbarrati.» osservò Jabura. «Ha aspettato qui per due anni e mezzo?» disse, riferendosi ad Hattori.

Kaku si strinse nelle spalle. «Sembra di sì.»

Il vento soffiava tenue e freddo dalle isole con i climi più rigidi, agitando le fronde degli alberi e degli altissimi arbusti. I due uomini guardavano in silenzio ciò che rimaneva della torre, le crepe nei muri sgretolati, i calcinacci e le pietre che affioravano nel prato. Califa rimase più indietro, con le braccia incrociate sotto il seno, sospirando. Il suo appartamento c’era ancora, al terzo piano, ma lei si era trasferita prima di quella distruzione: adesso doveva essere vuoto, spoglio. Chissà se c’era ancora quella parete che aveva fatto dipingere di rosa tenue nell’ingresso…

Le prime gocce di pioggia bagnarono le pietre bianche della torre spaccata, scivolando giù per i muri e disegnando lucide scie.

Lucci ritornò, con Hattori sulla spalla destra tutto contento, con le zampine strette sulla camicia dell’uomo e il capino che si strofinava sul collo, sotto l’orecchio. Si rivolse a Kaku: «La situazione qui è sotto controllo, chiama la pilota e dà l’ordine di portare l’aereo in rada. Noi andiamo sull’Isola del Sud.» ordinò, camminando spedito e superando gli altri due agenti.

 

~

 

Percorsero il lungo ponte che collegava l’isola centrale con l’Isola del Sud, quella con il clima primaverile. Era un ponte lunghissimo, bordato con eleganti ed articolate ringhiere in ferro battuto e legno. Una volta tutto il ponte era un fiorire di bancarelle dove si potevano mangiare le specialità dell’Isola ancor prima di averci messo piede, ed era facile arrivare alla fine del ponte già ubriachi e pronti per andare a ballare in uno dei tanti locali della città. Adesso, invece, i baracchini erano quasi completamente spariti, e quei pochi rimasti si concentravano alla fine del ponte, a ridosso dell’Isola, segno che ormai ben poche persone passavano di lì.

Il quintetto si fermò davanti a un edificio ben noto, e a Jabura quasi scese una lacrima. «Tutto ma non questo…»

«Doveva chiudere da anni, era un attentato alla salute pubblica.» disse Rob Lucci.

La gloriosa osteria di Gigi L’Unto aveva chiuso i battenti.

L’Ufficio Igiene aveva vinto la sua lunga guerra.

Rassicuriamo i lettori: Gigi L’unto e sua figlia, la formosa Souzette, avevano riaperto in un’isola ad alcune miglia nautiche più a nord.

Ma avevano lasciato orfano l’Arcipelago di Catarina, privo dell’osteria che tante nuove malattie infettive aveva portato su quelle bianche spiagge.

Tuttavia, due mesi prima le porte dell’osteria avevano riaperto: nuova gestione!

Kaku affossò il volto nel bavero della felpa e affermò: «Non sono sorpreso. Non gli era mai dispiaciuto completamente, a Water Seven.»

«Quella missione vi ha rimbecilliti tutti.» scosse la testa Lucci.

Erano davanti all’ex osteria di Gigi L’Unto, che ora vantava un’insegna nuova, in legno chiaro dipinto di blu, che recitava: “Blueno’s Bar 2”

Rob Lucci ruppe ogni indugio e spalancò l’uscio, seguito dal fido Kaku e da Jabura.

Trillò argentina la campanella al di sopra della porta.

«Buonasera.» disse una voce profonda che proveniva dal fondo del locale: Blueno era al bancone, e stava di spalle ad asciugare dei bicchieri con uno strofinaccio. Si voltò e guardò verso i nuovi arrivati.

Le loro figure alte e inconfondibili si stagliavano contro la luce arancione del tramonto che avevano alle spalle, e il contrasto era così forte che era impossibile guardarli bene in volto.

Blueno posò il bicchiere. «Vi aspettavo.»

 

~

 

«Sei irriconoscibile.» gli disse Jabura senza mezzi termini. «Sei magro!»

«Ho perso massa.» lo corresse seccato Blueno. «Ho ripreso ad allenarmi e mangiare regolarmente solo da tre mesi.»

I tre agenti raccontarono a Blueno del loro risveglio ad Under City, degli Alberi del Diavolo e del racconto della pilota sui suoi ultimi giorni a Catarina. Blueno ascoltò tutto con calma, senza scomporsi, incassando i dettagli che gli venivano riportati e rimuginando sui Frutti, su Gea e Uranos, su Vegapunk, sulla promessa fatta a Caro di andare a liberare suo padre dal misterioso Im. Poi fu il suo turno delle spiegazioni.

«Cosa volete che vi dica?» disse serissimo il barista dell’Isola del Sud dell’Arcipelago di Catarina. «È successo all’improvviso, due anni e mezzo fa. Ero alla torre, nel corridoio del terzo piano, e davanti a me si è aperta una delle mie porte; non l’avevo creata io, però l’ho attraversata per capire dove portasse. Ci sono entrato e… ho viaggiato nella dimensione tra le porte per due anni, senza mai riuscire a fermarmi. Era difficile persino mangiare, per questo ho perso metà del mio peso.»

Blueno aveva chiesto il cambio al bancone al secondo cameriere, un tipetto con gli occhi sbarrati e due ruote al posto delle gambe di nome Zanni. Lui si era seduto al grande tavolo d’angolo della sala, aveva fatto portare del whiskey per Lucci, una cola zero a Kaku, un tè freddo verde a Califa, e a Jabura il Sazerak, il fortissimo e tipico cocktail dell’Isola del Sud.

Al centro aveva fatto portare immediatamente del Gumbo con gamberi e pollo, visto che ormai l’ultimo pranzo dei tre uomini era risalente a parecchi chilometri prima.

«In che senso “non riuscivi a fermarti”?» domandò Kaku.

«Non controllavo le porte.» si spiegò meglio Blueno. «Si aprivano in continuazione davanti a me, nella dimensione intermedia, e ovviamente dovevo aprirle, sperando di trovarmi in qualche luogo con del cibo, dell’acqua, o almeno un lumacofono per chiamare qualcuno. Avevo solo pochi minuti prima di ritrovarmi di nuovo nella dimensione intermedia, e spesso le porte si aprivano anche sotto i miei piedi, non potevo farci nulla… entravo e basta. E quando sono riuscito a trovare un lumacofono e ho provato a chiamare qui, il numero risultava inesistente.»

Perché la Torre era crollata, ovvio.

«E quando tutto è finito, sei ritornato qui?» domandò Lucci.

Blueno bevve un bicchiere di latte freddo che si era fatto servire da Zanni. «Le porte si aprono e si chiudono; è la loro natura. Quando si è aperta la prima porta, quel giorno di due anni fa, è come se si fosse aperto un ciclo di porte: terminato quel ciclo, sono uscito dalla stessa porta dalla quale sono entrato.» spiegò disegnando un cerchio a mezz’aria con un dito. «Ecco perché mi sono ritrovato direttamente a Catarina, ma erano passati due anni, non vi ho trovati, e la torre era distrutta. E c’era lui» disse indicando Hattori «che vagava spaventato e affamato. Gli lascio sempre una finestra aperta per entrare qui, in casa, ma alla fine ritorna sempre alla Torre.»

«Cos’è successo a Kumadori e Fukuro?» chiese Califa.

«Non lo so.» abbassò lo sguardo Blueno. «Ho chiesto in giro, sono spariti all’improvviso dopo l’arrivo di tre navi del Governo Mondiale. Si dice che ci sia stata una battaglia proprio qui, all’Isola del Sud, nella zona delle paludi, e da quel giorno nessuno li ha più visti.»

«E chi ha bombardato la torre?» fece Kaku.

«Le navi del Governo.» accusò Blueno. «Mi hanno raccontato che dopo la battaglia alle paludi due incrociatori hanno fatto fuoco sull’Isola Centrale. Sono morti anche sette civili che si trovavano nel parco in quel momento.»

Non c’era da stupirsi quindi che nessuno osasse più attraversare i ponti, e il parco fosse stato abbandonato. Sette cadaveri per loro erano un’inezia, ma sapevano che per la popolazione civile ogni morte aveva un impatto molto serio.

Le due donne e i quattro uomini rimasero in silenzio, e l’unico rumore che si sentiva era Hattori che becchettava il Gumbo e beveva il whiskey dal suo bicchiere.

«Però una cosa l’ho scoperta, andando di porta in porta.» sovvenne a Blueno. «Aspettate.» si alzò da tavola e tornò poco dopo con il Quotidiano dell’Economia del giorno.

«Questi non muoiono proprio mai…» commentò Jabura prendendo il giornale e scorrendo le varie notizie. C’erano volti che conosceva già, pirati importanti che erano già pluriricercati due anni prima… comprese delle vecchie conoscenze che loro, quando erano nel Cipher Pol n.9, avevano fatto carriera e dominavano i mari del mondo. Ma erano ben altre, le notizie che catturarono gli agenti: il Governo Mondiale esisteva ancora, ma il Cipher e la Marina erano stati smantellati. Al loro posto era sorta “La Grande Armata”, una sorta di esercito che sembrava avesse il compito di sedare rivolte e riportare l’ordine. Kaku notò che alcuni volti dell’Armata erano ex Marine ed ex membri del Cipher.

I Rivoluzionari avevano approfittato del momento per rovesciare il potere in alcune zone, e liberare alcune nazioni dal giogo del Governo: qualcuna si era alleata, altre avevano formato confederazioni, altre avevano instaurato regimi dittatoriali, altre erano state conquistate e stravolte da pirati semplici e Imperatori. 

«Va’ a pagina tre, guarda chi firma l’articolo sul disfacimento del Cipher…» suggerì Blueno.

Lucci voltò le pagine e poi lesse: Il Gufo silenzioso.

«È quel cretino di Fukuro.» asserì Jabura.

«È decisamente Fukuro.» disse Kaku, per miracolo d’accordo.

«Sì, e conferma il fatto che, quando di porta in porta sono finito anche nella redazione del Quotidiano dell’Economia, ho sentito proprio la voce di Fukuro, tanto che ero convinto di essere ritornato a Catarina.» tuonò Blueno.

«Ci siamo persi molto altro, in questi due anni e mezzo?» chiese Jabura.

«Una rivoluzione su scala mondiale.» muggì lento Blueno, senza entusiasmo. «Marina e Cipher non esistono più, dimenticateveli. I vertici sono morti o sono scomparsi. Adesso c’è la “Grande Armata”, che comprende più o meno Marina e Cipher. Poi cosa c'è…? Oh, ecco…» indicò un angolo del locale la cui parete era sommersa di avvisi di taglia: al centro spiccava il volto sorridente di Monkey D. Rufy. «Una nostra vecchia conoscenza è tornata da poco in circolazione dopo due anni.»

Kaku riconobbe la fotografia Zoro, poco distante, con più zeri di quanti ne riuscisse a contare con un colpo d’occhio, e sorrise beffardo sotto al bavero della felpa.

«La lotta alla pirateria è diventata l’ultimo dei problemi, per il mondo, quindi le ciurme hanno agito indisturbate.» spiegò l’oste.

«Lascia perdere i pettegolezzi.» lo bacchettò Lucci. «Cos’altro dobbiamo sapere?»

«I Rivoluzionari hanno perso i loro vertici, avevano dei Frutti del Diavolo… ma sono comunque ancora in attività in tutto il mondo. Ogni tanto escono degli articoli su di loro, ma comunque Marijoa regge ancora, il Governo nonostante tutto è rimasto in piedi.»

«Quei maledetti Draghi Celesti sono resistenti.» disse Jabura.

Kaku si rivolse a Blueno: «E questa Grande Armata come funziona?»

Blueno si strinse nelle spalle, amareggiato. «Come la Marina, ma più violenta. Come il Cipher, ma meno segreto.» muggì sibillino. «Usano persino le vecchie navi della Marina, hanno solo ridipinto gli scafi di bianco.»

«Dovrebbe suonare rassicurante?» si domandò Lucci.

«Non lo è mai stata.» sospirò Blueno, mesto. «Sono migrati lì molti ex marine ed ex governativi, è in piedi da meno di due anni ed è già famosa per la corruzione e la violenza di molti suoi agenti. C’è una guarnigione anche qui a Catarina, ma in generale l’arcipelago è rimasto un posto tranquillo, penso si occupino di furtarelli e di roba da cronaca nera.»

«Altre novità?» chiese Kaku.

«L’Imperatore Kaido viene tenuto a bada a malapena dalla Flotta di Cappello di Paglia. Dopo l’apocalisse dei Frutti del Diavolo, Kaido ha avuto molto successo: i suoi sottoposti usavano degli Zoo-Zoo artificiali, che non derivavano da quegli Alberi, e quindi non hanno risentito di niente.»

«Quell’ubriacone è diventato il re del mondo, o qualcosa del genere?» chiese Jabura giocherellando con il proprio bicchiere ormai vuoto.

«Ha allargato i suoi affari, prendendosi anche il commercio degli schiavi di mezzo mondo.»

«Pensavo che ci fosse una crisi generale, e anche il commercio degli schiavi si fosse ridotto.» osservò Kaku.

«Non esiste crisi, per quel genere di merci.» si degnò di spiegare Rob Lucci. «Puoi andare in qualsiasi mercato e portarti a casa uno schiavo, se hai la somma giusta.»

«Anzi, senza la Marina, un sacco di gente si è arricchita illegalmente, e la schiavitù è aumentata: ormai si vedono schiavi non solo con i collari esplosivi, che erano un’abitudine dei Draghi Celesti, ma anche schiavi con dei semplici collari di ferro.» spiegò ancora Blueno.

«Ma senza il meccanismo che li fa esplodere, non potrebbero toglierseli?» ovviò Kaku.

Jabura, a sorpresa, prese la parola: «Sono saldati. E spesso c’è anche la targhetta col nome del proprietario. Da soli non possono toglierseli.» spiegò, serissimo.

«E comunque,» riprese il discorso Blueno «nessuno li aiuterebbe a farlo, visto che si rischia di essere arrestati dalla Grande Armata. Spesso poi sono marchiati…» Blueno provò pietà al pensiero di quelle vite che aveva osservato di sfuggita, di porta in porta, durante i suoi due anni di peregrinazioni: bambine, bambini, lavoratori, ex militari, anziani, uomini-pesce, sirene… persino una sposa rapita il giorno del suo matrimonio, e costretta a servire il padrone vestita con il suo vestito bianco, sempre più sporco e consumato… persone di ogni razza e taglia che venivano sfruttati dai loro padroni fino all’ultimo filo di vita.

«Stiamo divagando.» tagliò corto Rob Lucci, prendendo il bicchiere ormai vuoto che Hattori gli porgeva, e posandolo sul tavolo. «Vogliamo partire tra due giorni: vieni con noi a liberare quel vecchio pazzo di Vegapunk, o rimani qui a pulire bicchieri?»

Il volto di Blueno divenne minaccioso: «Sono un agente del Cipher Pol. Certo che vengo.»

 

~

 

Il Blueno’s Bar 2 non aveva camere; Lucci, Kaku, Jabura, Califa, e anche la pilota, passarono la notte in un albergo sull’Isola della Primavera, in un’antica palazzina a due piani. Avevano delle camere separate al primo piano, ma il lungo balcone era in comune e si affacciava su una strada affollata che conduceva al lungofiume. Si respirava aria di mare e di pesce fritto, che veniva cucinato nei ristoranti dell’isola.

La notte era fresca, tipica delle isole primaverili, e dalla si sentivano le note scatenate dei suonatori di jazz, che davano spettacolo nei locali dell’isola.

La musica e le risate erano talmente forti che risuonavano persino sui tetti dell’Isola del Sud. Da lì c’era un panorama luminoso, colorato, e dai comignoli salivano centinaia di fili di fumo che si perdevano nella notte e sembravano danzare tutti insieme.

«Che ci fai qui? Ero convinto che saresti stato in giro a gozzovigliare fino all’alba.»

La voce di Rob Lucci era severa, ma anche bassa, e si fondeva nel blu intenso del buio.

«Potrei farti la stessa domanda. Che diavolo vuoi?»

Quella di Jabura era altrettanto bassa, ma tagliente e sulla difensiva.

Rob Lucci non rispose all’interrogativo. 

Aveva trovato Jabura appollaiato sul tetto di ardesia dell’albergo, che stava in silenzio ad ascoltare la musica che si perdeva nella notte, come un gatto solitario.

Anzi, no: come un lupo solitario.

Si sedette in bilico sulle tegole a poca distanza da lui. Lo seguiva Hattori, che si appollaiò quieto sulla sua spalla destra.

La figura affusolata ed elegante di Rob Lucci era tornata con la consueta corona: una tuba. L’uomo aveva preso un rotolo di banconote dalla cassa comune e, come prima cosa, era andato in giro per l’Isola del Sud e l’Isola del Nord a comprarsi dei vestiti che non fossero tute, felpe e magliette. Si sentiva molto più a suo agio fasciato con dei pantaloni neri di sartoria, una camicia bordeaux, e con il cappello a cilindro in feltro dalla fascia di seta lucida abbinato al gilet. 

Anche Jabura aveva avuto il suo rotolo di banconote d’ordinanza, e l’aveva investito in camicie hawaiiane da tenere sbottonate sul petto nudo e in un paio di occhiali da sole, miracolosamente uguali a quelli che portava due anni e mezzo prima. Ma adesso, visto il fresco della sera, aveva indossato una giacca di velluto viola con gli alamari di legno dorato, e lo spettacolo sui pettorali muscolosi era stato rimandato al primo sole del giorno dopo.

Davanti a loro, guardando dritti verso settentrione, si vedevano le altre quattro isole dell’arcipelago… e si vedeva il grande buco nero di buio lì dove avrebbe dovuto esserci la Torre di Catarina.

«Mi ero abituato all’idea di considerarla una casa.» ammise Jabura.

Lucci soffiò aria dal naso, sprezzante. «Il Governo dovrebbe averti abituato che per gente come noi non esiste una casa.» ma dal tono si capiva che non ci credeva fino in fondo nemmeno lui.

«Non avevi niente a cui tenessi, nel tuo appartamento?» lo provocò il Lupo.

Beh, era stato Lucci a cominciare a fare lo stronzo.

L’uomo sorrise sprezzante: «L'unica cosa a cui tenessi… mi ha aspettato.» i denti bianchi brillarono nel buio come rivelati da un sorriso, e Hattori si prese una bella razione di carezze sul pancino morbido. Tirò con affetto l'orecchio di Rob Lucci, e poi si accovacciò sulla sua spalla.

Rimasero in silenzio uno vicino all’altro, senza parlare. 

«Stai cercando se è rimasta una traccia del tuo potere, vero?» indovinò Lucci.

«Non è rimasto niente da cercare.» troncò la conversazione Jabura. «E comunque, anche tu sei qui per quello.»

Erano stati un lupo e un leopardo, un canide e un felino che per ragioni biologiche non potevano andare d’accordo… ma erano anche due cacciatori notturni, che cercavano l’odore delle prede nella notte e nel buio.

Lucci non si degnò di rispondere, si ravviò i lunghi capelli mossi dietro le spalle e si tolse una lunga ciocca dal volto. «Avevo bisogno di aria. Tutto qui.»

Come no, pensò Jabura, con tutti i balconi dell’albergo a disposizione. Voleva fare il gatto sul tetto, tutto qui. Solo che aveva trovato lui… il lupo che ulula alla luna.

«Senti…» decise infine Jabura. «Ho scoperto cos'è che Lilian non ci diceva: è un’ex schiava. Rischia di essere riconosciuta.»

«Lo sapevo.» rispose Lucci senza dare molta importanza alla cosa.

«Lo sapevi?!»

«Era nascosta da un anno in un bosco, non mostra mai il collo dove evidentemente c’è il collare o i segni del collare, e si è abituata a tenere gli occhi bassi: lo fanno gli schiavi per non innervosire i padroni. Poi oggi, durante la conversazione, hai detto che adesso i collari degli schiavi li fanno anche di semplice ferro… l’unica che poteva avertelo detto era la pilota. E perché te l’avrebbe dovuto dire? Perché era stata lei stessa una schiava.»

Jabura si grattò la nuca. «Sei un maledetto stronzo.» disse, in un tono che tradiva una certa ammirazione. «Quindi immagino che la cosa non interferisca con i nostri piani.»

«Di cos’hai paura? Che la riconoscano? Le probabilità sono bassissime. E anche se succedesse, ti cambia la vita uccidere altre due o tre persone?»

Jabura ghignò e il suo sorriso ferino brillò nella notte.

No che non gli cambiava.

«Altra cosa: è stato Spandam a venderla agli schiavisti.»

«Pacchetto completo, ha sistemato tutti noi, uno per uno.» disse Lucci serissimo. «Si sono salvati solo Blueno, perché è sparito prima, e Califa.»

«Suo padre l'ha trasferita subito… ha lavorato con Spandine, quindi forse Spandine gli aveva detto del piano e gli ha permesso di salvare la figlia.»

Lucci ci pensò un attimo. «Può essere.»

«Stavolta lo ammazzo.» promise il Lupo.

Lucci sogghignò. «Dovrai essere più veloce di me.»

Jabura rispose al ghigno. 

«Goditi il silenzio, finché puoi.» concluse Lucci sospirando, e guardando il cielo stellato. «Quando recupereremo anche Fukuro non avremo più una pace così.»

 

 

Dietro le quinte...

Scusate il ritardo!! Giornata piena e stancante!
Poche cose: quattro milioni di Berry equivalgono a poco meno di 28.000 euro. Una bellissima somma, che permette di mangiare, alloggiare e vestirsi per qualche settimana anche a un gruppo numeroso come quello degli agenti. 

E quindi Spandam ha scoperto che gli agenti, che credeva di aver liquidato per sempre, sono ancora vivi e vegeti, e probabilmente sanno che è stato lui a farli sparire. La flebile speranza che fossero bloccati da qualche parte del mondo, impossibilitati a tornare a casa, è infranta: la nave che descrive il carpentiere non può essere che un Canadair, e Spandam sa di essere spacciato. Cosa farà per salvarsi la pelle?

L'isola del Sud, quella con il clima primaverile, è ispirata alla città di New Orleans: tutti i piatti cucinati da Blueno sono tipici di quella cucina, in genere piccanti e a base di pesce!

Quando ho cominciato a scrivere questa storia, la saga di Wano era appena cominciata, quindi mi scuso con i lettori se le informazioni su Kaido sono leggermente diverse dagli ultimi sviluppi del manga! Immaginate per favore di essere ancora a metà saga e di non sapere come finisce ^^' grazie e scusatemi!

Grazie ancora di tutto! Nei prossimi giorni con calma risponderò alle ultime recensioni! Grazie a tutti!

Buona notte!

Yellow Canadair

 

  
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