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Autore: Iaiasdream    30/06/2022    0 recensioni
Vincenzo Gargano, ricco novantenne proprietario terriero, muore lasciando tutti i suoi averi al figlio Diomede e ai due nipoti Stefano e Carmine, a patto che a scadenza di un anno dalla sua morte, uno dei due prenda moglie.
Per non rischiare di perdere tutto, poiché Stefano dieci anni addietro tagliò i ponti con l'intera famiglia, Diomede cerca di affrettare i tempi accettando la proposta di sua cugina Rita Ferrara, facendo sposare Carmine con la procugina Marella.
Il giovane, però, è contrario, poiché innamorato di Arianna, figlia adottiva del cugino di suo padre, da tutti chiamata Aria.
Carmine sembra propenso a non voler piegarsi a quel obbligo e decide con la sua amata di scappare insieme, ma il destino sembra essergli avverso e proprio il giorno previsto per il matrimonio, degli imprevisti inaspettati cambieranno i loro progetti.
A complicare la situazione è anche il ritorno di Stefano, il quale porta con sé un segreto che riguarda Arianna e che insieme dovranno scoprire poiché prima di morire, Vincenzo era propenso a rivelare qualcosa di sconvolgente.
Tra misteri, intrighi e passioni, non mancherà il forte sentimento che travolgerà i due giovani.
Tutti i diritti sono riservati
Genere: Erotico, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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Capitolo 9
 
A soli tre chilometri da Murgella, si estendeva la piccola frazione di Calenda; piccola, poiché comprendeva un ristrettissimo numero di abitanti, per lo più anziani, che dopo aver passato la propria vita lavorando la terra, avevano fatto costruire una serie di villette, almeno chi poteva permetterselo, e si erano ritirati per passare gli ultimi anni della loro vita in pace e tranquillità, saggiando in modo più riflessivo le bellezze della campagna.
Qui, in una delle prime ville costruite accanto al santuario della Madonna delle Grazie, viveva La Vedova. Era quel tipo di donna che dopo aver passato la settantina, inizia a diventare scorbutica ed egoista verso il prossimo, forse perché stanca della vita e speranzosa che il Buon Gesù, vedendola comportarsi in quella maniera, si decidesse di richiamarla a sé, proprio come quei bimbi in cerca di attenzioni.
Si chiamava Marinelli Valaria.
Esatto, Valaria e non Valeria.
Certo, chiunque si chiederebbe da dove provenisse questo nome e a spiegarlo sarebbe dovuto essere la buonanima di Umberto Olivieri, impiegato all’anagrafe di Murgella dal 1920, che in una fredda mattina di gennaio, si vide entrare un uomo basso, tarchiato e tutto sporco che gli disse con voce cavernosa: «Sono il padre di mia figlia.»
Accennando un leggero movimento con le spalle, il signor Umberto esclamò: «Embé?»
«Mia moglie mi ha detto che voi la dovete segnare.»
«A chi?»
«A mia figlia!»
E siccome Umberto aveva già capito che stava avendo a che fare con un ignorante ottuso, diventò scontroso tutto d’un botto. Afferrò il pennino dal calamaio ed estraendo un foglio bianco dallo scrittoio disse velocemente: «Nome e cognome e data di nascita.»
L’uomo esitò fissandolo sottocchio. Non ricevendo alcuna risposta, l’impiegato alzò lo sguardo rugoso e incrociò le mani picchiettando l’indice sul dorso.
«Di chi?» chiese allora l’uomo.
«Di tua figlia!»
«Ah! E di’ tutto! Valeria Marinelli, sedici settembre dell’anno scorso»
Il pennino scivolò dalle mani dell’impiegato che sussultò sulla sedia e spalancò la bocca incredulo «E mo’ vieni?»
Dopo quella domanda ci fu un battibecco che non finiva più e non solo per il fatto che il signor Marinelli si era presentato quattro mesi dopo la nascita della bambina, a causa del lavoro nei campi che gli occupava tutta la giornata, ma anche perché Umberto dovette fargli capire che per legge avrebbe dovuto segnarla quel giorno di gennaio.
Alla fine, esasperato, si era deciso ad agire come un detto antico diceva: ai fessi si dice sempre di sì.
Ma cos’ha a che fare questo con il nome storpiato?
Semplicemente perché Umberto, nel registrare i dati della bambina, sospirò un lungo AH! E fu proprio quella vocale a fargli sbagliare il nome.
Ora, non sto a raccontare cosa dovette sorbirsi il vecchio impiegato dell’anagrafe quando se ne accorse e dovette spiegare tutto alla famiglia.
Comunque, Valeria o Valaria non hanno importanza, anche perché tutti a Murgella e Calenda la conoscevano come La Vedova. Tale nomignolo, come si può immaginare, era dovuto al fatto che nella sua giovinezza aveva avuto ben quattro mariti, tutti morti chi per un motivo, chi per un altro, e tutti e quattro le avevano lasciato un’abbondante eredità, ma nessuno di loro le aveva dato un figlio.
Così La Vedova aveva trascorso il resto della sua vita in solitudine, imbruttendo il suo carattere. Di lei si prendeva cura una lontana cugina che si era avvicinata col solo scopo di accaparrarsi l’eredità, fino a quando non accadde che, uscendo dalla Chiesa, una domenica, Valeria scivolò e si fratturò una gamba. D’allora, la lontana cugina si capacitò che non avrebbe potuto più starle dietro, giacché anche lei avanzava negli anni. Così, convinse la sventurata ad assumere una badante. Ma col carattere che si trovava, La Vedova fece scappare via persino le extracomunitarie, fino a che, un giorno, non le fecero conoscere Arianna Ferrara.
Aria andava a farle compagnia tre giorni a settimana, prevalentemente di pomeriggio. Fosse perché aveva saputo che apparteneva a Vincenzo Gargano, del quale nutriva un forte rispetto, o perché era stata colpita dalla sua buona volontà, fatto sta che la vecchia l’accettò senza dire nulla, nel senso che quando si incontravano non proferivano parola.
E allora come faceva Aria a prestarle servizio? Semplicemente taceva e le faceva compagnia. Perché era quello che cercava donna Valeria. Il silenzio.
In poche parole: la pagava solo per avere una presenza umana in casa, del resto, se non per cose importanti, se ne stavano zitte entrambe.
«Il silenzio è una specie di attesa», le disse una volta mentre se ne stava seduta accanto al caminetto a sferragliare uno scialle di lana. Fu uno dei pochissimi giorni in cui si permetteva il lusso di far aleggiare dei suoni in quella grande casa.
«Sai perché?»
Aria scosse il capo, indecisa se proferir parola o meno.
«Perché dopo aver sentito chiasso per tutta la tua vita, solo alla fine capisci che per ricevere la risposta che cerchi, bisogna starsene ad aspettare in silenzio.»
E non aveva tutti i torti, perché col passare dei mesi a suo servizio, nel silenzio, Aria aveva imparato a conoscerla, semplicemente osservando i suoi movimenti e abitudini e così viceversa.
Il giorno dopo il matrimonio tra Carmine e Marella, Arianna si era presentata alla villa che era l’alba. Sembrava aver passato la notte in bianco e a piangere, che gli occhi erano gonfi e rossi. Quando la vecchia era andata ad aprirle, non le aveva posto alcuna domanda, l’aveva fatta entrare e aveva ignorato le sue spiegazioni. Non l’era sembrato strano vederla arrivare a quell’ora, poiché faceva le ore piccole.
La giovane, dal canto suo, essendo di casa, entrò nella stanza degli ospiti e si sdraiò sul letto premendo il viso sul cuscino e dando sfogo al suo dolore.
Verso mezzogiorno, raggiunse la padrona di casa nella sala da pranzo, dove la trovò alle prese con la potatura di una pianta. Quest’ultima le lanciò un’occhiata di sfuggita per poi ritornare alle sue occupazioni, allora la giovane prese quanta più aria possibile nei polmoni per parlare, ma quella la interruppe dicendo: «Puoi rimanere quanto vuoi, sai che non mi dai fastidio.»
«Grazie» rispose Aria con voce flebile, poi il silenzio ritornò sovrano.  
Era un sollievo per lei avere quella donna nella sua vita come ulteriore rifugio. Non aveva intenzione di ritornare in quella casa, non dopo tutto quello che era accaduto. Per tutta la notte si era domandata perché Carmine l’avesse tradita in quel modo. Era ritornata alla cascatella, speranzosa che il giovane l’avesse raggiunta, ma solo quando vide comparire le prime luci del sole nel cielo si era capacitata che non ci sarebbero mai più stati quegli incontri. Carmine non era più il suo. E poi, ciò che aveva tentato di farle Diomede non era qualcosa da meno. Sentiva che da quel momento in poi avrebbe corso un pericolo stando in quella casa. Malgrado tutto, la notte porta consiglio e si era detta che l’unica cosa da fare sarebbe stata allontanarsi per un po’. Aveva chiamato suo padre dicendogli che La Vedova aveva bisogno di compagnia anche durante la notte e che sarebbe tornata a casa solo per occuparsi delle scuderie.
Alberto non aveva detto nulla, non le aveva chiesto perché non era scappata con Carmine, come avevano programmato, nemmeno come stesse dopo aver visto l’amore della sua vita sposare un’altra. Solo verso pomeriggio chiamò sul telefono dell’anziana avvisando sua figlia che gli sposi stavano partendo per il viaggio di nozze.
Aria si sentì morire per la seconda volta.
 
***
 
Il sole era ancora alto nel cielo e il caldo soffocante. Le fronde erano immobili sembravano uno scatto di fotografia. In una stretta strada di campagna, si susseguivano in fila indiana dei castagni le cui ombre dividevano la via come tasti di pianoforte. Proprio lì, accompagnato da una musica con le cuffie alle orecchie, Stefano faceva una corsetta. Aveva indossato un completo sportivo: maglia larga sbracciata e pantaloncini.
Di solito non faceva jogging di pomeriggio, ma quel giorno aveva deciso di fare un’eccezione, l’aveva deciso perché non aveva alcuna intenzione di assistere alla partenza di suo fratello. Già dal giorno prima, dopo quello che era accaduto con Aria nelle scuderie, si era allontanato dal casale con la sua moto, perdendosi finanche la cerimonia di matrimonio. Nonostante si sentisse confuso per il bacio che lei gli aveva dato e che lui aveva volontariamente accettato, aveva creduto fino all’ultimo che Carmine e la sua amata sarebbero riusciti a scappare insieme e invece, quando quella mattina scoprì l’accaduto, rimase all’inizio sconcertato, ma non poté negare quel velo di sollievo che gli aveva coperto il cuore. Aveva accettato quel bacio perché l’aveva voluto. Certo, ad essere sincero, l’aveva seguita nelle scuderie perché avrebbe voluto parlarle di quello che stava cercando nella camera del nonno e magari scoprire il nesso che la legava alla lettera ricevuta.
Mai, il giovane, avrebbe potuto immaginarsi quello che sarebbe potuto accadere.
Era convinto che Aria lo avesse scambiato per Carmine, in fin dei conti avevano la stessa fisionomia. Si era sentito travolgere dalla passione e anche dopo, quando le loro labbra si erano divise, avrebbe voluto tenerla stretta tra le sue braccia; sentire tra le mani quelle forme morbide, sinuose.
Si fermò piegandosi in avanti, appoggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato e scosse energicamente la testa come a voler cancellare quell’immagine indelebile dalla mente.
Doveva dimenticare quel che era successo perché, anche se ormai suo fratello si era sposato con Marella, lui si sentiva di averlo tradito.
Si drizzò passandosi una mano tra la folta chioma dorata e poi l’avambraccio sulla fronte per detergersi il sudore, e dopo essersi riempito i polmoni di aria, riprese la sua corsa, ma dovette subito arrestarsi, poiché, in fondo al viale, veniva qualcuno ed era proprio Arianna.
Camminava lenta, mogia, col capo chino a guardarsi i passi che compiva.
Lì per lì Stefano non seppe cosa fare, ma poi decise di prendere la palla al balzo e si diresse verso di lei. Le fu a due passi che lei nemmeno se ne accorse e lo sorpassò. A quel punto il fotografo l’afferrò per un polso e la fermò.
Aria trasalì, alzò di scatto il capo e si volse a guardarlo. Rimase immobilizzata per qualche istante, il tempo di ricordarsi della sera prima, si sentì pervasa da quella sensazione che l’aveva avvolta precedentemente e, se fino a quell’istante non aleggiava nemmeno un soffio di vento, fu investita da una folata che le regalò quel profumo ormai familiare e travolgente. La ragazza si sentì venir meno, ma si riprese e tirò via la mano in modo brusco.
Stefano rimase sconcertato da quella reazione e chiuse la mano a pugno ritirandola e infilandosela nelle tasche dei pantaloncini.
Continuarono a guardarsi per qualche istante, poi Aria si volse accennando qualche passo per andarsene, confusa da quel vortice di sensazioni.
«Aspetta!» la fermò il fotografo, lei non si volse. «Ho bisogno di parlarti.» aggiunse cercando di mostrarsi indifferente, per farle intendere che, anche se non era vero, era lungi dal pensare alla sera prima.
«Non ne vedo la ragione» rispose lei balbettando, poi sentendolo avvicinarsi, si volse di scatto e lo intimò a fermarsi. «Non voglio!»
Stefano strabuzzò gli occhi nel vedere che i suoi erano atterriti e pieni di lacrime.
«Non voglio avere più niente a che fare con voi Gargano!» ripeté Aria per poi scappare via.
Il giovane fotografo non la seguì, rimase lì a guardarla mentre si allontanava.
Non ne era sicuro, ma intuì che quella reazione non era dovuta a ciò che era accaduto nelle scuderie.
 
***
 
Quando Alberto incrociò sua figlia sul vialetto che portava alle scuderie, era appena uscito dallo studio di suo cugino Diomede e, a giudicare dall’ombra che gli era calata sul viso, non avevano avuto una bella conversazione. Si era parlato dei cavalli e Diomede sembrava propenso a voler mandare in fumo gli anni di duro lavoro dell’intera famiglia Ferrara, in collaborazione con Carmine.
Da tempo, era risaputo che la vendita dei cavalli non andava e le escursioni e i corsi di equitazione, secondo Gargano, non bastavano come entrate. Ma agli occhi di Alberto pareva che suo cugino avesse aspettato il momento opportuno per togliersi di mezzo Carmine e sfruttare in tutto e per tutto l’obbligo testamentario.
L’uomo non era interessato all’eredità, ma in quel momento concluse che sua madre aveva fatto il più grande errore della sua vita ad aver rinunciato alla sua parte, e ad aver accettato che potessero vivere e lavorare come sempre, infatti, quella decisione stava portando l’intera famiglia Ferrara alla rovina. Se fosse vero che Diomede aveva intenzione di abbattere le scuderie, allora sarebbe stata la fine.
Vedendolo in quello stato, Aria dimenticò l’incontro con Stefano e si avvicinò a lui, preoccupata.
«Papà, che cosa ti è successo?» gli chiese.
Alberto sembrò ritornare alla realtà come se strattonato e, vedendo il volto afflitto di sua figlia, cambiò repentinamente espressione.
«Aria, sei tornata?» ribatté intento a voler deviare il discorso. Le posò le mani sulle spalle per poi accarezzarle il viso. «Come stai? Cos’è successo, perché non siete scappati insieme?». In verità, l’uomo non avrebbe voluto chiederle di Carmine, ma non aveva trovato altro modo per sviare la sua domanda.
Aria abbassò lo sguardo e sentì il cuore lacerarsi, abbracciò suo padre il quale non perse tempo a ricambiare il gesto. La strinse forte a sé e le accarezzò i lunghi capelli e a quel tocco la giovane iniziò a piangere. Rimasero così per qualche istante, ma non disse nulla, non diede alcuna risposta alla domanda postale, poi l’accompagnò nelle scuderie dicendole che sarebbe dovuto ritornare nei campi, che l’imballaggio del fieno portava tempo, data la partenza di Carmine e una mano in meno. Infine, dopo essersi convinto che la figlia stesse bene, la lasciò al suo lavoro.
Aria lo congedò sfoggiando un sorriso malinconico, aggiungendo che non doveva preoccuparsi perché, anche se era difficile negarlo, sentiva di poter riuscire a stare bene.
Ma non era vero.
Come poteva ritornare alla vita di sempre se Carmine non era più al suo fianco? Cosa le rimaneva se non gli amabili ricordi di loro due insieme, spensierati, innamorati e con il desiderio di condividere la loro vita? Ricordi dei quali, Aria sapeva bene che il tempo avrebbe cancellato.
Quando aprì il portone della scuderia e varcò l’entrata, il silenzio assordante e l’immagine del corridoio la ribaltò repentinamente al ricordo della sera prima.
Dimenticò subito l’amato e al suo posto si plasmò Stefano, insieme al suo tocco, alle sue labbra, al suo profumo, a quella stretta che l’aveva fatta sentire protetta e travolta da una passione che dovette ammettere di non aver mai provato con Carmine.
Scosse la testa energicamente volendo allontanarsi da quei pensieri, ripetendosi che era sbagliato e che, come aveva ben detto, non doveva avere più niente a che fare con la famiglia Gargano.
Si sarebbe dedicata al suo lavoro e la permanenza in casa de La Vedova l’avrebbe aiutata a stare lontana da tutto.
Ma se quelle erano le convinzioni che si era predisposta, sfortuna volle che non avesse fatto i conti con i guai che stavano lentamente insinuandosi nella famiglia di suo padre, per colpa dell’uomo che dalla sera precedente aveva rivelato la sua pericolosità.
A un tratto fu attratta da un chiacchiericcio che, man mano si faceva più vicino, diventò comprensibile. Aria si affacciò dal box di Tempesta e vide i due gemelli gesticolare nervosamente verso il loro padre, che si passava una mano sulla fronte, agitato.
Stette ad osservarli e ascoltarli senza dire nulla. Cercò di capire che cosa si stessero dicendo.
«Ma papà, che ne sarà della nostra famiglia?» chiedeva Enea.
«Per favore non vi mettete anche voi. Questa giornata non è iniziata proprio bene!» rispose Cristoforo.
«Io lo sapevo che dopo la partenza di Carmine, sarebbe andato tutto a puttane!» esclamò Paride calciando il secchio dell’acqua.
Suo padre lo rimproverò per la parolaccia, ma non disse altro e, dopo varie imprecazioni, uscì dalla scuderia lasciando soli i due gemelli.
A quel punto Aria decise di uscire allo scoperto e raggiungerli chiedendo loro che cosa fosse accaduto.
Quando la videro, il primo a prendere la parola fu Paride il quale le corse quasi in contro come se davanti avesse una luce di speranza.
«Aria! Hai saputo la notizia?»
La ragazza non rispose, scosse solo il capo.
«Diomede vuole abbattere la scuderia per farci un agriturismo!»
«Che cosa?!», la reazione della giovane fu più esagerata di quanto lei stessa si potesse aspettare. Che cosa significavano quelle parole? Perché quella notizia così a brucia pelo? Ma soprattutto, perché Diomede se n’era uscito con questa trovata?
«E… e i cavalli, il nostro lavoro?» balbettò guardandosi intorno smarrita.
«È la stessa cosa che gli hanno detto nostro padre e zio Alberto. Ma lui non vuole sentire ragione!» rispose Enea.
Arianna lo guardò atterrita. Era dovuto a questa notizia lo stato d’animo di suo padre. Era evidente che quell’uomo voleva rovinare la famiglia Ferrara, ma perché?
Mentre i gemelli continuavano a maledirlo, lei iniziò a pensare e i pensieri la portarono ad un’unica soluzione. Certo, non era delle migliori e non l’avrebbe tenuta lontano dall’uomo che aveva voluto abusare di lei, ma il pensiero di dover dire addio a tutto quello, di dover vedere il sangue dei Ferrara, il suo, gettato come immondizia, di dover separarsi da Tempesta, la fece reagire d’impulso: senza aggiungere altro, uscì dalla scuderia, ignorando i richiami dei gemelli e con passo spedito si recò nella tenuta dei Gargano.
Sapeva che a quell’ora Diomede se ne stava nel suo studio, come sempre, da quando era morto il nonno, a crogiolarsi sulla sua bella poltrona di pelle, comandando gli altri a comodo suo e a sciorinare quel potere che gli era giunto come un vero colpo di fortuna.
Quando si trovò davanti alla porta chiusa, esitò. Per un attimo ebbe il buon senso di voltarsi indietro e magari ritornare più tardi accompagnata da suo padre, ma l’istinto prevalse sulla ragione e, stringendo i pugni, bussò decisa.
L’attesa non fu lunga e dopo qualche secondo, la voce dell’uomo si udì in sottofondo, ordinando al visitatore di entrare.
Aria non se lo fece ripetere due volte e spalancò la porta. Varcò la soglia ma non chiuse né tantomeno si inoltrò nella stanza.
Diomede, come l’aveva ben immaginato la ragazza, se ne stava dietro alla sua scrivania con una cartella da registro tra le mani. Quando alzò il capo verso di lei rimase meravigliato nel vederla, poi mutò atteggiamento e riabbassò lo sguardo sui documenti.
«Che significa?» chiese allora Aria senza tergiversare.
«Che significa, cosa?» replicò lui reggendo lo sguardo sulle carte.
«La scuderia è il nostro lavoro! Non puoi togliercela in questo modo, non dopo che anche tu ne hai ricevuto compenso!»
Diomede si decise finalmente a guardarla e non per le parole che aveva dette, per dirla tutta le aveva ignorate, ma per il modo in cui quella ragazza si stava comportando. Aveva alzato la voce, sicura di se stessa, sembrava proprio che della paura della sera precedente non rimaneva nemmeno il ricordo, e da ciò che ricordava l’uomo, quella stupida orfana aveva sempre avuto paura di lui.
La situazione lo eccitò.
Allungò le labbra in un ghigno sghembo, lasciò la cartella sul piano della scrivania e, fatto il giro, andò a posizionarsi davanti a lei, incrociando le braccia al petto e accavallando una gamba sull’altra.
«Di’ la verità – esordì fissandola dalla testa ai piedi – che cosa sei venuta a fare qui?»
Aria si sentì presa in giro, ma cercò di non farlo intendere e ribatté sul fatto della scuderia, ma Diomede la interruppe e con voce sprezzante disse: «Mi credi così coglione da poter parlare di affari con te che non vali nemmeno lo sterco dei vostri stupidi equini? Sei solo una bastarda che ha trovato pietà agli occhi di un vecchio rincoglionito, come puoi pretendere di parlare con me di questo?»
Aria strinse ancora una volta i pugni sentendosi le nocche lacerarle la pelle. Gli angoli delle labbra tremavano e sentì il pianto solcargli la gola. Non disse nulla, ma piena di coraggio, continuò a fissarlo con ribrezzo, poi però decise di reagire, ormai, si disse, era arrivato quel tanto atteso momento del faccia a faccia con quell’uomo anche se non si aspettava che potesse essere così, tanto valeva continuare la discussione e, presa tutta l’aria possibile nei polmoni, esclamò: «Non ti basta aver rovinato la vita di tuo figlio? Me lo hai portato via e l’ho permesso perché, come hai ben detto, non valgo nulla. Ma giuro sul nonno che non ti permetterò di rovinare anche Alberto!» detto questo, si volse per andarsene, ma Diomede fu più veloce di lei, la tirò indietro chiudendo la porta e scaraventandola verso la scrivania.
Arianna gettò all’aria un urlo di sorpresa, appaiato dal dolore che l’angolo del tavolo le aveva arrecato ai glutei, poi alzò lo sguardo verso la figura di quell’uomo che si faceva imperiosa man mano che le si avvicinava e iniziò ad avere paura.
Con una mano, l’uomo l’afferrò per le guance e le alzò la testa puntandole gli occhi di ghiaccio che la giovane sentì come lame trafiggerle il cuore. Gli afferrò il polso e tentò di spingerlo con l’altra mano, ma senza riuscire a spostarlo. Voleva perfino gridare, sapeva benissimo che non l’avrebbe ascoltata nessuno e pur volendo non ci sarebbe riuscita, poiché la stretta le impediva ogni minimo movimento.
«Ascoltami bene, piccola sgualdrina – le sfiatò a pochi centimetri dalle labbra – non parlarmi mai più in questo modo e non azzardarti a nominare mio padre. L’unica cosa per la quale sarai buona, se lo vorrai, sarà accontentarmi come hai fatto per tutto questo tempo con mio figlio. Visto che vuoi tanto la salvezza della scuderia. Altrimenti…»
La ragazza aveva inteso bene il significato di quelle parole e anche le sue intenzioni. Catturata da un conato di vomito anche nel sentire quel fiato viscido che dava di fumo, trovò la forza di spingerlo via e quando l’uomo le liberò la bocca, lei non perse tempo a sputargli in un occhio, ma di conseguenza, Diomede le piantò un schiaffo facendola girare verso la scrivania.
Il dolore, oltre ad essere allucinante, le provocò un forte bruciore sullo zigomo, segno che l’aveva colpita forse con un anello e che sicuramente stava sanguinando.
Nonostante questo, lo sentì ancora dietro di sé e fu convinta che non si sarebbe fermato ma che soprattutto gli aveva dato possibilità di sottometterla.
Allora, come una preda che tenta disperatamente di salvarsi, cercò alla rinfusa qualcosa sulla scrivania, per difendersi e la trovò. Non appena si sentì afferrare violentemente per i fianchi, Aria afferrò un taglia carte d’argento, si volse di scatto verso l’aggressore e glielo puntò dritto alla gola.
Diomede si bloccò fissando l’arma, atterrito, poi puntò gli occhi della giovane e malgrado la paura che riflettevano, si accorse che tralasciavano un bagliore d’ira.
Che fosse l’istinto di proteggersi, o la rabbia che quell’uomo le faceva provare, Aria si sentì diversa, sicura di quello che faceva.
«Se t’azzardi a toccarmi un’altra volta – minacciò tra gli ansimi e i tremolii – te lo pianto in gola!»
Quella minaccia non fece vacillare l’uomo, nonostante questo, la lasciò, alzò le mani in segno di resa e sbuffò un sorriso sghembo, strafottente.
Non proferirono altre parole, nell’aria aleggiava solo il respiro affannoso della ragazza la quale dopo aver tentato di scorgere qualche significato nello sguardo maligno di quell’uomo, uscì velocemente dallo studio e in tal modo percorse il lungo corridoio con gli occhi puntati sul pavimento di marmo.
Aveva paura. Sentiva quel sentimento braccarla, credeva che l’artefice la stesse seguendo e a quel punto allungò il passò fino a scontrarsi con qualcuno.
Rischiò di rovinare a terra, ma forti mani la sorressero. Aria, trasalì alzando finalmente lo sguardo e strabuzzando gli occhi non appena questi incrociarono quelli di Stefano che la guardava allibito, spostando lo sguardo verso l’evidente taglio sullo zigomo.
La ragazza soffocò un grido, deglutendo quell’ansia che aveva lasciato il posto al sollievo.
Fissò a lungo quel giovane uomo e fu tentata dal volerlo stringere forte a sé, poiché la sensazione di aver trovato in lui un posto sicuro si era fatta strada nei meandri della sua mente.
Desistette, non appena si accorse che il giovane le stava osservando la parte precedentemente colpita da suo padre e, quando sentì un lieve tocco sulla sua pelle, indietreggiò e allontanò il suo gesto in maniera brusca, così le cadde il tagliacarte che si era, involontariamente, portata appresso.
Stefano rimase allibito, ma non si mosse, Aria, invece, lo sorpassò per andarsene.
Quando Stefano si accorse della presenza di suo padre, in lontananza, che li guardava, si volse verso di lei per fermarla, ma fu troppo lontana. Accennò qualche passo in avanti e si fermò sentendo qualcosa sotto al suo piede. Guardò il pavimento e si accorse del tagliacarte.
Mille pensieri gli invasero la mente, uno tra questi che fosse accaduto qualcosa tra la ragazza e suo padre. Raccolse l’oggetto, poi volse lo sguardo verso Diomede, che mantenendo un sigaro spento, gli sorrise maligno e scomparve dietro la porta del suo ufficio che si chiuse con un tonfo.
Non sapeva ancora cosa fosse accaduto, ma Stefano si convinse che il disprezzo provato per tanto tempo verso quell’uomo si stava repentinamente tramutando in odio.
 
 
 
   
 
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