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Autore: _Agrifoglio_    03/11/2022    15 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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La forza della vita
 
A volte, capitano cose del tutto inaspettate che sfuggono a ogni progetto e che mai avrebbero avuto un esito così perfetto e felice, se anche fossero state preparate per dieci, cento o mille anni.
A volte, capitano cose che cambiano il corso della vita, che segnano un nuovo inizio là dove si era intravista soltanto la fine, che infondono una rinnovata motivazione e di cui non si coglie la ragione ultima.
A volte, capita di sopravvivere.
Mai avrebbe immaginato Jeanne de Valois di sopravvivere all’esplosione dei ruderi dell’antico convento e che il corpo senza vita di Nicolas, da lei stessa pugnalato, le avrebbe fatto da scudo contro la pioggia di pietre e di detriti e l’infrangersi della volta secolare. Mai avrebbe immaginato che sarebbe riuscita a trovare la forza di liberarsi del peso del corpo esanime del marito e delle macerie. Mai avrebbe immaginato che si sarebbe orientata in quello scenario apocalittico e che avrebbe trovato, a tentoni e in ginocchio, l’accesso al passaggio segreto sotterraneo che i monaci anticamente usavano per sfuggire ad assedi e invasioni.
Aveva camminato per un lasso di tempo che non aveva calcolato, senza una torcia e senza un sostegno, per quel cunicolo sotterraneo oscuro e interminabile, con la consapevolezza che in ogni momento, a causa dell’esplosione di poche ore prima, il soffitto le sarebbe potuto collassare sulla testa o che all’uscita avrebbe potuto trovare le Guardie Reali ad attenderla. Eppure era andata avanti con la forza dei ribelli, dei disperati, degli indomiti, di quelli che si costruiscono tenacemente e rabbiosamente il proprio destino contro tutte le cattive stelle del firmamento e che non muoiono mai. Era andata avanti e il soffitto non le era crollato addosso né aveva trovato le Guardie ad aspettarla.
All’uscita del cunicolo, quando era riaffiorata in superficie e aveva respirato di nuovo l’aria fresca del giorno, gli occhi le si erano schiusi e avevano catturato un raggio di sole che si era fatto largo nel cielo, squarciando le nubi di piombo. Col viso impolverato e levando in alto le mani piene di graffi e di lividi procurati dall’intenso scavare, aveva salutato la luce e la libertà e si era sentita viva. In quello stesso momento, il cuore le era sussultato in petto e uno sfarfallio indefinibile, mai avvertito prima di allora, le aveva percorso il ventre.
Poche settimane dopo, aveva avuto la certezza di non essere più sola.
Si era recata a Londra e aveva preso possesso dei brillanti della famigerata collana oltre che di gemme e monete che Nicolas aveva messo al sicuro in una banca.
Successivamente, si era giocata il tutto per tutto e aveva vinto. Era andata a fare visita al Cardinale de Rohan e, con lacrime, suppliche ed espressioni deliziosamente angeliche, lo aveva convinto che era stato Nicolas, con le sue violenze e le sue minacce, a costringerla a coinvolgerlo nello scandalo della collana. Aveva ripreso la sua relazione con lui e gli aveva fatto credere di essere il padre del bambino. Il Cardinale, al settimo cielo per la paternità, le aveva procurato delle terre e dei palazzi in Svizzera e delle patenti di nobiltà. Spinta dall’orgoglio della casata e contro i consigli dell’alto prelato, Jeanne aveva insistito per mantenere il nobilissimo nome dei Valois all’interno del suo nuovo titolo e, così, la Contessa Jeanne de Valois de la Motte era diventata la Contessa Eva von Alois (Eva come la prima donna, la madre di tutti i viventi, sopravvissuta al peccato originale, alla cacciata dal Paradiso Terrestre e alla condanna di Dio) mentre il neonato Conte Jean de la Motte aveva assunto l’identità del Conte Albrecht von Alois.
La nascita del bambino aveva schiuso a Jeanne nuovi orizzonti, offrendole mille stimoli e centuplicandole le forze. Quel figlio, simile a lei in tutto e per tutto, era divenuto, ben presto, una fondamentale ragione di vita per la donna che gli aveva trasmesso tutte le sue abilità oltre alla sconfinata ambizione e all’inesauribile brama di potere e di ricchezza.
Il Cardinale de Rohan, dal canto suo, non aveva badato a spese e aveva fatto in modo che Albrecht von Alois avesse il meglio di tutto: l’educazione più costosa, i migliori insegnanti, vestiti elegantissimi, cavalli di razza purissima e, così, nelle sue dabbenaggine e cecità, si era beato di una felicità fittizia, ma pur sempre gratificante.
Così, con le elargizioni del Cardinale de Rohan, le rendite delle proprietà svizzere e la loro attività di truffatori, madre e figlio erano diventati, in pochi anni, ricchissimi.
Sul finire del 1809, tramite alcune conoscenze del Cardinale, avevano ricevuto conferma di una cosa che avevano sempre sospettato: il tesoro da Napoleone Bonaparte sottratto ai Cavalieri di Malta non era andato distrutto nell’esplosione del vascello L’Oriént, ma era ancora esistente e integro. Napoleone lo aveva nascosto in un luogo sicuro e aveva affidato a uno dei suoi uomini di fiducia, il Generale Alain de Soisson, l’incarico di vigilare su di esso.
Madre e figlio si erano recati in Francia – dove, nel frattempo, era arrivato anche Alain, per trascorrere la sua convalescenza seguita alle ferite riportate nel corso della battaglia di Wagram – e avevano iniziato a tessere le loro trame.
Con un sottile senso dell’ironia, Jeanne aveva assunto l’identità della Contessa Ève de Lis, con ciò alludendo al giglio di Francia che le era stato impresso come marchio d’infamia e si era messa alle calcagna di Alain mentre Albrecht von Alois aveva iniziato a collezionare amicizie nella buona gioventù parigina, per arrivare a Giselle de Bourges, nipote di Alain.
In questi tentativi di scalata al bel mondo, il Conte von Alois aveva conosciuto il Tenente dei Dragoni Robert Gabriel de Ligne, un giovane bello e brillante come lui, ma non altrettanto intelligente. Durante una serata in taverna, il Tenente de Ligne, decisamente alticcio, gli aveva confidato l’esistenza del tesoro dei giacobini, al quale stavano dando la caccia i de Jarjayes, le cui conversazioni il Tenente aveva origliato nei giardini di palazzo. Per puro caso, quella sera, in taverna, era presente anche il Conte di Compiègne che, seduto a pochi tavoli di distanza dai due giovani, aveva udito la conversazione, a causa del tono di voce di de Ligne che l’eccesso di vino aveva reso elevato.
Esaltati da quell’inaspettato colpo di fortuna, Jeanne e il figlio avevano deciso di dare la caccia anche al secondo tesoro e di suddividere gli sforzi. L’affascinante Contessa Ève de Lis si sarebbe concentrata su Alain mentre Albrecht von Alois, tramite de Ligne, avrebbe tentato l’avvicinamento alla famiglia de Jarjayes. In questo, un’inaspettata sponda gli era stata offerta dalla bellissima, volitiva e vanitosa Antigone.
Ben presto, il giovane Conte svizzero era diventato di casa a Palazzo Jarjayes, suscitando, col suo aspetto in tutto e per tutto simile a quello della madre, inquietanti sensazioni di déjà vu in Oscar e André e provocando a Rosalie un malore durante la giornata musicale.
Nel corso di un anno e mezzo, Albrecht von Alois aveva avuto l’opportunità di girare in lungo e in largo per Palazzo Jarjayes e di frugare fra gli appunti di Oscar che sottraeva, copiava con la carta carbone e, poi, riposizionava. La stessa libertà di movimento non aveva ottenuto Jeanne che frequentava Alain principalmente al di fuori di Palazzo de Bourges, residenza del marito di Diane dove il soldato abitava, perché la madre, rimproverandogli la fedeltà a Napoleone, non lo faceva entrare in casa. Di rado, la bella dama era riuscita a farsi invitare dalla famiglia del soldato, i cui ardori doveva oltretutto contenere, perché concedersi a lui avrebbe comportato mostragli il marchio del giglio.
Per dare manforte alla madre, Albrecht von Alois aveva iniziato a corteggiare Giselle parallelamente ad Antigone e, dopo che la coppia diabolica era riuscita a mettere le mani pure sugli appunti di Alain, il Conte svizzero si era congedato dalla piccola de Bourges, piantandola in asso dall’oggi al domani e provocandone la reazione isterica. Atterrita dal furore di Alain che minacciava di sfidare a duello Albrecht von Alois o di tendergli un agguato in un vicolo, Jeanne – Ève de Lis si era prodigata a placare gli eccessi, tentando di riportare la pace nell’animo tumultuoso di Alain e nella mente fanatica di Giselle che, al solo sentir parlare di salassi e sanguisughe, si era subito rabbonita.
Nel frattempo, il Conte di Compiègne, venuto a conoscenza dell’esistenza del tesoro dei giacobini dalla conversazione carpita in taverna, non avendo accesso a Palazzo Jarjayes e alle carte di Oscar, aveva iniziato a pedinare lei e André e, di appostamento in appostamento, era giunto al Carmelo di Compiègne, dove Suor Leonilde gli aveva consegnato il secondo esemplare della mappa. Bisognoso di un ostaggio da trascinare con sé nelle catacombe di Parigi, poiché Honoré era fuori col suo reggimento e Antigone era andata alle terme di Vichy, aveva ripiegato su Bernadette, ben sapendo che Oscar mai avrebbe permesso che le succedesse qualcosa di male anche se era soltanto la figlia della governante.
Nel suo girovagare per Palazzo Jarjayes, Albrecht von Alois aveva appreso che la sorellastra della madre lavorava lì come governante e che questa aveva una figlia, quella stessa ragazza che il giovane incontrava spesso nei saloni e nei corridoi e che a Jeanne era stata indicata da Alain, durante una passeggiata nei giardini delle Tuileries. Lui e Jeanne avevano assunto un atteggiamento protettivo verso Bernadette, tanto che la Contessa le aveva fatto dei doni e le dava dei consigli, quando la incontrava. Albrecht von Alois si era accorto che il Tenente de Ligne infastidiva la cugina e, pertanto, aveva iniziato a seguirla per proteggerla e, quando, nel corso della giornata musicale, l’aveva vista piangere a causa della freddezza del giovane Lavoisier, l’aveva consolata e, senza pensare alle sue vere iniziali che vi erano ricamate, le aveva offerto un fazzoletto che, poi, la giovane aveva riposto nel suo comò.
Sempre origliando in giro per Palazzo Jarjayes, Albrecht von Alois aveva carpito una conversazione fra zia e cugina, nella quale Bernadette lamentava il protrarsi della persecuzione del Tenente de Ligne e il continuo bersagliamento di lettere da parte di lui.
 
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Parigi, Palazzo de Lévis, fine novembre 1811
 
Il giovane nobile sedeva, con posa elegante e disinvolta, su un canapè foderato di un raffinatissimo broccato azzurro, impreziosito da ricami floreali d’oro, collocato in un salone luminoso e arredato col meglio che la società civile potesse offrire.
Il Barone e la Baronessa de Lévis, due lontani parenti del Cardinale de Rohan, erano entrambi ricchissimi e figli unici e avevano messo al mondo una sola figlia che era andata all’altare con un uomo molto più bello di lei, ma decisamente più povero. Una pessima scelta, a giudizio dei Baroni, per i quali la rampolla avrebbe potuto tranquillamente aspirare anche a un Duca. Intanto, però, si erano dovuti rassegnare a quel genero fatuo e, stando alle chiacchiere dei salotti e della servitù, anche infedele e a ospitarlo a palazzo, perché il giovane non disponeva di un luogo consono dove fare vivere la consorte.
L’attesa del gentiluomo ebbe termine pochi minuti dopo l’arrivo di lui a palazzo, quando entrambe le ante dell’ampia porta di legno color crema, decorate con tralci di fiori su cui erano posati esotici uccelli variopinti, furono spalancate da due valletti imparruccati, vestiti in foggia settecentesca e la figlia dei padroni di casa passò dal corridoio al salone.
Il visitatore si alzò e si inchinò elegantemente alla minuta figura che incedeva verso di lui.
Vista da lontano, la giovane dama sembrava una bambina, tanto era bassa di statura. Per essere una figlia unica, pensò l’ospite, i genitori si sarebbero potuti mettere di maggiore impegno nel crearla. La ragazza, invece, aveva un volto oblungo e smilzo su cui campeggiavano due occhietti porcini, malevoli e inquieti, un naso adunco e sproporzionato e una bocca enorme dalla quale sporgeva una dentatura imperfetta. L’incarnato, pallido e opaco, era guastato dai segni del vaiolo che si contendevano il campo con centinaia di efelidi. I capelli, arancioni come carote e terribilmente crespi, erano acconciati in un alto chignon trattenuto da due grandi fermagli di brillanti ed erano così tirati da aderire completamente alla testa. Facevano eccezione degli abbondanti ricci ispidi e vaporosi che contornavano la fronte, le tempie e le gote, come raggi di sole scomposti che facevano apparire, per contrasto, il volto triangolare ancora più lungo e magro. Tanta bruttezza era eguagliata esclusivamente dal pessimo carattere o così, almeno, si narrava.
La giovane signora fu colta da un immenso piacere nel vedere l’ospite. Quando la cameriera le aveva riferito chi c’era nel salone azzurro e che il gentiluomo, per giunta, aveva chiesto espressamente di lei, si era fatta rinfrescare la toletta in pochi minuti ed era scesa a ricevere l’inatteso visitatore a rotta di collo, sebbene con calma ostentata.
Lo aveva sempre ammirato, nel periodo in cui egli e il marito erano diventati amici e, quando i rapporti fra i due uomini si erano guastati per motivi a lei sconosciuti, si era molto rammaricata di non poterlo più vedere con la frequenza di prima. Che quel nobile ricco e bellissimo, conteso dalle dame più raffinate, fosse, adesso, a Palazzo Lévis, in cerca di lei, la riempiva di orgoglio e di gioia.
– Conte von Alois, di quale onore mi colmate nel farmi visita! – esclamò la dama, porgendogli la mano.
– L’onore è mio, Madame de Ligne – rispose il nobile svizzero, accogliendo la mano di lei nella sua e chinandovi sopra il capo, senza sfiorarla con le labbra.
– A cosa devo il piacere della Vostra presenza? – domandò la giovane donna, invitandolo ad accomodarsi.
– C’è bisogno di un motivo per bearsi della grazia? – rispose il visitatore, provocando in lei un moto di orgoglio e di piacere tanto smisurati quanto era fittizia l’ammirazione di lui.
– In realtà, Voi siete stato molto crudele con me, Conte von Alois! – protestò la dama, con finto malumore e armeggiando col ventaglio – Perché avete lesinato le visite a questa casa e disdegnato la mia compagnia, in tal modo mostrando di tenere in ben scarsa considerazione la nostra amicizia!
Terminate queste parole, mise su un finto broncio che sarebbe dovuto essere civettuolo, ma che produsse l’unico effetto di declassarla da bruttissima a orrenda.
– Madame – disse il giovane, passando dal tono di voce leggero usato fino a un istante prima a un altro molto più serio – Al contrario, tengo così tanto alla Vostra amicizia, da espormi in prima persona per essa, al punto da recarVi qualcosa che avete diritto di vedere.
Nel dire ciò, trasse fuori dal giustacuore un mazzo di lettere tenute insieme da un nastro di seta rossa e le porse alla signora.
– Mi incuriosite – mormorò la giovane, spiazzata da quell’insolita piega assunta dalla conversazione mentre quasi strappava i fogli di mano all’interlocutore.
– Ma io sono una donna sposata! – aggiunse, subito dopo, con una risata sciocchina, tornando alle pose civettuole e fingendo di schermirsi.
– Proprio per questo, le lettere sono di Vostro interesse – rispose il Conte von Alois, con voce che a lei parve enigmatica – E, ora, permettete che mi congedi per non frappormi ulteriormente fra Voi e l’oggetto della Vostra curiosità.
Nel pronunciare queste parole, si inchinò e se ne andò, lasciando in lei una frenesia talmente viva e incalzante da indurla a sciogliere il nastro prim’ancora di avere udito la porta chiudersi dietro le spalle dell’ospite.
 
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Versailles, Palazzo Jarjayes, fine novembre 1811
 
– Alain l’ha presa proprio male – disse André, appoggiando il vassoio d’argento sul tavolino e porgendo a Oscar una tazza di cioccolata – Ha deciso di porre fine alla sua licenza e di tornare a combattere.
– Anche perché, qui, non ha più ragione di restare – disse Oscar, immergendo una fettina di arancia nel liquido denso e scuro – Il tesoro è stato trasportato a Parigi dalla Corsica e, su richiesta dei Cavalieri di Malta, lo custodiremo noi fino alla sconfitta di Napoleone, per evitare che se ne impossessi una seconda volta.
– Mi dispiace per lo stato di Alain – insistette André, prendendo posto anche lui davanti al tavolino – Pare che non gliene vada bene una e, ogni volta che ha un dolore, va in guerra. Prima, l’uccisione del cugino Guillaume Colbert per difendere te e, ora, questa delusione amorosa. Francamente, sembra impossibile che un uomo scaltro e disincantato come lui sia stato preso in giro peggio di uno scolaretto!
– L’ennesima vittima delle malie di Jeanne de Valois. Quella donna è diabolica! Io, comunque, nel rapporto, ho scritto che abbiamo trovato il tesoro seguendo le tracce di due criminali internazionali non identificati. In questo modo, non metterò nei guai l’Imperatrice Maria Luisa e, spero, neanche Alain. Se avessi scritto che la responsabile è Jeanne de Valois che ha agito sotto le mentite spoglie della Contessa Ève de Lis, sarebbe stato troppo facile ricondurla ad Alain, dato che in molti li hanno visti insieme. Napoleone non tollera gli sbagli e, conoscendo il tipo, potrebbe anche decidere di fucilare Alain!
– Già! C’è anche questo rischio! Il proverbiale mal di stomaco di Napoleone deve essere aumentato a dismisura dopo la perdita di un tale tesoro! – esclamò André, prendendo, a sua volta, una fetta di arancia dal piattino di porcellana e immergendola nella sua cioccolata – E’ stato ammirevole, da parte tua, coprirlo e capisco che non sia stato affatto facile. Sei così retta e irreprensibile che dichiarare il falso in un verbale, mentendo innanzitutto al Re, deve averti causato molti conflitti interiori.
– Tranquillo, André, non è la prima volta che mi capita – rispose Oscar, guardando in basso – Del resto, se non avessi dichiarato il falso in un verbale, tanti anni fa, non avremmo con noi la cara Bernadette.
– La liberazione di Bernard! – le fece eco il marito, pensando alla conclusione della vicenda del cavaliere nero che tanti sconvolgimenti e troppo dolore aveva portato nelle loro vite.
– Non escludo, però, che Alain abbia comunque dei guai. Era, pur sempre, preposto alla sorveglianza del tesoro e ha fallito. Bonaparte non perdona chi fallisce.
– Auguriamoci che Napoleone sia troppo impegnato coi suoi nemici per prendersela con lui – sospirò André – Lo Zar Alessandro è sempre meno ligio agli accordi di Tilsit e l’Austria e la Prussia sono in continuo fermento contro di lui. Se a ciò aggiungiamo che l’Inghilterra ha un conto aperto con Bonaparte e che Wellington, nella penisola iberica, ne sta decimando le truppe, il quadro non è troppo rassicurante.
– Sarà, ma tutto ciò potrebbe anche innervosire il tiranno e indurlo a punire Alain con maggiore severità – ribatté Oscar – Durante il viaggio di ritorno dalla Corsica, dissi chiaramente ad Alain che, secondo me, avrebbe dovuto tagliare i ponti con Bonaparte, ma lui, evidentemente, da quell’orecchio non ci sente. E’ adulto, facesse come vuole! – sbottò, infine, dando una manata sul tavolo.
– Confidiamo nella buona sorte del nostro amico. E’ un tipo sveglio, di quelli che se la cavano in ogni circostanza. E col tesoro dei giacobini?
– Alcuni proprietari hanno riconosciuto i preziosi a loro trafugati, sono riusciti a dimostrarne la proprietà e i pezzi saranno loro restituiti – rispose Oscar – La maggior parte delle famiglie a cui i tesori furono sottratti, però, sono state sterminate durante gli assalti. E’ escluso, poi, che restituiamo agli inglesi i lingotti e le monete d’oro che essi inviarono ai giacobini per rovesciare il nostro Re. La maggior parte del tesoro dei giacobini, quindi, rimarrà nelle nostre mani e noi potremmo disporne liberamente per le necessità della Francia e per riorganizzare l’esercito.
 
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Parigi, Palazzo de Lévis, fine novembre 1811
 
– Mi hanno riferito che desiderate parlarmi, mia cara – disse il Tenente de Ligne, varcando la soglia degli appartamenti della moglie, dopo avere bussato alla porta.
Appena Madame de Ligne, che dava le spalle alle ante, ebbe udito la voce del consorte, si girò di scatto verso di lui, lo incenerì con lo sguardo e gli scagliò addosso le lettere che Albrecht von Alois le aveva consegnato quella mattina.
I fogli di carta andarono a sbattere contro il torace del giovane ufficiale e si sparpagliarono sul pavimento come foglie secche trascinate dal vento.
Robert Gabriel de Ligne era abituato ai malumori e alle lamentele della moglie, ma così furibonda non l’aveva mai vista. Quello sguardo truce e collerico gli fece capire che, questa volta, non sarebbero bastati a rabbonirla un complimento ben piazzato e la promessa di non trascurarla.
Con gesto elegante, si chinò, raccolse alcuni fogli e iniziò a esaminarli.
– Sì, leggete! Leggete! Sciagurato! Fedifrago!
Il Tenente de Ligne impallidì e cominciò a sudare freddo, riconoscendo la sua grafia elegante e pretenziosa sulle pagine da lui vergate tempo prima.
– Queste lettere sono state da voi scritte a un’altra donna! Il loro contenuto non lascia adito ad alcun dubbio! Mi avete tradita! Avete infranto i voti nuziali!
– Mia cara, non è come sembra, posso spiegarVi… – balbettò l’uomo, in preda all’angoscia mentre le gambe quasi gli cedevano.
Dell’affetto e della stima della moglie ben poco gli importava, ma, se i suoceri avessero chiuso i cordoni della borsa, per lui sarebbe stato un disastro.
– Nulla c’è da spiegare! – urlò, furente, la dama – Queste lettere parlano da sole! L’unico mistero è l’identità della vostra sgualdrina, visto che qualcuno si è preso la briga di cancellarne il nome da ogni pagina, ma a me non interessa come si chiama! A me interessa quello che voi avete fatto a me, disgraziato!
– Mia adorata, sono un reprobo, indegno del Vostro amore… Vi prego di perdonarmi!! – il Tenente de Ligne piangeva e implorava, giurando che, d’ora in poi, le cose sarebbero andate diversamente e lui sarebbe stato un marito modello.
– I miei genitori mi avevano avvertita!! Mi avevano detto che eravate un uomo inutile, un pessimo partito e un individuo fatuo, fannullone, amorale e privo di qualità e io, purtroppo, non li ho ascoltati!! Avessi sposato uno dei partiti che volevano propormi, a quest’ora, non mi troverei in queste condizioni!!
– Mia cara, avete ragione!! Non succederà mai più… Avete la mia parola!!
– La parola di un adultero debosciato!!
– La parola di un uomo pentito che Vi ama più della sua stessa vita!!
– I miei genitori sono molto in collera con voi e per nulla disposti a continuare a finanziare le vostre stravaganze da fannullone depravato!! D’ora in poi, dovrete farvi bastare la vostra paga da Tenente!! La mia famiglia, d’ora innanzi, vi darà soltanto vitto e alloggio, due vestiti estivi e due vestiti invernali all’anno e le cure mediche. I miei genitori vi passeranno un modesto spillatico per le spese correnti, dell’importo che loro stessi vi comunicheranno e voi dovrete fornirci settimanalmente un minuzioso rendiconto!! I nostri soldi, però, dovrete guadagnarveli!! Quando non sarete impegnato col vostro reggimento, dovrete svolgere delle commissioni per i miei genitori e per me!! E badate bene che il vostro Comandante, che è un buon amico di mio padre, ci comunicherà i giorni e gli orari dei vostri turni di guardia!! D’ora in poi, dovrete renderci conto anche dell’aria che respirate e, al prossimo sgarro, sarete fuori, perché, se mi mancherete di rispetto un’altra volta, io chiederò la separazione per colpa e nulla vi sarà accordato! Sono stata chiara?!
Il Tenente de Ligne annuì con aria ebete e sguardo frastornato mentre la moglie strillava come un’aquila e lo saettava con occhi infuriati e spaventosi. Poco c’è di più esiziale della vanità e dell’orgoglio feriti di una donna brutta e dal cuore malvagio e il malcapitato lo stava sperimentando e lo avrebbe sperimentato a sue spese.
 
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Parigi, fine novembre 1811
 
Rosalie uscì dalla farmacia, sfregandosi le mani per scaldarsele e maledicendosi per avere dimenticato a casa i guanti. Le commissioni di fine mese non erano ancora finite e non poteva rischiare un’infreddatura, perché troppo aveva da fare e, fra meno di un mese, sarebbe stato Natale. Grande fu il disappunto della donna quando, svoltando nella via dove era ferma la carrozza di casa Jarjayes, vide che il cocchiere non c’era.
– Oh, questa poi! Lasciare così incustodita la carrozza! E se qualcuno avesse rubato i cavalli! Al ritorno, George mi sentirà!
Aprì lo sportello e salì nell’abitacolo, per posare polveri e medicine e trovare un po’ di tepore in attesa che il cocchiere si degnasse di tornare.
– Questa la riferirò sicuramente al Generale. Mi dispiace per George, ma l’ha fatta troppo grossa – borbottò mentre saliva sulla scaletta.
Entrata, guardò dritto davanti a sé e trasalì, le mani le tremarono e, per poco, non fece cadere a terra le medicine. Una donna era seduta nella carrozza. Era velata, ma la riconobbe immediatamente.
– Jeanne! – esclamò, senza nient’altro aggiungere.
– Rosalie – disse l’altra, con il sorriso furbo e divertito di chi riesce sempre a gestire le cose a suo piacimento.
– Questa sì che è una sorpresa… – mormorò Rosalie, dopo avere a lungo taciuto.
– Tutto qui? Non ci vediamo da oltre venti anni e queste sono le uniche cose che hai da dirmi? – la punzecchiò, ridendo, la sorella.
– Potrei iniziare col chiederti come ti è saltato in mente di farmi credere, per più di venti anni, che fossi morta – inveì la donna, col fiato spezzato – ma le sparizioni sono il tuo punto forte. Lasciasti casa nostra e ti dileguasti nel nulla, spezzando il cuore alla mamma!
Mentre Rosalie stringeva i pugni, due lacrime spuntarono improvvisamente e le rigarono il volto.
– Come se tutto ciò non bastasse, mi facesti frustare da quell’energumeno! – proseguì, ancora più alterata.
– Nicolas doveva soltanto spaventarti, per impedirti di tornare a Palazzo Boulainvilliers e smascherarmi, ma è sempre stato incapace di contenersi. Questa è la caratteristica che più mi piaceva di lui e che mi ha indotto a sposarlo! – disse Jeanne, con tono malizioso, iniziando a ridere di cuore – Perché, quanto a ingegno, invece, non era messo molto bene! Diciamo che a te è toccato il lato increscioso di Nicolas mentre a me quello interessante, ma sempre che di un bruto si trattava! – e scoppiò a ridere di nuovo.
– Ma che mi tocca sentire! – trasecolò Rosalie, arrossendo fino alla radice dei capelli.
– Siamo entrambe adulte e madri e i fatti della vita dovremmo conoscerli abbastanza bene, ormai! E, poi, la conversazione stava virando su un tono troppo melodrammatico per i miei gusti!
Detto ciò, tolse la forcina che fissava la veletta a uno dei lati del cappellino e si mostrò alla sorella a viso scoperto.
Rosalie sobbalzò. Jeanne era ancora bellissima ed estremamente giovanile… e molto simile a Bernadette… Lo stesso verde smeraldo le brillava negli occhi, gli stessi riccioli corvini facevano contrasto col bianco incarnato, lo stesso ovale del volto, le stesse dita affusolate, gli stessi tratti aristocratici! Ecco da chi aveva preso la figlia! Bernadette, però, aveva i lineamenti molto più morbidi e meno spigolosi e, soprattutto, aveva uno sguardo sereno e dolce e non perennemente inquieto e acceso da chi sa quale fiamma. Albrecht von Alois era identico alla madre, aveva persino lo stesso neo sullo zigomo sinistro che a Bernadette, invece, mancava. Nel complesso, però, i due ragazzi sembravano più fratelli che cugini.
– Ho visto tuo figlio… Ti somiglia molto…
– E io ho visto tua figlia che, invece, non ti somiglia affatto. E’ tutta sua zia!
– Non nel carattere, però, per fortuna! – ribatté Rosalie, stupendosi della propria prontezza di riflessi.
– Quest’affermazione è opinabile – protestò Jeanne.
– Sei sempre la solita! Narcisista, egocentrica e costantemente a caccia della frase a effetto che farà stupire l’uditorio! Posto che nessun amore sviscerato verso di me ti ha mai travolta, posso chiederti a cosa devo questo colpo di teatro?
Jeanne la fissò col suo sguardo intenso e carismatico che aveva stregato Principi e Duchi, Cardinali e Vescovi e che aveva spinto più di un uomo a battersi in duello per lei e, con la voce ferma e decisa di chi sa bene ciò che dice, rispose:
– Tua figlia è al sicuro, puoi stare tranquilla. Quell’uomo non la disturberà più, hai la mia parola.
– E tu come fai a…?
– Ho le mie risorse. Allora, pace fatta? Ne sarebbe felice pure Nicolas! – scoppiò a ridere come quando era ragazzina, di una risata a metà strada fra la sfrontatezza e il sincero divertimento.
– Come hai fatto a trovarmi e a salire su questa carrozza?
– E’ stato semplice, perché tu sei prevedibile. Fai sempre le commissioni a inizio o fine mese e sempre negli stessi posti. E’ bastato cercare la carrozza con lo stemma, aspettare che tu scendessi e inviare un monello di strada al tuo cocchiere, per dirgli che avevi trovato fila in farmacia e che lo pregavi di comprare dei croissant da Monsieur Duval… ovviamente a quattro isolati da qui. La carrozza, però, avrebbe dovuto lasciarla qui, perché tu avevi freddo, tanto ci avrebbe pensato lui a sorvegliarla. Non sgridarlo troppo, quando tornerà! Credeva di agire su tua commissione! – e proruppe in un’altra risata.
– Sei sempre la solita superficiale – brontolò Rosalie, con voce piccata – Invece di spedirlo a comprare croissant, avresti potuto mandarlo a comprarmi un paio di guanti!
Jeanne guardò le mani arrossate di Rosalie e sorrise.
– Sei sempre stata sbadata, sin da piccola. Più volenterosa e benintenzionata che attenta! Adesso, però, ti saluto. Il cocchiere starà per tornare.
Rosalie guardò la sorella scendere dalla carrozza e si domandò se l’avrebbe rivista di lì a poco, fra altri vent’anni o mai. Con una persona così imprevedibile, tutto era possibile.
Mentre Jeanne si allontanava, Rosalie, ansimando, la richiamò:
– Jeanne… grazie…
L’enigmatica Contessa si girò verso la sorella, la salutò con un cenno del capo e svoltò dietro l’angolo.
 
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Terme di Vichy, fine novembre 1811
 
La vita alle terme era tranquilla e rilassante, scandita da ritmi regolari e appuntamenti costanti. La mattina, le ragazze si svegliavano molto presto e, dopo una colazione leggera e veloce, si recavano allo stabilimento e bevevano un bicchiere d’acqua, operazione che ripetevano a intervalli fissi che si reiteravano per qualche ora. Poi, tornavano in albergo, desinavano e andavano a riposare. Il pomeriggio, erano di nuovo alle terme e riprendevano le pratiche salutari.
Per ingannare il tempo fra una bevuta e l’altra, era possibile fare delle passeggiate nei giardini o in paese, sedersi da qualche parte e conversare o ascoltare la musica che un’orchestra suonava in un padiglione di marmo nel parco.
Lo chaperon era un’anziana zia di Oscar che se ne stava sempre in albergo e le lasciava fare.
Di vivacità ce n’era pochissima anche perché i frequentatori erano quasi tutti più anziani delle ragazze, ma l’acqua curativa e le passeggiate stavano facendo bene a tutte e tre, specialmente a Bernadette che era molto più provata di Élisabeth Clotilde de Girodel, la cui stanchezza aveva ufficialmente giustificato il viaggio. Ciclicamente, Antigone rispolverava la motivazione ufficiosa di quella trasferta e, con l’appoggio di Bernadette, trovava mille pretesti per indurre l’amica a confidarsi e rendere note le motivazioni che l’avevano spinta alla rottura da Honoré.
– Sono le dieci e mezza del mattino e, finora, siamo riuscite a evitare Madame de la Roche – disse Antigone – Speriamo di avere la stessa fortuna per tutta la giornata! Ogni volta che ci vede, ci sequestra e ci elenca tutti i suoi acciacchi!
– Oh, no, siete spietata, Antigone! – rise Élisabeth Clotilde de Girodel – A me, Madame de la Roche è simpatica! E’ una cara vecchietta!
– Anche a me è simpatica – la rassicurò Antigone – ma ad almeno venti passi da me o anche a una distanza inferiore, purché stia bevendo l’acqua e abbia la bocca ben piena! E tralasciamo le due nipotine della Contessa de Clermont! Non fanno altro che fare baccano e capricci in gran quantità!
– Ma no! – replicò Élisabeth Clotilde – Sono delle bambine così dolci! Siete impossibile, Antigone, ne avete per tutti!
– Per tutti quelli che se lo meritano! – precisò la giovane figlia di Oscar – E Voi, Bernadette, cosa ne pensate?
Bernadette stava vivendo un periodo di insperata serenità. Da molti giorni, non stava pensando ai dolori del suo recente passato e la lontananza da casa e, soprattutto, dal Tenente de Ligne era, per lei, un toccasana. Era partita per le terme prima di conoscere la verità sulla Contessa de Lis e su Albrecht von Alois e, quindi, neppure quella parte di vita la turbava. A differenza di Antigone, era molto meno insofferente verso gli altri frequentatori delle terme e, tuttavia, decise di farla contenta.
– Oh, sì, quelle bambine sono graziose, ma davvero molto agitate e Madame de la Roche è una cara persona che, però, farebbe meglio a lamentarsi di meno!
– Oh, no! Il Marchese de Lyon si sta avvicinando a noi! Adesso, ci parlerà del suo mal di fegato! Povere noi, no! – sussurrò Antigone, fingendo di sorridere.
– Buongiorno alle tre grazie! – le salutò il Marchese – Questa mattina, mi sono svegliato con un terribile mal di fegato!
– E, allora, dovete affrettarVi a bere l’acqua termale, Signor Marchese! – lo esortò Antigone – Non ponete tempo in mezzo, se no, gli spasmi aumenteranno di intensità!
– Siete sempre così attenta al mio benessere, Contessina de Jarjayes et de Lille! – rispose il Marchese de Lyon – Se non fossi sposato e avessi quarant’anni di meno, Vi chiederei in moglie!
Antigone simulò un’aria riconoscente mentre, dentro di sé, doveva combattere per non imprecare e le due amiche si trattenevano a stento dallo sghignazzare.
Nel mentre, arrivò Madame de la Roche che iniziò a sciorinare al Marchese i suoi malanni mentre lui le parlava del suo mal di fegato. Approfittando della circostanza che i due seccatori si stavano disinnescando a vicenda, le tre ragazze svoltarono verso il padiglione musicale e, proprio in quel momento, l’orchestra iniziò a suonare un’aria di Bach.
Élisabeth Clotilde de Girodel divenne improvvisamente triste, sospirò e gli occhi le si riempirono di lacrime. Si trattava della stessa aria che lei e Honoré avevano suonato insieme durante la giornata musicale di un anno prima e che avevano provato per varie settimane. Quanti bei ricordi erano collegati a quel brano e quanto erano cambiate le cose in poco tempo!
– Io sono un’illegittima – sospirò, con un filo di voce, la ragazza.
– Che cosa?! – esclamò Antigone.
– Io sono un’illegittima – ripeté Élisabeth Clotilde – L’ho sentito dalle labbra di mia madre. Stava parlando con Vostra madre, senza sapere che io ero là. Mio padre… così lo considererò sempre… era morto da poco ed ella pronunciò queste testuali parole: “Era un genitore così amorevole e sollecito! Amava Élisabeth Clotilde come se fosse stato veramente il padre!”.
– E’ impossibile! – replicò Antigone – Vostra madre non avrebbe mai tradito il marito! E’ troppo retta, non ce la vedo! E se, per assurdo, l’avesse fatto, non l’avrebbe confessato ad alcuno, tanto meno a mia madre! Vi siete sbagliata, Élisabeth Clotilde, avete sentito male!
– Ho sentito bene, invece – gemette la giovane – Le parole erano proprio quelle. Tutti possono sbagliare e avere un momento di smarrimento, anche le donne in apparenza più integerrime.
Nell’udire queste parole, Bernadette avvampò vistosamente, ma, per fortuna, la giovane Girodel aveva gli occhi bassi e Antigone era troppo impegnata a fissare l’amica per accorgersi di lei.
– Io sono un’illegittima – proseguì Élisabeth Clotilde de Girodel – e, sebbene le mie origini ignominiose siano celate sotto la parvenza di una nascita onorevole, la vergogna ha marchiato il mio capo e si estenderà a chiunque volesse unire le sue sorti alle mie… Io non posso sposare Honoré e alcun altro… Questa primavera, mi ritirerò in convento…
Antigone e Bernadette si guardarono fra loro con gli occhi sbarrati e, poi, fissarono allibite l’amica, perché qualunque spiegazione si sarebbero aspettate tranne quella.
 
********
 
Versailles, Palazzo Girodel, dicembre 1811
 
Madame de Girodel guardava fuori della finestra, fissando un punto indefinito del cielo perlaceo dicembrino. Tentava di calmarsi, di mettere ordine nelle idee e di trovare le parole più adatte per affrontare quel momento che aveva sperato non sarebbe arrivato mai. Victor Clément era morto, portandosi via la speranza e la felicità e lasciandola sola di fronte alla resa dei conti.
– Non sei un’illegittima, Élisabeth Clotilde – disse, finalmente, voltandosi verso l’interno della stanza e guardando la figlia.
– Io… io… trovo questa situazione estremamente penosa… – balbettò la ragazza – Oh! Proprio non capisco perché Antigone non abbia taciuto – nel dirlo, batté una mano sulla spalliera di una poltrona e sospirò.
– No, mia cara, Madamigella Antigone ha fatto bene. Questa menzogna è andata avanti troppo a lungo. Tuo padre e io speravamo che non ci sarebbe stato bisogno di spiegazioni e che la verità non sarebbe stata scoperta, ma, intanto, la nostra vita era felice mentre a pagare il prezzo del silenzio sono state altre due persone. La nostra felicità era fondata sull’altrui dolore…
– Non comprendo – mormorò Élisabeth Clotilde – E, se mio padre… non era mio padre, io sono un’illegittima.
– Tu non sei un’illegittima – insistette, con voce ferma, Madame de Girodel. 
– Ho udito le Vostre parole quando discutevate col Comandante de Jarjayes ed esse non lasciavano adito ad alcun dubbio – protestò la ragazza – Io sono un’illegittima e qualunque unione con me recherà disdoro al mio sposo e alla famiglia di lui.
– Ti assicuro che non sei un’illegittima! – ripeté, non decisione, Madame de Girodel – Sei nata da un regolare matrimonio celebrato davanti a Dio!
– Ma se mio padre non era mio padre! – urlò, con voce rotta dal pianto, Élisabeth Clotilde.
– Neanche io sono tua madre – disse, con un filo di voce, Madame Henriette Lutgarde.
– Che cosa?! – esclamò, allibita, la giovane, con gli occhi sgranati e una lacrima che ancora le solcava la gota.
– Ti prego, siediti. Noi due dobbiamo parlare.
 
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Terme di Vichy, dicembre 1811
 
Bernadette ripose il foglio di carta sullo scrittoio e sorrise sollevata. Antigone le assicurava che era andato tutto bene, che Madame de Girodel ed Élisabeth Clotilde avevano avuto un chiarimento e che, ora, la ragazza era ufficialmente fidanzata con Honoré François de Jarjayes et de Lille. Le avrebbe spiegato tutto quando fosse tornata a casa, perché alcuni particolari erano così riservati da non poter essere affidati a uno scambio epistolare.
Dopo la disperata confessione accanto al padiglione degli orchestrali, Antigone aveva convinto Élisabeth Clotilde de Girodel a tornare a casa, per avere un colloquio chiarificatore con la madre. Tanto, peggio di così, non avrebbe potuto soffrire e qualsiasi spiegazione avrebbe perlomeno offerto l’indiscusso vantaggio di dissipare le coltri del dubbio.
Bernadette aveva approvato le parole dell’amica e si era detta disposta a fare i bagagli anche subito, ma Antigone l’aveva dissuasa dal seguirle. Di tutte e tre, Bernadette era la più stanca e magra e i segni della convalescenza erano ancora ben visibili sul volto di lei. Le due Contessine sarebbero tornate da sole a Versailles mentre Bernadette avrebbe protratto il suo soggiorno alle terme per portare a compimento la cura, tanto la presenza a casa di lei non era indispensabile.
La ragazza aveva salutato le amiche mentre salivano sulle rispettive carrozze insieme allo chaperon, alle cameriere personali e a una montagna di bagagli e, poi, era tornata alla sua vita di villeggiante termale. Si alzava di buon mattino, faceva colazione, si recava allo stabilimento, beveva a intervalli regolari, passeggiava, sedeva su una panchina, ascoltava musica, assorbiva le lamentele di Madame de la Roche, conversava col Marchese de Lyon dei vari rimedi contro il mal di fegato e si faceva amabilmente tiranneggiare dalle nipotine della Contessa di Clermont.
Col passare dei giorni, aveva maturato la convinzione che sarebbe stata quella la vita che avrebbe condotto per sempre, rimanendo una presenza discreta e gradevole, ma non indispensabile. Avrebbe continuato a essere la lettrice del Re e della Regina, occupazione che, peraltro, le piaceva molto e sarebbe stata presente per chiunque. Avrebbe discusso con gli anziani dei loro acciacchi, si sarebbe fatta amabilmente tiranneggiare dai figli di Honoré e di Antigone e, un giorno, forse, avrebbe preso il posto della madre come governante di Palazzo Jarjayes. Avrebbe avuto una vita comoda e tranquilla, al riparo da ogni necessità e da tutti i pericoli e le brutture che la malvagità umana le aveva riversato addosso.
Guardò di nuovo la lettera di Antigone, sorrise, la ripose al riparo da occhi indiscreti, indossò il mantello e uscì dall’albergo, diretta verso le terme. Avrebbe avuto una vita serena e sicura, ma condotta ai margini di quelle degli altri, quale spettatrice della felicità dei suoi amici.
Il cuore della ragazza esplodeva dalla gioia per la contentezza e il successo dei suoi cari e nessuna invidia o malevolenza lo adombrava, ma parallelamente ella avvertiva che tutto ciò che sarebbe stata era lo specchio del benessere altrui, un’eterna aiutante che mai sarebbe stata protagonista e, forse, era più di quello che meritava.
Fuori dell’albergo, la nebbia era fitta e la giovane si strinse nel mantello. Era volata troppo in alto, ma con ali che erano di cera e, quando era giunta eccessivamente vicino al sole, aveva finito per bruciarsele, proprio come Icaro. Era precipitata ed era sopravvissuta, ma con le ossa tutte rotte. Ora, era merce avariata, segnata e traumatizzata da esperienze che avevano estirpato da lei fiducia e giovinezza e che l’avevano lasciata disincantata e apatica. Aveva giocato ai dadi col destino e aveva perso. Sarebbe stata sempre la cara e dolce Bernadette, eterna ospite di amici ricchi, avrebbe avuto in dono i vestiti smessi di Antigone e di Élisabeth Clotilde de Girodel e preso in prestito quelli nuovi. Le avrebbe viste andare all’altare coi loro amati, da una terza o quarta fila laterale mentre lei al Marchese de Saint Quentin aveva rinunciato ancora prima di tentare. Difficilmente avrebbe potuto sposarlo prima, figurarsi ora. Avrebbe goduto degli scampoli della felicità degli altri ai quali avrebbe dato tutta se stessa. Sarebbe stata una presenza rassicurante, discreta e gradevole, ma non indispensabile.
La nebbia era densa e Bernadette era grata a Dio per questo, perché nessuno ne avrebbe scorto le lacrime. Non era mai stata pretenziosa e, quando aveva puntato troppo in alto, innamorandosi di Robert Gabriel de Ligne, prima e del giovane Antoine Laurent de Lavoisier, dopo, lo aveva fatto in assoluta buona fede, per ingenuità e per un errore di calcolo, non certo per ambizione. Il cuore, invece, quello sì che era ambizioso, voleva dare e ricevere, palpitare, essere vivo e pieno. Dentro di sé, la ragazza capiva che una vita serena e protetta, ma ai margini della felicità degli altri, sarebbe stata estremamente inappagante e fonte di sicuro dolore. Avrebbe voluto amare ed essere amata, ma questa aspirazione era destinata a rimanere insoddisfatta. Il terzo amore, colui che l’avrebbe fatta palpitare più degli altri e che più degli altri sembrava pensato per lei, l’avrebbe anche fatta soffrire più degli altri, ormai aveva imparato. Appartenevano a due realtà diverse e lui, che aveva tutto, non avrebbe sposato una donna borghese, per giunta con un passato. Quando la madre avrebbe chiuso per sempre gli occhi, sarebbe rimasta l’unica della sua famiglia, sola in mezzo ad amici affettuosi e buoni del cui mondo non avrebbe, però, mai fatto completamente parte. La cara Bernadette, la dolce Bernadette, la fidatissima Bernadette, la povera Bernadette, ecco cos’era e cosa sarebbe stata.
Giunse, infine, in prossimità dello stabilimento termale, proprio nel momento in cui il sole si era ricavato un piccolo varco fra le nubi e aveva regalato alla nebbia una consistenza opalina.
Avvolta dalla caligine che ne sfumava i contorni del mantello, la sagoma di un uomo attendeva all’ingresso delle terme e sembrava guardare verso di lei. La ragazza provò una grande curiosità, ma nessuna paura e andò avanti con passo leggero.
– Voi! – esclamò, con sorpresa mista a gioia, riconoscendo nella figura maschile il Marchese Camille Alexandre de Saint Quentin.
– Vostra madre mi ha fatto sapere che eravate qui. Ogni tanto, ci scriviamo ed ella mi tiene informato sulla Vostra salute.
– Non lo sapevo…
– Quando mi ha comunicato che quello scellerato Vi aveva rapita e che la Vostra salute si era di nuovo guastata, una morsa mi ha stretto il cuore e ho voluto… ho dovuto vedere coi miei occhi come stavate… Perdonate la mia invadenza… Se sono stato inopportuno, ditemelo e andrò via…
– Inopportuno… non lo siete affatto… siete tutt’altro che inopportuno…  restate… – disse lei, con voce emozionata mentre tirava su col naso e sorrideva e, allo stesso tempo, piangeva, ma, questa volta, dalla felicità.
Lui le prese le mani e, sentendole fredde, volle scaldarle fra le sue. Lei gli sorrise e chiuse gli occhi, per fermare quell’attimo nella mente e nel cuore e custodirlo in eterno.
– Posso scrivere anche a Voi? Di tanto in tanto… e come amico…
– Sì! – rispose lei, piangendo e ridendo simultaneamente – Sì! Sì!
 
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Reggia di Versailles, dicembre 1811
 
Alla reggia, era stato organizzato un ricevimento per celebrare il successo delle due operazioni che avevano portato al ritrovamento del tesoro dei giacobini e di quello dei Cavalieri di Malta.
Erano presenti il Re e la Regina Consorte Margherita, in patria e prima del matrimonio conosciuta come Edelweiss Margarethe von König, la Regina Madre Maria Antonietta e tutti i membri della famiglia reale e della corte: Madame Royale e il marito, il Duca d’Angoulême il cui matrimonio era rimasto sterile, Madame Élisabeth e i Conti di Provenza e di Artois, ormai vedovi mentre erano morte da diversi anni le tre figlie di Luigi XV.
C’erano la Principessa di Lamballe, la Marchesa de Tourzel, il Conte di Fersen e il Vescovo de Talleyrand Périgord. Presenziavano anche Geneviève d’Amiens col figlio e il fidanzato, il Colonnello de Valmy, Madame de Girodel e i due figli e, naturalmente, il Conte e la Contessa de Jarjayes, Oscar, André e famiglia.
Il Re non si era mai ripreso del tutto dalle conseguenze della sua lunga e travagliata prigionia ad opera di Napoleone. Fisicamente, aveva diversi acciacchi e, psicologicamente, gli erano rimaste delle fragilità, messe a dura prova dagli impegni di governo e dalla difficile situazione economica del regno cui si cumulava l’instabilità internazionale provocata da Bonaparte. Il matrimonio, però, gli aveva donato una serenità che, prima, non aveva.
Honoré ed Élisabeth Clotilde de Girodel si erano fidanzati ufficialmente ed erano al settimo cielo. La ragazza stava vivendo un momento felice, ma complicato, perché aveva iniziato a gestire la nuova consapevolezza sulle sue origini. Dopo il matrimonio di Luigi XVII, la Regina Maria Antonietta si era stabilmente trasferita al Petit Trianon e, in quell’angolo meraviglioso e appartato, lontano da occhi indiscreti, lei e il Conte di Fersen stavano frequentando la ragazza come figlia e non più soltanto come dama di compagnia. La Regina e il Conte erano felicissimi anche se un po’ impacciati, Madame de Girodel sapeva che quello che stava accadendo era giusto, ma, in cuor suo, avvertiva una punta di gelosia per la maternità “usurpata” che si cumulava al dolore di una vedovanza mai accettata mentre Élisabeth Clotilde doveva fare coesistere le due famiglie, senza trascurarne o preferirne alcuna e, soprattutto, abituarsi mentalmente all’idea di avere quattro genitori.
Anche Antigone e Grégoire Henri de Girodel si erano fidanzati, ma, nel loro caso, Oscar e André avevano preteso che il matrimonio avvenisse non prima di due anni, perché, date le passate incertezze sentimentali della figlia, volevano che questa riflettesse approfonditamente e mettesse bene alla prova i suoi sentimenti prima di vincolarsi per tutta la vita.
Bernadette era ancora alle terme dove si stava lentamente riprendendo. Lei e il Marchese de Saint Quentin si erano congedati con l’impegno di scriversi regolarmente.
– Questa cerimonia è in tuo onore, Oscar – disse il Generale de Jarjayes, fiero e impettito nei suoi ottantasei anni.
Era a riposo ormai da molto tempo, ma era ancora in forma per l’età che aveva.
– Sono felice del buon esito delle due missioni, Padre, ma non mi adagio sugli allori. Sono consapevole che la parte difficile deve ancora arrivare, perché lo scontro finale con Napoleone è imminente e sarà epocale. Soprattutto, esso produrrà un risultato netto e definitivo. O noi o lui. Il mondo non è abbastanza grande per tutti.
D’un tratto, il cerimoniere chiese agli intervenuti di fare silenzio, perché Sua Maestà doveva parlare.
Quando gli ospiti ebbero taciuto, il Re, con al fianco la Regina, prese la parola.
– Siamo lieti di ospitarvi qui, a festeggiare insieme a noi. Siamo consapevoli delle imminenti sfide che il regno dovrà affrontare. Ora, però, una felice stagione sta per affacciarsi, perché, in primavera, la Francia avrà un erede al trono!
La sala fu attraversata dal boato dei cortigiani che applaudivano e si congratulavano con la coppia reale. Il futuro si presentava pericoloso e incerto, ma quel momento, reso solenne dalle parole del Re e sottolineato dagli occhi raggianti della Regina, scaldava i cuori e predisponeva gli animi alla speranza.
   
 
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