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Autore: muffin12    24/12/2022    4 recensioni
"All you need is (love) coffee."
(Web)
CaféAU
Pairing: principale SakuAtsu - secondarie OsaSuna, BokuAka, KuroKen (cenni)
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutti!
 
Questa storia è la quarta e ultima parte di una serie scritta a due mani da me e LorasWeasley!

La serie si chiama Coffee Break ed è una caféAU e comprenderà:
 

​Auguro a tutti un felice Natale!

Buona lettura!


 

Crema di latte e caffè amaro
 
 
Il buongiorno si vede dal mattino.
 
Il mattino ha l’oro in bocca.
 
Sorridi alla vita e la vita ti sorriderà.
 
Erano frasi che Sakusa non aveva mai capito. Né accettato.
 
Sakusa aveva provato tantissime volte ad alzarsi dal letto ed essere positivo, anche troppe.
 
La sveglia suonava, lui apriva gli occhi e tentava con tutto sé stesso a non avere pensieri negativi, a rivolgersi al sole per il consueto e inutile buongiorno al mondo, a cercare di non innervosirsi per le nuvole grigio ferro che riempivano il cielo in stagioni a caso, evitando persino di imprecare contro le odiosissime tempeste estive che scoppiavano a tradimento.
 
Tuttavia, nonostante i suoi buoni propositi, le cose sarebbero rimaste miseramente statiche, senza accadimenti degni di nota positiva. Anzi, quelli erano i giorni giusti in cui chiunque – sua madre, suo nonno, Bokuto, il fottutissimo Motoya – avrebbe assunto come scopo della propria vita quello di rompergli i coglioni, come se non bastasse la pioggerellina fine che gli entrava nei vestiti nonostante l’ombrello.
 
L’errore era suo, alla fine.
 
Era lui che decideva coscientemente di rispondere alla chiamata di sua madre, sorridendo teneramente ascoltando la sua voce allegra un attimo prima che si trasformasse nel ringhio di un cane a tre teste chiedendogli, per l’ennesima volta, perché mai avesse scelto di andare a vivere da solo – cosa tristemente non vera - quando la loro casa aveva tre camere praticamente vuote, perché i suoi erano vizi, i soldi non cadevano dal cazzo di cielo e lei era stata sempre troppo permissiva verso di lui. Subito dopo veniva la rettifica: “Questa testardaggine l’hai presa dalla famiglia di tuo padre, sapevo che avrei dovuto cedere al biondino carino della classe accanto e non farmi abbind-!”
 
La chiamata terminava consigliandole un hobby e schiacciando il tasto di chiusura, mozzando in quel modo le sue filippiche fantasiose e guadagnandosi qualche ora di tranquillità. Dopo mezza giornata avrebbe ricevuto un messaggio passivo-aggressivo in cui sua madre sottolineava il proprio disappunto, condito comunque dalla promessa di umeboshi fatti in casa che avevano sempre il potere di riempirgli la bocca di saliva e rabbonirlo impunemente.
 
Era sempre lui che, invece, chiamava i suoi nonni, trovando la nonna costantemente impegnata tra le aiuole sempre piene di fiori bellissimi e il suo preziosissimo orto personale e il nonno – sordo e odiatore sano di apparecchi acustici – che faceva finta di capirlo per poi fargli ripetere la stessa frase per venti minuti di fila. Li adorava con tutto sé stesso, ma doveva imparare a cambiare l’orario della telefonata se non voleva arrivare in ritardo a lezioni, lavoro o allenamenti.
 
Sempre lui, inoltre, aveva scelto un lavoro pieno di casi da ospedale, più specificatamente da reparto psichiatrico. Persone che non avevano decenza e che non avevano voglia di combinare nulla che si mischiava a gente che, invece, era anche troppo entusiasta di lavorare, tanto da ignorare la sicurezza sul lavoro di base e decidere di arrampicarsi su delle maledette scatole per raggiungere il ripiano più alto degli scaffali del magazzino, ignorando totalmente la scala posta immediatamente accanto e facendo cadere qualunque cosa con un effetto domino che ancora sfidava i più grandi interrogativi dell’universo.
 
Soltanto Akaashi era riuscito a calmarlo abbastanza da riuscire a farlo rimanere nella stessa stanza con Bokuto senza tentare di ucciderlo, e non era nemmeno il suo turno di lavoro. Tuttavia, era diventato presto pensiero comune che la ferma decisione di Akaashi di essere la metà razionale – non sana di mente, quello no – della relazione che aveva deciso di intraprendere con Bokuto, lo innalzava di diritto a risolutore diretto dei problemi creati dal suo ragazzo.
 
E sempre e comunque lui aveva fatto l’errore più grande della sua vita, quello che avrebbe rimpianto nei secoli a venire, quello che lo faceva svegliare di notte sudato da far schifo e con il sangue gelido di terrore che vagava nelle vene:  vivere con Komori Motoya.
 
Suo cugino Komori Motoya. Il bastardissimo Komori Motoya.
 
Sarebbe stato tutto diverso se avesse preso un affitto da solo, esattamente come lo accusava sua madre. Nome singolo sul contratto di locazione, mobili scelti personalmente, pulizia impeccabile e un lavoro privo di malati mente. Perché anche quello era conseguenza di Motoya.
 
Ne avrebbe sicuramente giovato in sanità mentale e i suoi nervi non sarebbero stati perennemente logori. Li percepiva, invece, suicidarsi in piccoli scoppi ogni volta che Motoya cominciava a parlare – petto, orecchie, dita -, bastava una singola parola per essere assalito dalla voglia di prendere un cuscino e schiacciarselo su naso e bocca per raggiungere, finalmente, il buio tanto agognato.
 
Sarebbe stato un sogno.
 
Ma lui no!
 
Lui aveva dovuto pensare che la compagnia di Motoya sarebbe stata fondamentale.
 
Che la sua voglia di parlare in continuazione lo avrebbe liberato dal senso di solitudine e pazzia che talvolta lo assaliva, in special modo quando entravano insetti volanti/striscianti/camminanti dentro casa. Che con il suo aiuto avrebbe passato meno tempo a lucidare le posate spendendolo di più per sé stesso, che lo avrebbe spinto ad uscire, a socializzare per quanto possibile, ad attraversare il periodo universitario in modo più dinamico e meno oscuro.
 
Quante cazzate.
 
Motoya lo aveva spinto fuori di casa solamente per fuggire a gambe levate dalle sue ciarle inutili, dai suoi tentativi di flirtare con la lavatrice per convincerla ad azzeccare il lavaggio, dal cartone del latte riposto in frigorifero dopo averlo terminato e riempito, invece, di albumi crudi senza minimamente pensare di avvertirlo, dall’utilizzo specifico della tazza personale di Sakusa per scopi nefandi come trasportare girini pescati dal fiume vicino casa dei nonni in campagna per divertirsi ad analizzarne lo sviluppo.
 
Sakusa aveva già Motoya come animale domestico. Non ne voleva altri nella sua casa, era stato categorico.
 
Giroro il girino, comunque, era cresciuto sotto i loro occhi incuranti fino a mostrare un lieve accenno di zampe posteriori. La scoperta aveva scatenato il puro panico ed erano corsi al primo negozio di animali specializzato in anfibi per comprargli un dannato acquario ed informarsi sull’ambiente migliore per la sua crescita e la sua vita.
 
Era stato un giorno di umiliante sconfitta, quello. L’unica consolazione era stato costringere Motoya a tornare al fiume dai nonni per recuperare l’acqua e la vegetazione necessaria.
 
Di conseguenza, Sakusa non si aspettava nulla dalle mattine.
 
Come al solito, la sveglia avrebbe suonato – la suoneria da lui scelta, Fuck You di Lily Allen, sarebbe stata cambiata da Motoya con una particolarmente umiliante, come Surfin’ Bird dei The Trashman ad esempio, in uno scherzo che suo cugino faceva non perché lo trovasse divertente, capì immediatamente Sakusa, ma in un disperato tentativo di richiesta di essere picchiato a sangue -, lui avrebbe aperto gli occhi e la giornata avrebbe fatto automaticamente cagare. La scelta musicale impostata a tradimento da Motoya stava semplicemente a significare la quantità di schifo che avrebbe dovuto affrontare nelle ore successive.
 
Acqua calda che terminava a metà del risciacquo dallo shampoo durante la doccia, phon personale privo di diffusore per chissà quale astruso motivo, lavatrice avviata mentre consumava il suo tempo in bagno – spiegando così la scomparsa dell’acqua calda – e caffè terminato.
 
L’ultimo, se possibile, era la cosa che lo faceva infuriare maggiormente.
 
Perché la pulizia del proprio corpo provato era la base della sua vita, quello che lo mandava avanti nonostante tutto, ma il caffè era la linfa vitale necessaria per poter essere umano. E c’era una differenza abissale.
 
Poteva lavarsi a pezzi. Scomodamente, fastidiosamente, con un livello di furia tale da non poter essere descritto, ma comunque sarebbe stato soddisfacente. L’assenza di caffè nella loro cucina – e nelle sue vene -, invece, avrebbe significato l’Apocalisse.
 
Avrebbe potuto consumarne uno solamente una volta raggiunto il lavoro, avrebbe dovuto sentire prese in giro riguardo la sua – inesistente e decisamente appagante in quel modo – vita sessuale da parte di persone di cui non avrebbe voluto nemmeno conoscere il nome e di cui, invece, era a conoscenza anche l’indirizzo di casa – contro la sua volontà -, avrebbe dovuto rispondere a domande a cui non voleva dar seguito – già, avrebbe dovuto. Non era detto che sarebbe successo, ma aveva scoperto nella maniera peggiore che i silenzi non funzionavano né con Suna né con Kuroo, quindi decideva al momento la cattiveria da sibilare in base al proprio livello di irritazione.
 
Di conseguenza, una mattinata di tale portata lasciava una serie di tasselli liberi di posizionarsi male su una tavola d’esposizione già traballante di suo, fino alla completa realizzazione di quello che sarebbe stato un mosaico di merda.
 
Ma, a dispetto di tutto, quella giornata non iniziò così.
 
Quella mattina, Lily Allen invitò un idiota a guardare nella propria mente ristretta e Sakusa non riuscì a vedere nulla di più roseo di una giornata perfetta.
 
Komori dormiva ancora. Non avvertiva alcun suono molesto provenire dai meandri della casa, rumore inutile di padelle che sbattevano, raschiare di sedie sul pavimento, televisione accesa ad un volume odioso. Nulla.
 
Il bagno era libero, completamente nel pieno delle facoltà calorifere dell’acqua calda sanitaria e il diffusore era già posizionato nel becco del suo phon, in attesa solo di essere utilizzato.
 
Il latte era veramente latte, le uova erano decisamente al loro posto, il caffè riempiva un intero scaffale.
 
Preparò la propria colazione e terminò tutto con gusto. Prese il mangime personalizzato per pesci e diede da mangiare a Giroro. Riuscì anche ad accettare tranquillamente il suo guardarlo con quegli occhietti francamente inquietanti, dandogli dolcemente il buongiorno e non giudicando quella scusa di zampe posteriori che lo facevano sembrare un Muppet uscito male.
 
In uno sprazzo di buonismo, preparò un cappuccino anche a Motoya. Lo decorò con del cacao lasciando l’impronta di una piccola mano con il dito medio alzato, perché gentilezze del genere erano importanti.
 
L’autobus per andare al lavoro era vuoto. Nessun estraneo sudicio che lo spingeva, lo toccava, gli sbatteva contro ad ogni frenata, niente di niente. La mascherina sulla bocca mantenuta per semplice tranquillità.
 
Trovò addirittura Suna al bancone principale intento a pulire la macchina del caffè e il bollitore, la sala ancora completamente vuota per l’attesa dell’apertura.
 
Ecco, questo forse avrebbe dovuto allarmarlo almeno un minimo. Ma la striscia positiva aveva influenzato i suoi sensi ottimisticamente: non avrebbe potuto vedere un rinoceronte che caricava dall’altra parte del marciapiede puntandolo con cattiveria, figurarsi quello.
 
“Yo.” Salutò Suna alzando lo sguardo, le mani che lavoravano tra le macchine in modo certosino. “Sei in ritardo.”
 
Sakusa si accigliò, rimettendosi in piedi dopo essere passato sotto la serranda mezza abbassata. “Non lo sono.” Era sicuro di quello. Lily Allen sfanculava la gente ad un orario preciso, non si sarebbe mai sbagliato su cose del genere.
 
Suna alzò le spalle, lasciando perdere il bollitore per passare a tazze e bicchieri. “Come ti pare, puoi coprirmi per …” Guardò il cellulare e schioccò la lingua. “… un’oretta? Due? Un’ora e mezza. Dopo però, non ora.”
 
“No.” Sakusa lo sorpassò, l’umore che cominciava ad ingrigirsi. Era naturale: Suna che chiedeva favori era uno dei primi segnali dell’Apocalisse, l’avvertimento distratto di disastri di proporzioni epocali, l’inizio della fine. Suna non chiedeva favori, l’intero sistema di Suna era progettato per ricattare affinché potesse ottenere ciò che era sua precisa volontà senza impegnarsi in altro, spesso in modi più o meno legali ma comunque troppo imbarazzanti per poter avanzare denunce di vario genere.
 
Sakusa ancora ricordava la foto che Suna aveva scattato a tradimento quella volta che un suo riccio si era modellato nel sonno in posizione perpendicolare alla sua intera testa, sembrando in tutto e per tutto un Teletubbies incazzato con la sua antenna oscena. Non c’era stato verso né di abbassare la ciocca né di rubare il cellulare di Suna per fargli fare una fine orrenda, quindi l’esistenza di detta foto aleggiava sul suo capo come una nuvola particolarmente infame.
 
“Andiamo.” Suna prese biscotto con un tovagliolo e glielo porse con un sorriso poco raccomandabile. “Poco tempo, nemmeno ti accorgerai che non ci sarò.”
 
Poteva crederci. Suna aveva l’abitudine di togliersi il grembiule e sedersi nei tavoli dalle posizioni tattiche, dondolando sulla sedia e gustandosi i suoi colleghi che si facevano in quattro durante l’ora di punta. Se ne accorgevano sempre troppo tardi e, nel momento in cui alzava il sedere per dare una mano, faceva presente che il suo turno era sempre magicamente terminato.
 
Sakusa guardò il biscotto con espressione truce, ignorandolo per raggiungere il bancone. “Dove devi andare di così importante?”
 
“In cucina, in realtà. Passo un’ora con Kageyama e cerco di convincerlo a preparare meringhe italiane senza motivo.”
 
Sakusa aggrottò lo sopracciglia, non capendo. “Perché?”
 
“Sii sincero, da quando te ne frega qualcosa?” Lo vide sogghignare, inclinando la bocca di lato in un aspetto per niente rassicurante. Mise il biscotto tra i denti mordendolo incurante. “Allora? Mi copri o no?”
 
“No.” Decretò Sakusa, entrando nell’area dipendenti e appuntando mentalmente di segnare il dolce sul conto aperto di Suna.
 
Lo sentì ridacchiare mentre chiudeva la porta, lamentandosi senza nervo giusto per dare aria alla bocca e non gli diede troppo peso. Tolse la mascherina, sentendo nelle viscere di non averne bisogno quel giorno.
 
Suna avrebbe sicuramente trovato qualcun altro per sostituirlo durante quell’ora, ma almeno Sakusa avrebbe avuto a sicurezza di una mattinata tranquilla.
 
Già.
 
Tranquilla.
 
 

*

 
 
Il campanello d’entrata annunciò un nuovo cliente.
 
Inutilmente, capì Sakusa nel modo più duro. Si sarebbe annunciato tranquillamente da solo.
 
“Sunarin, grandissimo infame, ecco i tuoi appunti di merda e non rompere più i co …  oooh!” Sakusa alzò gli occhi insieme a metà locale, osservando con sguardo truce il primitivo che aveva deciso di dare spettacolo alle 8.26 di mattina.
 
Biondo troppo strano, base scura, faccia da schiaffi e nemmeno un accenno di imbarazzo. Lo guardava con occhi enormi andando su e giù per tutto il suo busto, ricominciando da capo ogni volta che si ritrovava bloccato dalla presenza del bancone. Se non ci fosse stato, Sakusa era sicuro che avrebbe scrutato qualsiasi cosa su cui fosse riuscito a poggiare gli occhi. Si irritò automaticamente. “Mi scusi?” Domandò quindi con tono seccato, alzando un sopracciglio in un muto invito dal farlo desistere dal continuare.
 
Sembrò funzionare. Il tizio rimase in silenzio.
 
Restò anche completamente immobile in mezzo all’ingresso e, seriamente, doveva togliersi di lì. Intralciava il passaggio. Decise che poteva essere un tantino meno aggressivo. “Posso esserle utile in qualche maniera?”
 
“Sì.” Uscì fuori gracchiato. Il tizio si schiarì la voce e la faccia da ebete assunse un’espressione di compiaciuta malizia, avvicinandosi al banco bar con passo baldanzoso spostando gli occhi sul suo petto come alla ricerca di qualcosa. Sakusa lo vide appoggiarsi al piano con aria strafottente, inclinandosi con un gomito in un modo che avrebbe dovuto essere affascinante. Non lo era. “Sì, potresti darmi un’informazione?”
 
Sakusa assottigliò lo palpebre ma annuì lentamente, già pentendosi. Quello allargò di più il suo ghigno. “Come ti chiami?”
 
Ed eccolo lì, il momento preciso in cui tutto andò in frantumi.
 
Una mattinata fantastica buttata letteralmente nel cesso per una domanda nemmeno troppo originale – e nemmeno schifosa, a dire il vero. Anonima. Normale. Piatta.
 
Non accettata.
 
La fulminea consapevolezza che pochi attimi prima il tizio stesse cercando la targhetta con il suo nome per quel motivo preciso lo portò ad imprecare internamente. “Signore, preferirei che non mi dia del tu.” Trattenne un sospiro nei suoi polmoni, perché aveva la chiara sensazione che sarebbe stato preso come una vittoria immeritata. “Vuole sapere altro?”
 
“Sai, è buffo.” Di nuovo, confidenza senza diritto. “Ti guardo e mi chiedo quanto sarebbero belli i nostri figli.”
 
Sbuffò, decidendo di cominciare a preparare il frappuccino ordinato dal tavolo in fondo unendo l’utile con il non dilettevole. “Pensiero sterile.”
 
Quello lo guardò sorpreso per un secondo. “Perché siamo due uomini?”
 
“Perché non la farei avvicinare abbastanza per testare la sua teoria.” Gli diede le spalle per caricare il monta latte e sentì un prurito in mezzo alle scapole. Scoccò un’occhiata al di sopra della sua spalla e sì, lo schifoso gli stava puntando il sedere. “Tra le altre cose.” Sibilò, girandosi e guardandolo malissimo.
 
Il tizio gli fece un sorriso storto, nemmeno un grammo di pentimento. “Potrei sorprenderti.”
 
“Ne dubito.” Sentì improvvisamente la mancanza della mascherina. Si maledisse per essersi fidato di sensazioni completamente sbagliate. “Se non ordina nulla può tranquillamente accomodarsi fuori dal locale.”
 
“Oooh, ma sono qui per ordinare.” Lo guardò, gli occhi socchiusi ed espressione compiaciuta che urlava diffidenza da lontano. “Cosa avete di buono?”
 
“C’è scritto nei menù.” Masticò Sakusa, prendendo un bicchiere grande con gesto brusco.
 
“E dove sono i menù?”
 
“Su ogni tavolo.” Sbatté il boccale sul piano e prese un respiro profondo. “La invito a sedersi e scegliere con calma, tra qualche minuto arriverà qualcuno per le ordinazioni.”
 
“Verrai tu?” Ammiccò quando lo chiese. A Sakusa prudettero le mani. “No, i miei tavoli sono tutti completi.”
 
Lo vide mettere entrambe le braccia sul bancone, incrociandole piano e piazzando quella faccia da schiaffi sull’avambraccio più esterno. “E non puoi fare un’eccezione per me?” No. Non lo pagavano abbastanza per avere a che fare con molestatori del genere di prima mattina.
 
“Seguiamo una rigida divisione delle mansioni e delle sezioni.” La cazzata del secolo dal momento che Hinata riforniva regolarmente il ragazzo di Kuroo di torta di mele e bevande infantili uscendo dalla cucina ed entrando direttamente in sala coperto di farina, mentre Akaashi si appropriava dei fornelli ogni volta che era il suo turno per il “rischio del giorno”. Sakusa di solito non mentiva, ma doveva essere sincero: se avesse funzionato non si sarebbe pentito di nulla, men che meno della propria integrità.
 
Seppe di aver fatto un errore enorme quando vide il tizio sogghignare e alzare le sopracciglia con sicurezza. “Vorrà dire che questo diventerà la nostra cosa.” 
 
Questo cosa?” Gli sfuggì in un attimo di debolezza mentale. Sapeva che se ne sarebbe pentito.
 
“Lo sai, questo.” Abbassò le palpebre su quegli occhi da idiota e si portò indietro i capelli. “Avremo il nostro vis à vis qua al bancone e cercherò ogni volta di capire come è possibile che tu sia quasi più attraente di me.”
 
Perfetto. Altro che mattinata, l’intera giornata era ormai interamente da buttare.
 
Sakusa digrignò i denti, sbuffando forte dal naso e ingoiando un’imprecazione che avrebbe incendiato la sua anima nera. “Il suo ruolo di cliente non prevede libertà di questo genere.” Sibilò, stringendo tanto forte il vetro del bicchiere da pensare che potesse rompersi in ogni momento. “Prego, scelga un tavolo e aspetti che qualcuno venga a servirla.”
 
“Lo farai tu?”
 
“Dannazione, sì se mi lascerai lavorare in pace!”
 
“Ah-ha!” Il tizio rise, pieno e sentito e Sakusa soffocò la voglia di lanciargli il bicchiere in faccia. “Sapevo che stavi immaginando il mio omicidio dentro quella testolina riccia!”
 
“Fidati, ho molta poca immaginazione e più intenzioni reali.” Uscì talmente terrificante che quasi non riconobbe la propria voce, ma quello rise solo di più, tenendosi la pancia e accomodandosi al tavolo all’angolo in fondo al locale, quello che dava piena vista al bancone.
 
Fu irritante operare con la sensazione costante di essere osservati.
 
Puliva dei bicchieri da gocce d’acqua insistenti e un brivido correva su per la spina dorsale. Cercava di decorare un cappuccino con il latte schiumato e all’improvviso prudeva qualcosa di irrisorio in modo molto aggressivo, come la fronte appena sopra sopracciglio o la zona del collo poco sotto l’orecchio. Tentava di sistemare tutte le preparazioni su un vassoio e un pizzicore lo attaccava proprio in mezzo alle scapole.
 
Non pago, ogni volta che alzava lo sguardo gli occhi di quel tizio erano fissi su di lui, ad osservare ogni mossa e a rispondere ad ogni suo aggrottamento di sopracciglia con un sorrisone storto e decisamente allusivo. Era a dir poco snervante.
 
Sperò che ignorarlo potesse funzionare e che, vedendo che Sakusa non aveva la minima intenzione di servirlo nel breve periodo, fosse spinto ad andarsene per mai più ritornare, ma quello si sistemò solo meglio sulla sedia – ancora, dannazione a Takeda-san e la sua mania di comodità cortese, davvero ragazzi, dobbiamo coccolare i clienti che lo spinse a decidere di acquistare poltroncine talmente comode da sembrare di star seduti su delle nuvole -  e lo invitava a prendersi il suo tempo con l’espressione più odiosa su cui Sakusa avesse mai poggiato gli occhi.
 
Fu con molto dispiacere che si rese conto della conclusione di tutte le proprie mansioni. Un affronto senza uguali, considerando che di solito sembravano appestargli la vita quando meno ne aveva bisogno.
 
Con la morte nel cuore e una stilla di istinto omicida che gli fioriva nel petto, prese tutto il necessario per un servizio al tavolo della massima professionalità.
 
“Belle gambe.” Il sorriso del tizio biondo chiedeva pugni, la sua uscita deplorevole confermava la sensazione. “È stato un piacere vederle andare in giro fino ad ora.”
 
“Persone sono state denunciate per molto meno.” Sibilò Sakusa afferrando meglio il block notes e impugnando stretto la penna. “Cosa vuoi?”
 
“Conoscere il tuo nome. È possibile?”
 
“Consiglierei di limitarti alle scelte scritte nel menù.” Le sue palpebre si strinsero nel momento in cui il sogghigno del tizio si allargò solo di più. “Cosa mi consigli allora?”
 
Sakusa odiava quella domanda, dal profondo del suo essere.
 
Non concepiva come qualcuno potesse fidarsi dei gusti di un emerito estraneo per qualsiasi cosa, dalla scelta dei pasti al dannato taglio di capelli: se avesse voluto qualcuno che riuscisse fregiarsi di tale potere,  avrebbe scelto di trascorrere un orrendo weekend a casa dei suoi genitori, passando lunghe e tediose ore ad ascoltare l’elenco interminabile di sua madre riguardo tutte le cose sbagliate che Sakusa stava facendo della sua vita secondo il suo modestissimo parere, il tutto contornato dalla risatina occasionale di suo padre e dal suo mugugno accondiscendente ogni volta che veniva interpellato.
 
“È tutto ottimo.” Borbottò quindi, sospirando per l’ennesima volta. “Chiudi gli occhi e punta una cosa a caso.”
 
Lo vide scrutare il menù con sguardo distratto e alzare le sopracciglia dopo aver scorso le righe, improvvisamente interessato a qualcosa. Sakusa sperò che l’incubo fosse finito. “Cos’è il ‘rischio del giorno’?” Si ritrovò ad imprecare sentitamente tra sé e sé. 
 
Ottimo, l’unica cosa su cui non doveva concentrarsi e, naturalmente, lo aveva fatto. Una spina nel fianco fino all’ultimo.
 
Strinse le labbra, schiacciando una fantasiosa maledizione tra i denti. “Non ti piacerà.” Gli assicurò secco, l’espressione più convincente di cui era capace stampata su tutto il viso. “Vai avanti.”
 
“C’è scritto in rosso ed è evidenziato tipo venti volte, ha la mia curiosità.”
 
“È l’avvertimento per i deboli di cuore.”
 
“Il mio cuore pompa una meraviglia.” Quello alzò gli occhi e lo occhieggiò da sotto le ciglia. “Ti guardo e ho quasi paura che riuscirai a sentirlo fino a lì.”
 
“Consiglio una visita cardiologica, allora.” Lo vide ridacchiare e mettere da parte il menù, sistemando i gomiti sul tavolo e poggiando il mento sulle mani unite. Le palpebre erano basse sugli occhi castani, supponenza mista a dispetto che lo portò a sperare di finire la giornata di lavoro in quel momento preciso e di materializzarsi nella sua casa possibilmente vuota. “Rischio del giorno, prego.”
 
Se c’era una cosa che Sakusa concepiva ancor meno del mettersi nelle mani di uno sconosciuto, era un salto nel buio.
 
Il rischio del giorno era quanto di più buio potesse esistere in quel locale e, a volte, ancora si trovava a cercare di far desistere le persone dal compiere quella determinata scelta - magari dopo una valutazione superficiale del cliente in oggetto e la conclusione immediata che, davvero, non gli sarebbe piaciuto quello che aveva programmato Kuroo per quel giorno.
 
Mentre alcuni andavano comunque avanti per la loro strada, ritrovandosi a fare colazione con krapfen farciti con ketchup o tramezzini ripieni di salmone e cannella accompagnati da centrifughe oscene – divertiti e a volte disgustati, ma non sempre in grado di terminare tutto. Tuttavia, la liberatoria che veniva presentata e firmata all’inizio era chiara: andava pagato comunque come punizione per le loro deprecabili decisioni. Sakusa si ritrovava a guardarli orripilato tentare di non vomitare, sperando uscissero in strada piuttosto che insozzare i servizi -, altri cedevano e si votavano alle classiche scelte in programma, confermando così la prima impressione e salvandosi da una mattinata ad amoreggiare con il water.
 
Non voleva passare le ore a disinfettare il bagno per una scelta fuori luogo: era stufo della stupidità del mondo.
 
“Perché prendere qualcosa di cui non conosci la natura?” Si ritrovò a domandare di getto, l’orrore di quella decisione talmente forte che non capì perché lo disse realmente ad alta voce. Il tizio lo guardò stupito. “C’è scritto solo ‘rischio del giorno’, evidenziato e segnato di rosso. Cosa ti porta a scegliere esattamente quello?”
 
“Sono ragionevolmente certo che non mi avvelenerete con candeggina o altro.” Sakusa scosse la testa scocciato, inspirando forte. Ovviamente non lo avrebbero intossicato con qualcosa di chimico, ma le combinazioni inventate in quella cucina avrebbero sterminato degli scarafaggi quando un’esplosione nucleare li avrebbe solo solleticati un po’.
 
Il tizio sembrò capire qualcosa. “Senti, cosa può succedere di male? Che non mi piaccia?” Lo vide alzare le spalle, buttandosi sullo schienale morbidamente. “Prenderò un’altra cosa, allora, pagherò comunque tutto. Ma voglio provarlo.”
 
“È qualcosa che può condizionarti la giornata.”
 
“È uno spuntino, nemmeno il primo che faccio.” Sorrise, compiaciuto per chissà che cosa. “Penso andrà bene.”
 
“Non sai in cosa consiste, non sai che ingredienti ci sono, non sai nulla di questa cosa.”
 
“Me lo spiegherai tu.” Ed ecco dove sbagliavano i più. Si fidavano delle spiegazioni.
 
Sakusa prese un foglio piegato da dentro il block notes, lo aprì e glielo mise davanti, insieme a una penna a sfera. Quello lo guardò come se gli fossero spuntate due teste. “Che ci devo fare?”
 
“Sono contrattualmente obbligato a farti firmare uno scarico delle responsabilità.” Gli spiegò asciutto, facendosi realmente occhieggiare stupito. “Il rischio del giorno è un’opportunità suicida per gustare un accostamento di cibo e bevande preparato ogni giorno da un dipendente diverso, scelto con frequenza randomica da una app maledetta e demoniaca.”
 
“Oh.” Mormorò solamente quello, il pensiero di leggere quanto scritto neanche a sfiorarlo. “E oggi è il turno di …?”
 
“Lo sappiamo solo noi, come sappiamo solo noi in cosa consiste questo rischio. In caso di allergie o intolleranze, hai firmato il foglio, quindi una volta terminato di mangiare puoi avviarti tranquillamente al cimitero.”
 
“Posso rimandarlo indietro?”
 
“Puoi.” Confermò lugubre. “Ma ti verrà comunque addebitato: sai a cosa vai incontro nel momento in cui firmi, è una tua completa responsabilità.”
 
Non capì perché quello lo guardò in quel modo: palpebre basse, sogghigno sfrontato e sopraciglia alte di sufficienza. Lo vide sospirare forte, prendendo la penna morbidamente e, mentre la punta scorreva libera sulla carta, soffiò con convinzione “Sai, ci sono metodi molto più veloci per sapere come mi chiamo.”, cosa che accese i nervi di Sakusa come un falò.
 
Quello schioccò la lingua, ammirando la propria firma senza aver letto nemmeno una parola della liberatoria, porgendogli foglio e penna con gesti fluidi e troppo sicuri. “Chiederlo, ad esempio. Ti assicuro che ti avrei dato ben più del mio nome.” Gli fece l’occhiolino e Sakusa gli strappò il documento di mano, lasciandolo con la penna a mezz’aria come un idiota. 
 
Non sopportava le persone come lui, così piene di sé e baldanzose.
 
Gli avrebbe fatto benissimo affrontare il turno di Kuroo o Bokuto, ma oltre che odioso era anche fortunato: Kageyama cuoceva croissant degni di questo nome, dal colore bruno glassato e la pasta fragrante e alveolata, burrosi e morbidi da sciogliersi sulla lingua. Quel giorno erano farciti di crema al caffè e venivano accompagnati da latte macchiato decorato con cacao e granella di nocciole.
 
Sakusa stesso ne aveva richiesto una porzione per sé, quella mattina. La crema non era particolarmente dolce e Kageyama aveva questa abilità di riuscire a dosare la giusta quantità di espresso in modo da rendere la farcitura decisa e corposa, ma non così pressante da disgustare né troppo blanda da non avere il tipico aroma torrefatto che ci si aspettava.
 
Quando portò l’ordine al tavolo, strabordante di risentimento per la costante ingiustizia presente nella sua vita, la voglia di mordere il croissant davanti la faccia soddisfatta del tizio fu quasi fisica. Non lo fece solamente perché aveva la sensazione che quel gesto avrebbe significato una vittoria immeritata in chissà quale modo contorto.
 
“Beh, non mi sembra di essere in pericolo di vita.” Sentì dire con supponenza, mentre lo guardava girare un cucchiaino nella schiuma di latte bollente.
 
“Con un po’ di fortuna può andarti una nocciolina di traverso.” Sibilò Sakusa con sguardo stretto.
 
“Mi auguro che tu capisca qualcosa della respirazione artificiale,” Si leccò le labbra e Sakusa seguì l’azione con troppa concentrazione. “perché se non sono le noccioline, sarai tu a rubarmi il fiato.”
 
“Spero tu faccia una fine dolorosissima.” E quello rise, per niente toccato dal suo ovvio odio e dalla sua faccia rossa di rabbia. Perché era rabbia, quella, o imbarazzo di seconda mano.
 
“Mi chiedo come farai quando non mi vedrai più, allora.”
 
“I clienti sono come il mal di stomaco.” Spiegò asciutto, sperando una volta di troppo che la mascherina gli comparisse davanti alla bocca come per magia. “Vanno e vengono.”
 
“E ritornano.” Gli fece di nuovo l’occhiolino e a Sakusa prudettero le mani dalla voglia di prenderlo a sberle. “Io tornerò di sicuro.”
 
“Per favore no.”
 
“A proposito, amo questo flirt caratteristico ma devo chiederti veramente una cosa.” Sakusa lo vide piegarsi, sparendo dietro il tavolo per rovistare nel suo zaino. Dopo un paio di secondi, si rialzò con un paio di quaderni spessi tra le sue mani, sbattendoli sul piano con un tonfo arrabbiato. “Suna Rintarou lavora veramente qui o mi ha detto una stronzata?”
 

 
*

 
 
Miya Atsumu.
 
Era quello che era stato firmato su quel foglio, quel giorno. Sakusa aveva faticato a capirlo con quella scrittura secca e troppo svolazzante, ma alla fine fu un’imprecazione di Suna a compiere la magia.
 
Perché, ovviamente, Suna lo aveva raggirato: fermamente deciso di non voler vedere il suo compagno di corso – “È già brutto doverci fare i lavori di gruppo insieme, risparmiamelo.” -, era fuggito in cucina ad infastidire Kageyama, lasciando Sakusa in balia di molestatori seriali nonostante avesse chiaramente dichiarato di non volerlo aiutare. 
 
Per sua sfortuna, Miya tornò di nuovo negli orari più vari, cercando di capire i turni di Sakusa e riuscendoci in meno di una settimana, con suo sommo orrore.
 
La sua venuta veniva annunciata ogni volta da una battuta di dubbio gusto e accompagnata dalla promessa che avrebbe riconosciuto il rischio del giorno di Sakusa nonostante la bassa probabilità. “Sicuramente sarà qualcosa di poco fantasioso.” Gli aveva confessato una volta senza nemmeno troppa colpa quando Sakusa dichiarò il suo sicuro fallimento, nonostante in un mese fosse riuscito ad indovinare gli autori di quasi tutti i rischi che gli si paravano davanti.
 
Il turno di Sakusa non era ancora pervenuto e gli andava benissimo così: Suna aveva dovuto lavorare il triplo con il sorteggio del suo nome avvenuto per quattro volte consecutive. Il karma era una cosa bellissima.
 
Tuttavia, non gli piaceva quell’accusa. “Sei assurdamente sexy ma giochi sul sicuro.” Miya ampliò il suo sorriso e Sakusa aggrottò le sopraciglia. “Sarà facilissimo.”
 
“Non gioco sul sicuro.” Non ci giocava sul serio. Non avrebbe scelto di vivere con Motoya, tra tutte le persone, se fosse stato realmente una persona che giocava sul sicuro. Né avrebbe avuto un girino domestico con tutte le zampe posteriori sviluppate e un’idea di quelle anteriori in procinto di spuntare minacciando la sua tranquillità. Non avrebbe nemmeno continuato a lavorare con Bokuto senza tentare di ucciderlo facendolo passare per un incidente, a dirla tutta.
 
“Beh, dimostralo allora.”
 
Era una trappola. Lo intuiva con tutto sé stesso: tutte le sue cellule urlavano di non dargli corda, di scappare, di girare su sé stesso e cominciare a correre, ma i piedi rimasero bloccati sul pavimento e la bocca cominciò ad andare da sola. “Non vedo perché.”
 
“Perché altrimenti avrei ragione.” E sapeva che ci doveva essere una risposta arguta da qualche parte, lì nei meandri oscuri del suo cervello negativo, lo sapeva perfettamente. Ma si ritrovò a ringraziare solo per la mascherina che gli copriva la bocca stretta e ad artigliare le dita sui fogli del block notes consumato. “Non hai ragione.” Borbottò a bassa voce.
 
Vide Miya cominciare a scavare nella tasca del suo pantalone e tirare fuori qualcosa nella sua mano. “Testa o croce?” Domandò sicuro, facendogli vedere la moneta nel suo palmo.
 
“Vuoi davvero basarti su quello?”
 
“Testa o croce?” Ripeté deciso e Sakusa fece un piccolo passo indietro, non capendo. “Ti stai appoggiando su un calcolo di probabilità di merda per cosa, esattamente?”
 
“Testa, casa mia. Croce casa tu- NO! NON METTERE IL SALE NEL CAFFÈ!”
 
Non capiva perché ogni volta che Miya si annunciava, con la sua classica battuta squallida e lo scampanellio insistente della porta, aveva sempre meno voglia di sbatterlo fuori dal locale.
 
A guardare meglio il quadro generale, non faceva una singola cosa giusta: si fermava al bancone quando gli era stato espressamente ordinato di scegliere un tavolo e rimanerci, cercava di farsi gli affari di Sakusa attraverso tentativi di flirt mal riusciti e innocenti chiacchierate riguardo cose che ovviamente non gli interessavano, ordinava il rischio del giorno abitualmente e riusciva ad indovinarne l’artefice con precisione ogni giorno più allarmante. E aveva fatto amicizia con Hinata.
 
Non era una cosa strana, Hinata faceva amicizia con chiunque, soprattutto nei luoghi più strani. Ma vedere la faccia di Miya rischiararsi quando lo scorgeva affacciarsi dalla cucina … non sapeva perché, ma gli dava fastidio. E quando era infastidito, non era del suo umore migliore. E quando non era del suo umore migliore …
 
“Che palle Kiyo! Hai detto che volevi la soba per cena, mangia questa fottutissima soba!”
 
Motoya aveva preparato la tavola con bicchieri spaiati e mille utensili tra posate e bacchette, la ciotola di soba davanti i loro posti solo in attesa di essere mangiata. E per una volta sembrava veramente invitante, con quel colore nocciola preso dal grano saraceno e il condimento a parte di cipollotto e wasabi, l’odore del mentsuyu che gli aveva colpito le narici appena varcata la porta di casa. L’alga nori che la decorava in striscioline sottili, poi, gli fece venire immediatamente l’acquolina in bocca, ma …
 
“È Zaru Soba.” Sibilò, inspirando forte e cercando di invocare pazienza.
 
Motoya batté gli occhi. “E quindi?”
 
“Siamo in inverno e quello è un piatto estivo.”
 
“Non c’è una legge.” Guardò suo cugino sedersi al tavolo e spezzare le bacchette con un suono secco. “Puoi mangiarlo quando ti pare.”
 
“Ma è Zaru Soba.” Forse ripetendolo più volte avrebbe capito. Non era ottimista in merito, ma c’era sempre una prima volta.
 
Ovviamente non fu quella. “So come si chiama, l’ho ordinata apposta.”
 
“Non potevi prendere qualcosa di più caldo?”
 
“Ma volevi soba e io volevo questa.” Gli fece l’occhiolino e cominciò a mischiare alga e soba con impegno irriguardevole. “Compromesso.”
 
Non quando fra poco nevica.” No, non ce la poteva fare. Sapeva che non avrebbe vinto alcun combattimento contro Motoya, non aveva nemmeno abbastanza pazienza per tentare. Sospirò, ma non era ancora finita. “Esiste lo Yakisoba, il Kake Soba, la Tempura Soba. Ti piace la tempura, perché non hai preso quella?”
 
“Perché volevo Zaru Soba.” Spiegò Motoya lentamente, perché evidentemente credeva che quello stupido tra i due fosse Sakusa. “Non mi sembra difficile Kiyo, siediti e mangia.”
 
Perché doveva affrontare quello ogni giorno?
 
Lavoro, casa, università, nulla si salvava dal mettergli davanti giornate oscene. Solo gli allenamenti avevano il potere di tranquillizzarlo: entrare nella palestra e cominciare a scaldarsi, allenarsi, giocare a pallavolo era l’unica cosa che lo faceva andare avanti. Pallavolo e Giroro, che girava in tondo in quell’acquario troppo piccolo con le sue gambine appena nate facendogli una pena immensa. Si premurò di comprargli presto una casa di dimensioni adeguate, pochi mesi e avrebbero avuto a che fare con una ranocchia completamente sviluppata.
 
“Sai, dovresti veramente riflettere sull’offerta che ti ho fatto.” Mormorò Motoya portando le bacchette piene di spaghetti alla bocca.
 
Sakusa aggrottò le sopracciglia, sedendosi al suo posto e occhieggiando malevolo la sua soba, cercando di capire quanto l’avrebbe rovinata scaldandola nel microonde. “Quale offerta?” Borbottò pensoso.
 
“L’offerta di lavoro.” Rispose suo cugino a bocca piena, facendogli fare una smorfia schifata. “Perché non vuoi lavorare con me? È bello preparare zucchero filato!”
 
“Non dovrebbero farti avvicinare allo zucchero.” Non voleva nemmeno sapere quanto ne assaggiasse Motoya per essere così caotico. Sfortunatamente, era consapevole che le sue energie non erano cambiate di una virgola da che lo aveva cominciato a frequentare, gli innocenti tempi quando era ancora piccolo, credulone e stupido, quindi la colpa non poteva essere solo dei dolci.
 
Motoya mise su un piccolo broncio. “Dovresti farlo tu, in realtà. Magari riesci a toglierti quell’atteggiamento scontroso.”  Mescolò un paio di volte la soba e ne prese un po’, intingendola nello tsuyu carico. “Il tuo lavoro è troppo lontano, potremmo stare insieme di più!”
 
“È esclusivamente per questo che l’ho scelto.” Il café di Takeda-san era posizionato nella parte della città diametralmente opposta al negozio di dolciumi dove Motoya veniva pagato per far danni. Non era nemmeno vicino alla sua università – quel lusso lo avevano Akaashi e Tsukishima -, ma i chilometri di lontananza da Motoya valevano tutti i viaggi che doveva fare per raggiungerlo.
 
Col senno di poi avrebbe dovuto rendersi conto dei personaggi che abitavano quel luogo infestato, ma era abituato ad essere deluso dal comportamento generale dell’universo, quindi non era veramente un problema.
 
Il problema reale, fino a quel momento, sembrava essere solo Miya.
 
Miya, che aveva deciso di passare il suo tempo libero a dargli il tormento.
 
Miya, che non faceva nulla per essere solo un cliente e gli impediva di lavorare liberamente richiamandolo al suo tavolo in continuazione.
 
Miya, che a volte sembrava davvero serio quando lo guardava lavorare dietro al bancone e, sempre più spesso, poteva vedergli negli occhi una sorta di delusione nel riconoscere il rischio del giorno come qualcosa prodotto da altri e non da Sakusa stesso. Come se tenesse veramente ad assaggiare una sua creazione e non volesse realmente prenderlo in giro.
 
Come poteva credergli? In fin dei conti, aveva preventivamente dichiarato la sua mancanza di creatività in materia e avrebbe goduto in modo indicibile nell’avere ragione.
 
A Sakusa non importava cosa pensasse. Se lo ripeté più volte mentre mescolava alghe e spaghetti e avvicinava il brodo al piatto per un condimento più ricco. Non gli importava cosa potesse pensare di lui, dei suoi accostamenti, delle sue scelte.
 
“Sai, ho assaggiato quel croissant che hai provato a fare stamattina.” Sakusa alzò gli occhi dal suo piatto, fulminando Motoya con un’occhiataccia. Motoya allargò il suo sorriso. “Non metterci la marmellata, è troppo dolce.”
 
“È una sfogliata.” Mugugnò contrariato. “E non mangiare le mie cose.” Aveva fatto delle prove per capire cosa potesse funzionare con quello che aveva in mente, ma ogni idea era rivolta ad estremi troppo netti per poter funzionare davvero: troppo o troppo poco dolce, nessuno dei due era adatto per quello che pensava.
 
“Come mai provi queste cose a casa?” Sakusa si rituffò a guardare la sua cena, riempiendosi la bocca con una porzione forse troppo grande. “È la prima volta che lo fai. Vuoi far colpo su qualcuno?”
 
No, decisamente. Stupido Motoya con le sue idee fuori dal mondo.
 
“La cucina del café è occupata.” Si limitò a rispondere dopo aver ingoiato, un malloppo in gola che non aveva intenzione di scendere nel breve periodo.
 
“Ma hai sempre detto che -”
 
“Hinata aveva le sue prove da fare e non c’era spazio per me.” Sperò fosse definitivo e sembrò intuirlo anche Motoya, che borbottò un “Fai come ti pare.” che non aveva nulla di raccomandabile.
 
Sakusa lo guardò prendere qualche grammo di wasabi con espressione concentrata e si ritrovò ad espirare lentamente, senza accorgersi di aver trattenuto il respiro.
 
Non doveva far colpo su nessuno, si disse mentre portava altra soba alla bocca. Quello era solo il suo lavoro.
 
 

*

 
 
“Buongiorno, Omi-kun! Lo sai che questa è la stagione degli amori per i molluschi bivalvi?”
 
Non lo sapeva e non gli interessava.
 
Anzi, ad essere del tutto onesti era sicurissimo che quella di Miya fosse una completa stronzata e che non sapesse nemmeno lui quando fosse la stagione degli amori dei molluschi bivalvi, quindi non gli diede retta e lo guardò male come di consueto. “Questo è il bancone del bar.” Gli ricordò malamente. “I tavoli sono da quella parte.”
 
“Sei sicuro che il tuo cuoricino coriaceo non abbia subito fremiti di fronte alla vista di questo ben di Dio?” Miya allargò il suo ghigno e alzò le sopracciglia con fare allusivo, ignorandolo deliberatamente e ammiccando in una muta richiesta di essere preso a pugni.
 
Sakusa soffocò l’impulso di alzare la mascherina che teneva sotto il mento fin sopra il naso, non sapeva se per la paura di germi influenzali invernali o per mettere una barriera a difenderlo da tutta quella stupidità traboccante. Forse un misto delle due, a pensarci bene, tuttavia si limitò a prendere l’alcool disinfettante e spruzzarlo sul piano del bar con cattiveria, spingendo Miya a spostare il braccio lì poggiato con urgenza. “Se non rispondi la prenderò come un’ammissione.”
 
“Hai appena paragonato il mio cuore a una vongola.” Gli ricordò asciutto, strofinando con una pezza pulita il bancone.
 
“Ho detto mollusco bivalve, nella mia testa era un’ostrica.” Non migliorava la situazione. Davvero, non lo faceva. “Un giorno aprirai quel bel guscio rattrappito e orrendo e scoprirò una perla lì dentro, ne sono sicuro.”
 
“Quale detestabile corpo estraneo dovrebbe scardinare le mie difese per fare una cosa del genere?” Il sogghigno di Miya si fece più lascivo e Sakusa si insultò da solo per l’assist non voluto. “Non aprire bocca, per cortesia.” Sibilò schifato e lo sentì ridere, prendendo un paio di bustine di zucchero sotto i suoi occhi giudicanti.
 
“Dicono che siano le lacrime dell’ostrica a dar vita alle perle.” Gli raccontò con voce morbida, giocherellando con la carta sottile dello zucchero stropicciandola tra le dita. “Lacrime e desideri. Il dolore è grande e l’ostrica piange, fino a formare qualcosa di meraviglioso.”
 
“Secernono una sostanza organica chiamata nacre, la usano per difendersi.” Commentò Sakusa tagliente, dando sfoggio del fiero risultato di ore e ore di cazzeggio totale per evitare di studiare qualcosa di noioso. “Si accumula sul corpo estraneo in milioni di stratificazioni e si forma così la perla.”
 
“Quindi lacrime e desideri.” Affermò Miya convinto e Sakusa non aveva abbastanza pazienza per mettersi a discutere su qualcosa di completamente inventato. “Potresti pensarne qualcuno, già che ci sei.”
 
“Ne ho parecchi, in realtà.” Borbottò duro. Tutti riferiti alla sua pace mentale.
 
“Beh, eccomi qui.” Mormorò Miya sornione. “Uno è esaudito, quali sono gli altri che esprimerai?”
 
Era fastidioso quel calore improvviso.
 
Sentiva le orecchie bollire e maledisse Tsukishima che si metteva a giocare con i riscaldamenti “Perché ho freddo, Sakusa-san, non lo faccio per hobby.” quando, letteralmente, gli unici momenti in cui decideva di muoversi e fare qualcosa di utile era l’attimo in cui c’era da dare il tormento a Hinata e Kageyama per letteralmente qualsiasi cosa.
 
Le dita erano gelate, però. Le avvertiva spingere fredde contro i palmi delle mani, strette forte a pugno, e non riusciva a capirne le motivazioni.
 
“Che c’è, stai pensando a quanto siano afrodisiache le ostriche?”
 
Sakusa batté le palpebre riprendendosi in un secondo, perché quello era un mito da sfatare e la sua anima da distruttore di sogni lo spinse a fare a pezzi anche quella palese bugia. “Non ci sono nessi scientifici sulle capacità afrodisiache delle ostriche.” Lo informò con soddisfazione, il campanello della porta che squillava ad annunciare nuovi clienti. Miya non si girò nemmeno, gli occhi ampi e fissi su di lui. “Ci si basa sul presupposto che contengano zinco, coinvolto nella produzione del testosterone. Tuttavia non ci sono dati sufficienti per confermarne gli effetti su virilità e resistenza sessuale.”
 
Vide Miya ingoiare pesantemente, gli occhi sulle sue labbra come se vomitasse oro. Sakusa aggrottò le sopracciglia. “Ci sei?” Domandò forse troppo bruscamente, ma bastò a fargli battere le palpebre come un gufo demente e mordere la bocca forte. “Ti senti bene?”
 
“Non mi arriva più il sangue al cervello.” Gracchiò e Sakusa lo guardò confuso. “Non pensavo di sentire parole sexy da te prima di qualche mese e, beh, non ero pronto.”
 
Sakusa inspirò profondamente, il calore alle tempie che diventava solo più fastidioso. “Sbrigati ad ordinare e vatti a sedere.” Sibilò malignamente e Miya sembrò riprendersi un po’. “Voglio il solito, mi sembra ovvio.” Mormorò con le guance appena rosee, decidendo per una volta di fare il cliente ed andare a sistemarsi nel suo tavolo personale, quello all’angolo in fondo con la piena vista del bancone bar.
 
Sakusa lo guardò allontanarsi dandogli le spalle e, forse solo in quel momento, comprese la pienezza dell’ordinazione.
 
Il solito.
 
Il rischio del giorno.
 
Espirò lentamente, la coscienza della richiesta che faceva lavorare la testa riempiendola di mille pensieri al secondo. Il peso del messaggio nella chat di gruppo di Takeda-san pesava come tonnellate di pietra, i kanji del suo nome sorteggiato che, per la prima volta, faceva sorgere riflessioni e angosce, tutte per le ragioni sbagliate.
 
Le dita delle mani continuavano ad essere gelate e a nulla valse aprirle e chiuderle per stimolare la circolazione.
 
Alzò la mascherina sulla bocca, cominciando ad armeggiare con la macchina del caffè con gesti consumati. L’odore di caffè lo avvolse immediatamente come una coperta ma, in quel momento, non riusciva a calmarlo come invece accadeva sempre.
 
Il vapore bollente lo accarezzava in anticipazione, l’aroma tostato lo colpiva di agitazione e l’essenza familiare non faceva nulla per tranquillizzarlo, per dargli una scossa, per fargli alzare la testa ed affrontare quello che, alla fine, era solo un cliente con il disinteresse che lo aveva sempre contraddistinto.
 
Il mento, invece, era basso. Le sopracciglia corrucciate di pensieri dubbiosi, il respiro profondo e duro, la libertà di inspirazione piena bloccata dallo schermo della mascherina, che in quel momento avvertiva come fastidio e ancora al tempo stesso.
 
Il cliente, in realtà, era quanto di più lontano dalla definizione di cliente potesse esserci.
 
Beffardo, imbarazzante, fastidioso. Lo aveva sfidato immediatamente e non gli consentiva di renderlo dimenticabile, piazzandosi dove non doveva con quel sogghigno odioso e spingendolo a farlo fallire.
 
Forse era quello il problema. Forse era dovuto a quello l’irrequietezza che stava provando nel posizionare il suo rischio – pensato, ricercato, ragionato – nel solito vassoio di tutti i giorni, prendendolo con mani sicure e fredde e cominciare a camminare verso di lui.
 
Lo aspettava, notò.
 
Lo aspettava sempre, anche quando aveva già il tavolo imbandito di qualsiasi diavoleria fosse prevista per quel giorno, attendendo la fine delle sue mansioni per richiamarlo e intontirlo con parole vuote e occhi troppo attenti.
 
Ma in quel momento era come se avvertisse qualcosa.
 
Era serio, a guardarlo con occhi accorti incappucciati da palpebre pesanti, seduto dritto con le guance ancora rosee per poco prima, quell’ammissione forse sfuggita ma che non aveva ripreso indietro.
 
Quando arrivò al tavolo lo vide mordere leggero il labbro inferiore e guardare da lui al vassoio trattenendo il respiro.
 
“Non c’è zucchero.” Informò Sakusa e si stupì di come la voce sembrasse naturale. Ferma, decisa, seccata, tutto il contrario dell’agitazione che avvertiva nei polmoni e del sangue che lasciava gli arti per concentrarsi in alto, a bollire le orecchie. “Non è previsto.”
 
“Va bene.” Lo disse piano, una pura constatazione. “Non mi farai firmare la liberatoria stavolta?”
 
Sakusa si bloccò.
 
Aveva completamente dimenticato lo scarico di responsabilità e questa fu la consapevolezza finale che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto: lui non faceva questi errori.
 
Non era normale tutta quella situazione, in realtà, anche se si trattava del classico servizio per cui era pagato e che compieva infinite volte nei suoi turni. C’era qualcosa di non detto, di non percepito ma sottilmente presente, atto a portargli mille pensieri inutili e a farlo sentire come se fosse sulla graticola.
 
“La puoi firmare più tardi, ormai conosci la procedura.” Si limitò a dire, servendo il rischio con calma apparente ed equilibrio forzato.
 
Leccò il labbro inferiore quando Miya abbassò gli occhi - ringraziò la mascherina per proteggerlo da quella debolezza.
 
Caffè nero profondo, scuro come la morte e altrettanto saporito ad attendere in una tazzina in vetro brillante, i bordi appannati dal calore eccessivo che si sprigionava in rivoli di fumo tostato, che saliva sinuoso e si perdeva tra i mille odori del café. Subito accanto, sfoglia intrecciata in nastri arzigogolati, alta e burrosa, a nascondere latte in crema di una dolcezza delicata, il sentore di vaniglia che ci si poteva aspettare abbandonato in favore della pienezza familiare del latte puro, il grasso zuccherino che foderava il palato e assicurava la certezza di volerne ancora.
 
Si chiese se anche Miya avrebbe provato le sue stesse sensazioni, lo stesso picco di stupita sorpresa quando aveva assaggiato il prodotto finito lì, nella sua cucina, tra il lavello pieno di stoviglie sporche e il forno bollente per la cottura ultimata. Si chiese se gli sarebbe piaciuto come era successo a lui o lo avrebbe rimandato indietro, un connubio che non incontrava i suoi gusti. Si chiese se potesse riuscire a capire che si trattava del suo rischio e se l’accenno di delusione che sentiva nel petto ad un papabile rifiuto sarebbe rimasto tra i suoi polmoni o si sarebbe volatilizzato.
 
Pensò che, alla fine, non gli interessava veramente, che Miya non aveva alcuna voce in quel capitolo personale, che sicuramente si sarebbe liberato di lui e sarebbe stato finalmente tranquillo.
 
Scoprì sconfitto che erano tutte cazzate.
 
Lo guardò prendere la tazzina e portarla alle labbra, soffiando piano senza staccare gli occhi dai suoi e prendendo un piccolo sorso. Lo vide afferrare il dolce e morderlo vorace – bocca grande e schegge di sfoglia a volare ovunque, cadendo sul piattino e sul tavolo. Uno sbuffo di crema bianca sopra la bocca, a farlo deglutire con forza e spingerlo a premere le labbra tra loro fino a farsi male.
 
Continuava a guardarlo masticare e leccare frammenti dorati, punta di lingua rosa e bocca rossa di calore e altro.
 
Sorseggiò altro caffè, assaporandolo meglio, mischiando l’amaro puro della sua essenza con la dolcezza calda del latte in crema e sorrise.
 
Non in modo scanzonato. Non con cenni allusivi.
 
Sakusa batté le palpebre, guardando il sorriso più sincero che gli avesse mai rivolto intento ad incendiargli lo stomaco e terrorizzare l’animo.
 
“Eccoti qui, alla fine.”
 
 
 

 


 
   
 
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