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Autore: Old Fashioned    13/01/2023    11 recensioni
Una breve storia di guerra ambientata sul fronte orientale. I protagonisti sono alcuni personaggi secondari di "Perdizione" (https://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3766794&i=1).
Un piccolo reparto tedesco rimane isolato in territorio nemico: gli uomini dovranno trovare il modo di assistere i feriti, passare la notte approssimativamente incolumi e fronteggiare all'alba l'attacco del nemico.
Questa storia è stata scritta per Spoocky, che mi ha graziosamente concesso il permesso di pubblicarla sulla mia pagina.
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Gente mia,
ecco che torno a sfracellarvi le gonadi con una storia di guerra. Siamo sul fronte orientale, durante l’Operazione Barbarossa, chiaramente il mio punto di vista è quello tedesco.
Se qualcuno ha voglia di leggere o magari di commentare mi fa un gran piacere, se no grazie lo stesso e alla prossima!^^
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 1
 
I colpi di mortaio si susseguivano ininterrotti: un lungo fischio stridulo, l’esplosione del proiettile e il rotolio cupo dei muri che crollavano. Seguiva qualche secondo di un silenzio irreale, quindi di nuovo un fischio, poi un'esplosione e altri muri si sbriciolavano sotto l'impatto.
Una vettura abbandonata scomparve in un geyser di fuoco, lasciando sul selciato un buco fumante; una  casa di legno con le finestre decorate fu abbattuta come da una poderosa manata e si disgregò in un mucchio di vecchie travi. Due figure, appena vaghe ombre nella caligine, se ne allontanarono di corsa.
Una facciata vetusta, con l’intonaco scrostato e una falce e martello che sostituiva vecchie insegne imperiali, colpita in pieno si coprì di crepe, parve gonfiarsi come una pagnotta nel forno, quindi deflagrò in una nube di polvere grigiastra, proiettando tutt’intorno pietre e calcinacci.
La gragnola si abbatté anche sullo spezzone di muro che dava un’approssimativa copertura a un plotone di Waffen-SS. Alcuni mattoni rotolarono a terra, raffiche di mitragliatrice pesante fecero schizzare via da altri rosate di frammenti.
I soldati, che sedevano o stavano accosciati con le armi in pugno, non si mossero nemmeno. Solo qualcuna delle reclute più giovani si limitò a ritirare appena la testa fra le spalle, ma venne subito redarguita dai più anziani.
“Fate attenzione, ragazzi,” brontolò il capitano Schultz, spazzolandosi via la polvere che gli imbiancava l’uniforme, “le schegge di pietra sono peggio dei proiettili. Vi entrano in corpo e si frantumano, e con l’apparecchio radiografico non si riescono nemmeno a vedere.”
Cercò di sporgersi appena dal riparo, ma un’altra raffica lo costrinse ad abbassare precipitosamente la testa. “Maledizione,” ringhiò. Consultò la mappa, si protese per quel che poteva a osservare la strada, quindi senza staccare gli occhi da essa chiamò: “Weber!”
Si fece avanti un tenente alto, dalle spalle larghe, che nonostante un'evidente giovane età aveva il petto coperto di decorazioni. “Signore?” chiese.
“Weber, prenda lei il comando della sezione. Mandi un portaordini al resto della compagnia: Lange, Plank e von Auberg porteranno qui i loro plotoni il più rapidamente possibile, evitando di impegnare il nemico.”
L’altro si limitò ad annuire calmo. “Sissignore,” rispose semplicemente. “E lei, signore?”
Di nuovo si udì un sibilo lacerante, seguito da un'esplosione. Il capitano fece un cenno della testa in quella direzione e disse: “Questi sono mortai leggeri, quindi non possono essere lontani. Ora io mi prendo un paio di squadre e un telemetro e vado a stanarli, poi trasmetteremo le coordinate all'artiglieria e ci penseranno loro.”
A quelle parole, una voce esclamò: “A rapporto, signor capitano.”
Schultz si voltò, incrociando lo sguardo chiaro di un sottufficiale giovanissimo, appena un po' più basso del tenente Weber, ma ugualmente robusto e col suo stesso numero di decorazioni sulla giubba. “Che c’è, sergente Hofmann?” gli chiese.
“Mi offro volontario, signor capitano.”
L'ufficiale sorrise e rispose: “Perfetto, prenda una squadra e andiamo.”
Il sergente rimase interdetto. “Ma, signore...”
Schultz lo fissò. “Sì?”
“Ecco… io intendevo al posto suo, signore.”
Il capitano scosse la testa in un teatrale diniego e replicò: “Ah no, Hofmann. Le vuole tutte lei le decorazioni del Reich? Qualcuna me la dovrò pur guadagnare anch’io, non le pare?”
Un nuovo colpo di mortaio, vicinissimo all’improvvisato rifugio, troncò il breve scambio. “È meglio che andiamo,” disse Schultz facendosi di nuovo serio. Si rivolse al tenente: “Weber, difenda la posizione e quando gli altri plotoni arriveranno, prenda il comando della compagnia in mia assenza.”
“Sissignore,” rispose il giovane ufficiale.
 
Il capitano Schultz si mise un MP40 ad armacollo, poi raccolse un tascapane e ci infilò dentro alcuni caricatori di ricambio e tutte le granate a mano che riuscì a farci stare. Infine con aria di ostentata solennità proclamò: “E ricordiamoci sempre che non sono i miti e i neutrali a fare la Storia, ma solo gli uomini che decidono di combattere.”
“Sissignore,” rispose Hofmann, che stava a sua volta preparandosi per la missione.
“Allora andiamo, sergente. Mi stia dietro.”
Tenendosi a ridosso dello spezzone di muro, il capitano prese ad avanzare cautamente. L'ennesimo sibilo lacerò l'aria, e subito dopo un'esplosione scagliò ovunque frammenti di pietra. L’ufficiale si immobilizzò e dal punto in cui si trovava osservò attento i dintorni: dalle macerie del palazzo entro cui lui e la squadra erano in copertura si vedeva quel che restava di una piccola piazza, con edifici diroccati sui quattro lati. Lente colonne di fumo si levavano laddove le bombe avevano innescato focolai di incendio e le fiamme baluginavano dietro le finestre sventrate, consumando ciò che era rimasto nelle case. Una strada era ostruita da un autocarro civile con le ruote all’aria, cadaveri di russi e tedeschi erano disseminati un po’ dappertutto.
In particolare Schultz osservò quello di un ufficiale che era lungo disteso sulla schiena e con le braccia aperte. La sua espressione appariva stupita, ma non spaventata né contratta dal dolore. Data la posizione della testa, gli occhi spenti erano rivolti verso il cielo. Aveva un unico foro di proiettile sul petto, proprio sopra la croce di ferro di prima classe; il poco sangue che ne era sgorgato faceva capire che l’uomo era arrivato a terra già morto.
Alle spalle del capitano, Hofmann considerò: “Non se n’è nemmeno accorto.”
Questi annuì grave. “Che cosa le suggerisce?” chiese poi.
La risposta fu immediata: “Cecchini.”
I due si scambiarono uno sguardo, poi Schultz ordinò: “Fumogeni.”
Un paio di soldati si sfilarono dal cinturone delle granate a manico contrassegnate da una striscia bianca, le decapsularono e le lanciarono al centro della piazza. I due ordigni esplosero con un rumore sordo e cominciarono a fumigare, creando in breve una fitta nebbia.
Ci furono un nuovo sibilo e uno schianto, l’angolo di un palazzo andò in frantumi, pezzi di intonaco e mattoni rotolarono fino ai loro piedi.
Il capitano si voltò verso il sergente e disse: “Questi hanno già fatto abbastanza danni, per i miei gusti. Andiamo.”
Senza attendere risposta si inoltrò risolutamente attraverso la densa cortina.
Le sagome scure di due edifici gli si pararono davanti, separate da quello che sembrava essere un vicolo angusto. Egli vi si diresse, ansioso di sottrarre sé e la squadra ai fucili dei tiratori scelti. Si appiattì contro un muro e attese che gli uomini lo raggiungessero.
Corrugò la fronte infastidito dal caldo torrido che rendeva l'aria ancora più irrespirabile.
 
Il caldo di metà luglio rende le strade di Altona soffocanti. Il selciato è rovente, l’aria è immobile e gravata dell’odore salmastro dei canali. È domenica, ma in giro non c’è nessuno. Sui marciapiedi ci sono solo due lunghe file di poliziotti silenziosi. Cominciano a farsi sentire clamori cupi, che si fanno via via più forti. Si odono grida, spezzoni di canti e l’incalzante calpestare di molti piedi.
Hermann Schultz, ventiduenne Scharführer delle SA, punta sul fondo della via lo sguardo chiaro e acuto. “Occhi aperti, camerati,” raccomanda a coloro che gli stanno intorno. Si gira fugacemente verso il suo uomo migliore, Franz Wolff, che sorregge il labaro della Sezione. Nello stesso momento, anche lui si volta a incontrare il suo sguardo e si scambiano un fugace sorriso.
Un istante dopo si scatena l’inferno: un ordigno esplode davanti al gruppo di SA in marcia, i comunisti dilagano nella strada, si ode qualche detonazione, il crepitare delle fiamme. Una macchina viene rovesciata, vetrine vanno in frantumi, il fumo denso degli incendi si diffonde ovunque, facendo lacrimare gli occhi e tossire. Volano manganellate e pugni.
Un comunista si avventa sulla bandiera, Wolff si fa indietro, lo allontana con una gomitata, ma altri due lo incalzano. Schultz accorre, prende per le spalle il più vicino di coloro che si assiepano intorno al labaro, lo strappa via e lo manda a rotolare sul selciato, allontana il successivo con un pugno, e poi gli altri, in una mischia sanguinosa fatta di urla e colpi, una calca frenetica nella quale riesce a distinguere i suoi solo dal colore dell’uniforme.
E poi, d’un tratto, echeggia un colpo di pistola. È vicinissimo, quasi gli fa fischiare l’orecchio.
Il labaro trema, si accascia lento come un abete tagliato. I comunisti, un attimo prima così ansiosi di conquistarlo, ora si fanno indietro con l’aria di non volerci avere più nulla a che fare. Si ode il clangore sordo di una pistola che rimbalza sul selciato, Schultz coglie le spalle magre di un uomo che si allontana rapido.
È quello che ha gettato l'arma, e forse con uno scatto potrebbe ancora prenderlo, ma un lamento lo trattiene: Franz Wolff è a terra, il petto coperto di sangue, un rivolo rosso che dall’angolo della bocca gli scorre lungo il mento.
Gli occhi socchiusi sono lucidi di dolore, il volto sta assumendo un pallore mortale.
Dimentico di qualsiasi cosa, Schultz si butta in ginocchio accanto a lui. “Franzl!” esclama angosciato. Pone una mano sulla ferita, da cui il sangue sgorga a fiotti. Prende quello che ha, il fazzoletto, un lembo della propria camicia bruna, nel vano tentativo di arrestare l’emorragia. “Franzl,” ripete. Deglutisce, cercando di mantenere ferma la voce. “Franzl, starai bene, non preoccuparti.”
Gli passa il braccio libero dietro le spalle, lo stringe a sé. “Starai bene,” ripete. Alza lo sguardo su un gendarme. “Qualcuno chiami un dottore!” invoca, ma l’uomo non si muove. “Un dottore!” ripete allora Schultz a voce più alta, poi si fa udire un gemito dell’amico. Egli si china su di lui. “Franzl,” dice piano. Cerca di premere più forte la medicazione di fortuna, ma il sangue gli scorre fra le dita come acqua.
Hermann...” mormora l’altro con voce flebile. “La bandiera… è salva?”
Schultz getta uno sguardo sul labaro, che giace ancora dov’è caduto, come se nessuno osasse avvicinarglisi. “È salva,” conferma.
Custodiscila tu.”
Tu la custodirai, Franzl,” risponde Schultz, stringendosi l’amico al petto, “non voglio nessun altro a portare il labaro della mia squadra. Tu guarirai e...” Deve interrompersi: il respiro stentato del camerata Wolff ha lasciato il posto a un gran silenzio.
Egli alza di nuovo la testa e tutt’intorno vede solo volti dall’espressione grave. Le SA salutano a braccio teso. Chi tra i comunisti ha il cappello se lo toglie con gesto solenne.
 
Una detonazione particolarmente vicina riportò il capitano alla realtà contingente. Volse lo sguardo al fondo del vicolo e vide al di là un edificio che svettava sugli altri. Fece qualche passo in quella direzione, cercando di raggiungere un punto di osservazione migliore: era un via di mezzo fra un campanile e una torre, dal pennone che si trovava sulla sua sommità pendeva un brandello rosso che avrebbe potuto appartenere sia alla bandiera del Reich che a quella sovietica. Tirò fuori la mappa e seguì col dito la strada che avevano percorso fino a quel momento, poi disse: “Ragazzi, quella è la torre del municipio. È al limite della linea del fronte, per cui non sappiamo se quando ci saliremo sopra troveremo ad aspettarci i nostri o i rossi.” Stava ancora parlando quando si udì un ululato cupo. Subito dopo un'esplosione mandò in frantumi la facciata di un edificio che si trovava dall'altra parte della piazza su cui sorgeva il municipio.
“Questo non era il solito mortaio,” disse uno dei soldati.
“Artiglieria pesante,” confermò Schultz. Un secondo ululato, poi il colpo impattò e l'esplosione sollevò una fontana di terra e detriti dal selciato. “E sta aggiustando il tiro.” Si voltò verso la squadra e soggiunse: “Non abbiamo molto tempo, prima che il nostro punto di osservazione finisca in briciole. Hofmann, mi copra le spalle.”
“Ma signore...” cominciò il sergente. Il tono era di nuovo costernato.
Schultz fece un breve sorriso e disse. “Io combattevo per le strade quando lei andava ancora in giro con i calzoni corti, Hofmann. Stia qui a tenere a bada i russi mentre io vado a dare un'occhiata.”
“Sissignore,” rispose il sergente.
Il capitano si limitò ad annuire, quindi si accertò che l'MP40 fosse carico e si gettò di corsa attraverso lo spiazzo. Appena dietro di lui, una raffica di mitragliatrice pesante fece schizzare dall'impiantito schegge di pietra, ma un istante dopo udì un rimbalzo metallico e un paio di secondi dopo il tipico scoppio di una granata tedesca. La mitragliatrice tacque.
Schultz raggiunse l'edificio, si appiattì contro un muro. Di nuovo si udì un ululato profondo, lugubre, che sembrava un cupo lamento d'animale. Istintivamente il capitano ritirò la testa fra le spalle e un attimo dopo il proiettile esplose contro un edificio, facendone crollare i piani più alti. Travi, mattoni e calcinacci rotolarono al suolo con un fragore da fine del mondo, si sollevò una nube di polvere acre, che gli bruciò la gola e gli fece lacrimare gli occhi.
L'ufficiale si spostò lungo il muro fino a che non raggiunse una breccia. Azzardò una cauta occhiata all'interno, ma vide solo macerie e qualche mobile sfondato. In un angolo c’era una scala di legno che portava verso l’alto.
Entrò cauto, ragionando fra sé e sé che i russi dovevano in ogni caso averlo abbandonato, dal momento che si trovava sotto il tiro della loro artiglieria pesante.
Come se l'avesse evocato con quel pensiero, un istante dopo giunse ululando un altro obice, che esplose contro un fianco del municipio, scuotendolo fino alle fondamenta. Dal soffitto piovve una grandinata di calcinacci, tutta la struttura scricchiolò e gemette.
“Merda,” imprecò fra i denti il capitano, quindi corse verso le scale, augurandosi che fossero ancora abbastanza solide da reggere il suo peso.
Un altro ululato, un altro colpo che fece vibrare ogni muro del vecchio palazzo. Sulle pareti comparvero crepe larghe un dito, intere porzioni d’intonaco si staccarono e si frantumarono al suolo.
Il primo piano era disseminato di quel che rimaneva dei mobili, qua e là c’erano cadaveri di russi e tedeschi, segno che si era combattuto per il possesso di quella torre.
Schultz valutò che i russi probabilmente avevano preferito distruggerla, piuttosto che rischiare di lasciare ai tedeschi un punto d’osservazione così importante.
Proseguì la sua salita con tutta la velocità che le gambe gli consentivano, facendo i gradini quattro per volta. Individuò una porticina che pendeva miseramente dai cardini, e dietro di essa la scala a chiocciola che portava alla torre. Vi si infilò rapido e riprese a salire più veloce che poteva. Nel frattempo stava arrivando l’ululato di un nuovo obice, che in quello spazio angusto si riverberava in migliaia di echi, coprendo addirittura il rumore pesante delle sue suole chiodate sui vecchi gradini di legno.
Di nuovo l’edificio tremò sotto il colpo, le travi secolari gemettero, i muri si fessurarono come sotto l’effetto di un colpo di maglio. Qualche gradino si staccò e precipitò in un abisso buio, del quale il capitano non riuscì a individuare il fondo.
Finalmente giunse alla terrazza panoramica. Non perse tempo a guardarsi intorno, sfilò dal tascapane il binocolo e individuò nel cielo caliginoso la traiettoria arcuata dei colpi di mortaio. La seguì con lo strumento e vide che i pezzi erano disposti in uno spiazzo erboso che aveva l'aria di essere un campo sportivo. Oltre quelli vi erano camion e uomini, segno che i russi stavano organizzando una controffensiva per riprendere possesso del centro abitato.
Tramite il telemetro stabilì la distanza dei pezzi d’artiglieria, segnò la posizione di ciò che stava vedendo sulla mappa, poi si girò per tornare dabbasso. In quel momento giunse il cupo lamento di un obice in arrivo.
Schultz si lanciò giù per le scale con tutta la velocità che le gambe gli consentivano, il proiettile si schiantò dove lui si era trovato solo pochi secondi prima, esplodendo con un lacerante boato.
 
In copertura con i suoi uomini, Hofmann teneva d'occhio con crescente apprensione ogni obice in arrivo.
Un proiettile si schiantò sul fianco del municipio, facendo crollare un'intera parete. La torre oscillò visibilmente, mentre polvere e calcinacci cadevano come se una mano enorme la stesse sbriciolando.
“Stanno aggiustando il tiro,” disse uno dei soldati. Un altro replicò: “Il prossimo la becca in pieno.”
Come se quelle parole l'avessero evocato, un obice si abbatté sulla sommità della torre, proiettando ovunque frammenti di legno e pietra.
Una trave che conservava ancora qualche residuo di decorazioni fiorate arrivò rimbalzando fino a loro, poi calò un silenzio sinistro, rotto solo dal cupo sottofondo di raffiche e detonazioni lontane della battaglia urbana.
Sergente e soldati si scambiarono un muto sguardo.
In quel momento si udì un urlo: “Hofmann!”
“È il capitano,” disse uno degli uomini, scattando in piedi e addossandosi a un muro per mantenere la copertura.
“Hofmann, si muova!” La voce, poderosa, aveva una decisa connotazione di urgenza.
“Andiamo!” esclamò il sergente, quindi scattò di corsa verso il rudere dell'edificio. Entrarono in quel che rimaneva dell'atrio e rimasero senza parole: tutto ciò che si trovava nella tromba delle scale era crollato. Rimaneva solo una mezza rampa penzolante, ad almeno cinque metri d'altezza, che ondeggiava emettendo sinistri scricchiolii. A quella precaria struttura era aggrappato il capitano Schultz.
“Ma signore!” esclamò costernato il sergente.
“Hofmann, si muova,” ripeté l'ufficiale per tutta risposta.
L'altro si guardò intorno come alla ricerca di ispirazione, ma nulla di ciò che giaceva disseminato sul pavimento poteva servire ad aiutare il capitano. Alzò lo sguardo a osservarlo, un altro obice cadde poco lontano, facendo fremere tutta la struttura. Sotto il suo sguardo inorridito, Schultz perse la presa.
Senza pensarci un attimo, Hofmann si lanciò in avanti.
 
Spolverandosi distrattamente la giubba, il capitano chiese: “Tutto bene, Hofmann?”
Il sergente si rialzò e si massaggiò la schiena, quindi rispose: “Con il dovuto rispetto, signore: per caso è fatto di ferro?”
“No, ma ho una certa dimestichezza col materiale: da civile ero addetto agli altoforni in un'acciaieria.” Si diede qualche altra pacca su spalle e braccia, sollevando nuvolette bianche, quindi disse: “La devo ringraziare, sergente. Senza di lei mi sarei sicuramente rotto qualche osso.”
“Dovere, signore,” rispose Hofmann. Alzò la testa, tese l'orecchio e aggrottò fugacemente le sopracciglia, quindi disse: “Però ora sarà meglio che andiamo, signore.”
Schultz tese l'orecchio a sua volta: stava arrivando qualcosa di grosso. L'ululato che emetteva, basso e possente, faceva sembrare flebili pigolii tutti quelli che l'avevano preceduto. “Fuori tutti!” urlò, e si lanciò di corsa all'esterno. Gli altri lo seguirono senza indugio e la squadra attraversò rapida lo spiazzo disseminato di detriti.
Un istante dopo, si udì una detonazione immane, e qualcosa come un gigantesco geyser di fiamme scaturì dal punto in cui un attimo prima sorgevano le rovine del municipio. Lo spostamento d'aria fu così violento che i tedeschi finirono a terra dal primo all'ultimo, la vampa rovente che promanò dal mostruoso cratere diede loro l'impressione di essere investiti da lingue di fuoco.
“Via!” urlò Schultz con le orecchie che gli fischiavano e la vista annebbiata. “Via di qui!”
Si infilarono nel vicolo dal quale erano passati poco prima, lo percorsero mentre un secondo lacerante ululato li incalzava.
Il proiettile si abbatté qualche decina di metri dietro di loro, l'ala di un palazzo crollò con un rombo cupo, lo stretto passaggio fu invaso da una polvere acre, che toglieva ogni visibilità e faceva bruciare occhi e gola.
Nonostante questo, il capitano allargò le braccia per impedire agli uomini di sopravanzarlo e tutti si fermarono un attimo prima di sbucare nella piazza. Oltre lo spazio lastricato si vedeva già l'edificio che accoglieva l'ormai completa compagnia. Naturalmente dall'esterno appariva vuoto, Weber non era così stupido da non tenere gli uomini in copertura.
Un colpo di mortaio passò fischiando, la detonazione parve poco più di un petardo da fiera, paragonata ai grossi calibri che stavano imperversando nella zona che avevano appena lasciato, tuttavia fece crollare un muro, che si abbatté in una nuova nuvola di polvere.
Un istante dopo, si udirono una detonazione secca e un lamento.
“Reiner!” urlò una voce angosciata.
Schultz si voltò in quella direzione: un soldato era a terra supino, un altro era chino su di lui e gli stava sbottonando la giubba già intrisa di sangue.
Si avvicinò, si chinò  sua volta e aggrottò le sopracciglia quando vide di cosa si trattava. “Tutti indietro!” abbaiò senza nemmeno alzare la testa. “Hofmann, mantenga la copertura, li faccia stare lontano dai buchi nel muro, se no i cecchini li abbattono come delle anatre!”
Tornò a dedicare la propria attenzione al soldato: un colpo di fucile l'aveva passato da parte a parte; il foro d'entrata sulla schiena aveva il diametro di un dito, ma quello d'uscita sul petto era un cratere largo come un pugno, rosso e gorgogliante, dal quale spuntavano schegge d'osso.
“Non muoverti,” gli ingiunse rapido, “ora ti sistemiamo un po' e poi te ne vai a fare una bella vacanza nelle retrovie.” Gli diede un leggero buffetto sulla guancia, poi, a voce più alta disse: “Serve qualcosa di impermeabile.” Si guardò intorno come alla ricerca di ispirazione, quindi chiese: “Qualcuno di voi ha dietro del grasso per armi?”
Ci fu qualche secondo di perplessità, poi uno dei soldati gli tese una scatoletta. Egli la prese, la aprì e rapidamente spalmò la sostanza sulle bende. “Non deve passare aria,” spiegò applicandole poi sul torace del ferito, “oppure morirà soffocato. Ora datemi un altro pacchetto di medicazione.”
Ne aggiunse altri tre prima che la fasciatura lo soddisfacesse. Quando ebbe finito, si prese un attimo per guardare in faccia il soldato, che nel frattempo aveva perso i sensi: Reiner Fuchs, diciottenne, arrivato alla compagnia da poco più di sei mesi. Alzò lo sguardo e incontrò quello carico di preoccupazione del soldato Kammerer, che nel plotone era il più grande amico di Fuchs. “Se la caverà,” gli disse.
Questi fissò il camerata e al centro della fronte gli comparve una ruga verticale.
“Se la caverà,” ripeté Schultz. “Non preoccuparti. È un bene che sia incosciente.”
Il più giovane lo fissò speranzoso. “Davvero?”
“Almeno non sentirà dolore per un po'.”
Il soldato deglutì. Dopo qualche secondo, senza staccare gli occhi dal camerata, osò chiedere: “Sentirà molto male, signor capitano?”
“Gli daranno la morfina,” si limitò a rispondere Schultz.
“Ma poi starà bene, signore?”
Il capitano alzò le spalle. “Meglio di te e di me, soldato, ma ora aiutami a sollevarlo. Dobbiamo raggiungere la compagnia prima possibile.”
 
Una volta che il soldato Fuchs, semicosciente e ancora sanguinante nonostante la medicazione, si trovò tra lui e il soldato Kammerer, Schultz scrutò critico lo spiazzo che avrebbero dovuto attraversare. “Hofmann,” chiamò.
Subito il sergente lo raggiunse. “Signor capitano?”
“Sergente, abbiamo bisogno di qualcuno che vada laggiù e avvisi il tenente Weber di scaricare l’inferno su questi palazzi infestati di cecchini.”
Il sottufficiale fece un sorrisetto. “Sono l’unico che può andare, signor capitano.” Gli rivolse uno sguardo che aveva un vago brillio di impertinenza. “Lei è impegnato.”
Schultz finse un’espressione contrariata in quello che alla fine era una specie di gioco fra di loro. In tono ostentatamente severo rispose: “Per questa volta passi, Hofmann.” Poi, a voce più alta: “Servono dei fumogeni.”
Un paio di soldati tirarono fuori granate con la striscia bianca, le decapsularono e le lanciarono nella piazza.
La nebbia cominciò ad addensarsi.
Hofmann si allontanò di corsa, si udì dapprima un colpo isolato, poi altri due in rapida successione. Poi seguì un silenzio che parve durare all’infinito, tanto che Schultz, con il soldato ferito ancora addosso, si pose il problema di come fare a recuperare anche il sergente Hofmann, sicuramente a sua volta riverso sul selciato, colpito da qualche cecchino russo.
Poi dal fondo dello spiazzo echeggiò un selvaggio grido di vittoria, che a Schultz ricordò quelli che dovevano aver lanciato gli uomini di Frundsberg trovandosi finalmente di fronte le porte di Roma spalancate.
“Direi che ce l’ha fatta,” considerò.
 
 
 
   
 
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