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Autore: _Agrifoglio_    01/02/2023    15 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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La Battaglia delle Nazioni
 
Versailles, primavera del 1813
 
Giunse, alla fine, il giorno del duplice matrimonio fra Honoré ed Élisabeth Clotilde e fra Antigone e Grégoire Henri.
Come promesso alla nascita di Élisabeth Clotilde, la Regina Maria Antonietta diede alla ragazza una cospicua dote.
In considerazione del rango degli sposi, il Re dispose che la cerimonia avesse luogo nella Cappella di San Luigi IX, alla presenza della famiglia reale e, così, anche la Regina Maria Antonietta poté assistere. Il Conte di Fersen era fra gli invitati della famiglia Jarjayes.
I festeggiamenti si tennero a Palazzo Jarjayes, furono eleganti e sontuosi, pur senza ostentazione e videro la partecipazione dei parenti e degli amici degli sposi.
I vestiti delle spose erano splendidi e i genitori felicissimi. Saloni e giardini erano adornati magnificamente, con profusione di ghirlande e di fiori.
In tanta gioia, l’unica ombra fu rappresentata dalla mancanza di Victor Clément de Girodel, il cui ricordo, però, era in tutti più vivo che mai.
Data la situazione spiacevole che si era creata, il Tenente de Ligne e la moglie non presenziarono e nessuno ne rimpianse l’assenza.
Parteciparono, invece, Geneviève d’Amiens con il suo secondo marito, un Duca parente di Talleyrand e Talleyrand stesso. Si vociferava che Laure, la seconda e la più bella delle sorelle d’Amiens, quando aveva saputo che quello sgorbio avrebbe sposato addirittura un Duca – mentre il marito di lei era soltanto un Marchese – aveva dato in escandescenza ed era arrivata persino a colpire una cameriera con una spazzola.
Intervennero anche Alain e Diane, quest’ultima col marito e i figli. Giselle, ormai quindicenne, dopo la delusione provocatale da Albrecht von Alois, aveva iniziato a ragionare in modo più saggio e concreto e pareva non disdegnare più il giovane Marchese d’Amiens che, con l’età, si era un po’ irrobustito e, con un volto meno spigoloso e un fisico meno ossuto e sgraziato, appariva meno brutto.
Erano presenti Sir Percy Blakenay e i Conti di Canterbury col Marchese de Saint Quentin. Quest’ultimo stette sempre in compagnia di Bernadette e i due parevano molto affiatati. Il passato era sempre doloroso, ma la vista di quelle scene di felicità familiare e coniugale fece immaginare al Marchese che anche Paolina Bonaparte, un giorno, sarebbe potuta diventare un lontano ricordo.
Il Generale de Jarjayes e la moglie, così come il vecchio Conte de Girodel, malgrado gli acciacchi dovuti all’età, non persero un solo momento della cerimonia e del ricevimento mentre Rosalie non fece che mettere mano al fazzoletto.
In tanta felicità, anche Madame de Girodel trovò una temporanea tregua al suo dolore e molti sperarono che l’arrivo dei nipoti avrebbe potuto risollevarla definitivamente o, perlomeno, distrarla.
Oscar e André erano raggianti. Nei giorni precedenti la cerimonia, avevano ricordato il passato e quasi non riuscivano a credere che i due figli fossero giunti all’altare e che, molto probabilmente, essi stessi sarebbero presto diventati nonni. Avevano avuto un’esistenza impegnativa e, a tratti, dolorosa e difficile, ma l’avevano affrontata insieme sin da quando erano piccoli e il loro matrimonio viveva soltanto nella mente di Dio. Gran parte della loro vita era alle spalle, ma erano ben consapevoli che tanto ancora avrebbero dovuto impegnarsi, gioire e patire, per il bene dei figli, della Francia e di tutta l’Europa.
 
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Europa, primavera ed estate del 1813
 
Dopo che Napoleone era fuggito a Milano in slitta, quel che restava della Grande Armata fu definitivamente spazzato via anche perché Murat, nelle cui mani l’Imperatore aveva rimesso il comando, era un prode soldato, ma non un eccellente stratega e, di fronte al disastro finale dell’esercito, si era scoraggiato e depresso.
Quello che, però, mancava al dizionario dell’Imperatore era la parola “resa” e, in pochi mesi, egli aveva organizzato un nuovo esercito di centocinquantamila soldati, composto, in larga maggioranza, da reclute giovanissime e da veterani richiamati dalla guerra di Spagna. Con questi uomini, con numerosi cavalli e con un’artiglieria nuova di zecca, Napoleone iniziò la Campagna di Germania.
Il 2 maggio 1813, riportò una vittoria nella battaglia di Lützen e, il 21 maggio dello stesso anno, vinse di nuovo a Bautzen.
Malgrado l’Imperatore conservasse intatte la sua abilità e la sua reputazione di comandante invincibile, la situazione per lui non era rosea, perché il nuovo esercito era stato messo su troppo in fretta e constava in larga parte di giovani inesperti e psicologicamente non temprati. La Prussia, inoltre, lo aveva abbandonato e si era alleata con la Russia, il che lo poneva in una condizione di inferiorità numerica.
Poco tempo dopo, anche la Gran Bretagna si alleò con le potenze continentali.
Rimanevano ancora fuori dai giochi l’Austria e la Francia di Luigi XVII. L’imperatore Francesco I indugiava, ufficialmente per via dei legami che lo univano a Bonaparte, ufficiosamente perché temeva che, in caso di crollo totale dell’impero napoleonico, lo Zar Alessandro avrebbe acquisito troppo potere in Europa. Luigi XVII, invece, attendeva che Oscar completasse le operazioni di ammodernamento e di potenziamento dell’esercito.
Per queste ragioni, all’inizio dell’estate del 1813, Napoleone tentò le vie diplomatiche che sfociarono in un incontro a Dresda con il Cancelliere austriaco Klemens von Metternich. Fu un colloquio estremamente burrascoso, nel corso del quale l’Imperatore perse il controllo dei nervi e inveì violentemente contro Metternich che, invece, rimase perfettamente padrone di sé.


Scontro-con-Metternich

Il giorno successivo, l’Imperatore incontrò la delegazione francese di cui facevano parte, fra gli altri, Oscar, André e il Ministro degli Esteri, il Vescovo de Talleyrand Périgord. Oscar e André si comportarono molto professionalmente, ma era evidente che, nella sala, aleggiasse il fantasma di Girodel. Napoleone, che provava antipatia sia per Oscar sia per André, si fidava soprattutto di Talleyrand che, facendo il doppio gioco, gli aveva fatto credere che lo avrebbe appoggiato. Quando fu chiaro che neanche da Talleyrand avrebbe ricevuto trattamenti di favore, Napoleone diede in escandescenza e sbottò:
 – Merda in una calza di seta!
Talleyrand non si scompose e, rivolto ai suoi compagni di delegazione, mormorò:
– Che grand’uomo, peccato che sia così maleducato!
Essendo fallite entrambe le mediazioni, l’Austria e la Francia si allearono alla Russia, alla Prussia e alla Gran Bretagna mentre accanto a Napoleone rimasero soltanto il Granducato di Varsavia, la Sassonia e la Baviera. Persino il cognato Murat preferì pensare agli interessi di bottega e si rifiutò di aiutarlo, nel timore di inimicarsi l’Europa.
Neanche il congresso di Praga produsse effetto, perché Napoleone si rifiutò di accettare le dure condizioni impostegli dai coalizzati. Metternich dichiarò chiusi i lavori il 10 agosto 1813 e le ostilità ripresero quasi subito.
Il 27 agosto dello stesso anno, dopo due giorni di aspri combattimenti, l’Imperatore riportò una schiacciante vittoria nella battaglia di Dresda, ma, a causa di alcuni problemi di salute, dovette rinunciare a inseguire personalmente i nemici sconfitti e non pianificò le mosse successive con la consueta energia.
Fu così che, a metà ottobre, Napoleone e gli alleati, da una parte e le forze coalizzate, dall’altra si concentrarono in un ampio campo di battaglia nei pressi della città di Lipsia.
 
Battaglia-di-Dresda

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Battaglia-di-Lipsia

 
Campagne di Lipsia, 16 ottobre 1813
 
La grande battaglia ebbe inizio alle nove del 16 ottobre 1813, quando i cannoni dell’Armata di Boemia risuonarono in un mattino ancora immerso nella nebbia.
Napoleone controllava la parte sud orientale del campo di battaglia, un’immensa distesa pianeggiante attraversata da una dorsale che l’esercito dell’Imperatore aveva occupato per tutta la lunghezza, tenendo sotto tiro l’intera area sottostante.
A nord, c’erano gli svedesi di Bernadotte e i prussiani di von Blücher mentre, a est, erano schierati l’esercito russo, guidato dallo Zar Alessandro in persona e l’Armata di Boemia, comandata dal Principe Schwarzenberg.
Oscar, invece, guidava l’esercito francese che avanzava da sud ovest. La posizione non era delle migliori – e Oscar se ne rese conto ben presto – perché, a sud, i soldati erano esposti al cannoneggiamento dell’armata napoleonica stanziata sulla dorsale mentre, a ovest, il terreno era irregolare e pieno di paludi e di acquitrini.
Inizialmente, malgrado la superiorità numerica dei coalizzati, Napoleone ebbe la meglio. L’artiglieria dell’Imperatore rimbombava con veemenza, seminando molte perdite negli eserciti schierati in pianura. Come se ciò non bastasse, Bernadotte era pavido e irresoluto, non si decideva ad attaccare e fungeva da palla al piede, più che da supporto, del Feldmaresciallo prussiano von Blücher mentre, a est, il Principe Schwarzenberg aveva completamente sbagliato lo schieramento dell’Armata di Boemia.
– L’esercito russo agli ordini del Principe Eugenio di Württemberg è completamente allo sbando e ha perso tutti i suoi cannoni mentre l’Armata di Boemia del Principe Schwarzenberg ha fallito il suo attacco e, ora, è decimata – disse Oscar al suo Aiutante di Campo.
– Dobbiamo ritirarci, Generale, se non vogliamo fare la stessa fine – rispose l’Aiutante di Campo – Schierati in pianura, siamo completamente alla mercé di Bonaparte che ci tiene sotto tiro dalla dorsale.
– E’ escluso – tagliò corto Oscar – Ritirandoci verso sud, non cesseremmo di essere esposti, ma saremmo soltanto un poco più distanti di adesso mentre, a ovest, il terreno è paludoso e solcato da numerosi affluenti della Pleisse e dell’Elster che scorrono paralleli, rendendo la zona ancora più inospitale. Quell’ammasso di acquitrini non è per niente adatto a schierare e a muovere grandi quantitativi di artiglieria e di fanteria e le piogge degli ultimi giorni non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. Ritirandoci nelle paludi, l’esercito si sparpaglierebbe, perderebbe coesione, diventando inadatto ad attaccare e ancora più debole di fronte al fuoco dell’artiglieria nemica.
– Cosa dobbiamo fare, allora, Generale? Le perdite aumentano di ora in ora! Continuare così ci espone a un inutile massacro!
– Il nostro obiettivo non sarà avanzare dritti per guadagnare la dorsale, ma spostarci in diagonale, in direzione nord est – rispose, con decisione, Oscar – Dobbiamo muoverci in velocità e unirci alle truppe dello Zar e di Schwarzenberg che, a loro volta, stanno avanzando da est a ovest, nella speranza che Bernadotte la smetta di tentennare e che von Blücher si sbrighi ad arrivare da nord. In questo modo, quando ci saremo avvicinati alla dorsale, faremo un unico fronte compatto nel punto d’incontro e avremo più possibilità di vittoria.
– Ma questo vuol dire attraversare gran parte del campo di battaglia, restando sotto tiro dell’esercito schierato sulla dorsale!
– Sempre meglio che farsi massacrare da fermi! E ricordateVi che, mentre noi ci muoveremo verso nord est, Bonaparte tenterà sicuramente di sospingerci a ovest, verso le paludi.
Napoleone, infatti, dal suo quartier generale sulla collina di Thonberg, aveva notato la presenza di Oscar e, subito dopo la distruzione del contingente russo del Principe Württemberg e la decimazione dell’Armata di Boemia, aveva comandato di puntare l’artiglieria contro l’esercito francese, per costringerlo ad arretrare negli acquitrini.
Oscar, dal canto suo, diede ordine all’artiglieria di puntare verso la dorsale, specialmente in direzione della collina di Thonberg – più di un proiettile fischiò vicino alle orecchie dell’Imperatore – in modo da coprire l’avanzata a nord est della fanteria. La cavalleria sarebbe corsa avanti, in modo da rendere edotto lo Zar dell’arrivo dei francesi.
Dall’alto della dorsale, l’esercito napoleonico vide, in lontananza, un biondo ufficiale con la sua divisa turchese, in groppa a un cavallo bianco, guidare la cavalleria francese che correva a nord est come un fulmine mentre la fanteria si spostava in piccoli battaglioni, schierati su linee sfalsate.
Mentre l’esercito di Oscar tagliava trasversalmente il campo di battaglia, anche l’armata napoleonica, dopo il fuoco terribile dell’artiglieria, iniziò ad avanzare. L’Imperatore sperava di chiudere la questione il giorno stesso, con una vittoria decisiva, perché, più a lungo i combattimenti si fossero protratti, più si sarebbe acuito lo svantaggio numerico.
Nella seconda parte della giornata, però, la situazione di Bonaparte si aggravò, perché lo Zar Alessandro convinse il Principe Schwarzenberg a modificare lo schieramento, von Blücher indusse Bernadotte ad attaccare e Oscar raggiunse russi e prussiani. Mentre Napoleone contava le perdite, i coalizzati compensavano le proprie con afflussi continui di nuove riserve.
 
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Campagne di Lipsia, 18 ottobre 1813
 
Il 17 ottobre fu un giorno privo di scontri. Ciascuna delle due parti in campo attese invano l’attacco dell’altra e, sebbene l’Imperatore non avesse perso coraggio e determinazione, non poté fare a meno di notare che le truppe erano esauste e che le munizioni cominciavano a scarseggiare. Decise, quindi, di arretrare verso la città di Lipsia, in modo da tenersi aperta la via della ritirata, se le cose fossero volte al peggio.
La manovra dei coalizzati si stringeva sempre di più su Bonaparte e, nella notte, i soldati napoleonici si videro accerchiati dai fuochi di bivacco dei nemici.
La battaglia che si svolse il 18 ottobre, perciò, non ebbe luogo vicino alla dorsale, ma in posizione più arretrata. Singoli scontri si svolsero presso i vari villaggi disseminati nelle campagne di Lipsia che costituivano delle importanti posizioni strategiche. Molti di essi passarono da una mano all’altra anche sette volte, nel corso di una stessa giornata.
Oscar non poté fare a meno di notare che Bonaparte, sebbene arretrasse, manteneva un solido schieramento a semicerchio mentre le forze coalizzate procedevano senza coesione, in sei colonne d’attacco separate, disperdendo gran parte della loro forza d’urto.
I soldati napoleonici si battevano con coraggio e ardimento mentre i coalizzati erano disomogenei. I francesi di Oscar e i prussiani di von Blücher erano i meglio organizzati e i più valorosi; lo Zar sapeva il fatto suo anche se l’esercito russo non era ai livelli dei primi due; chiudeva la classifica Bernadotte che, sebbene si fosse, alla fine, deciso ad attaccare, era sempre il meno concludente.
La battaglia proseguiva e diventava di ora in ora più sanguinosa. Le perdite erano ingenti da una parte e dall’altra, ma i coalizzati compensavano coi nuovi afflussi mentre Napoleone non godeva di un uguale ricambio e stava pure finendo le munizioni.
I feriti si trascinavano a piedi o in rudimentali carrette nelle retrovie mentre i villaggi, teatri dei vari scontri, bruciavano e i resti della battaglia erano disseminati sul campo.
Oscar avanzava come la dea della guerra, con la spada sguainata, alla testa dei cannoni che incitava all’attacco. Ogni nuovo boato le sollevava la chioma e la accendeva di una luce sfavillante.
Fu allora che Napoleone la notò e, con tono secco e perentorio, ingiunse:
– Mirate al Comandante.
Due file di soldati, una in piedi e l’altra inginocchiata, presero la mira, ma André, che aveva seguito l’esercito come civile, accortosi della manovra, si gettò addosso alla moglie e la sbalzò in là di qualche metro. Napoleone, a quel punto, diede ordine di mirare su entrambi i coniugi che, ancora distesi per terra, costituivano un facile bersaglio, ma fu proprio in quel momento che due brigate di fanteria sassoni e alcuni reparti di cavalleria, sassoni e bavaresi, già alleati dell’Imperatore, mentre andavano all’attacco, si girarono all’improvviso e fecero fuoco sui soldati di Bonaparte.
La defezione dei sassoni e dei bavaresi creò un inaspettato diversivo che salvò Oscar e André. Subito dopo, lo Stato Maggiore dell’esercito francese pregò Oscar di sistemarsi in una posizione maggiormente strategica e riparata, più consona al Comandante di un esercito che doveva salvaguardarsi e sopravvivere per la salvezza di tutti.
L’ultimo scontro significativo della giornata fu quello per il possesso del villaggio di Schönfeld. I francesi di Oscar, i prussiani del Feldmaresciallo von Blücher, gli svedesi del corpo di Stedingk e i russi dei corpi di Langeron e di Saint Priest attaccarono senza sosta anche se le truppe napoleoniche si difesero disperatamente. Il villaggio passò di mano più volte finché l’armata napoleonica fu costretta ad abbandonarlo, battendo in ritirata nelle case, nei giardini e nel cimitero e giungendo, nella notte, fino ai sobborghi nordorientali di Lipsia.
La ritirata dei corpi decimati di alcuni Marescialli e Generali napoleonici si svolse nella notte, alla luce delle case in fiamme, in mezzo ai cadaveri mutilati, agli equipaggiamenti abbandonati e ai cannoni distrutti, mentre gruppi di sbandati entravano nella città, alla ricerca di cibo e di bottino.
 
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Città di Lipsia, 19 ottobre 1813
 
Verso le sette di sera del 18 ottobre, Napoleone ricevette un rapporto nel quale gli si comunicava che le munizioni residuavano soltanto per due ore di fuoco. Dispose, quindi, di ripiegare verso Erfurt e, dall’albergo di Lipsia “Alle armi di Prussia”, diramò gli ordini per la ritirata.
Le manovre di attraversamento di Lipsia iniziarono nelle prime ore del 19 ottobre e si protrassero nel freddo della notte e nelle nebbie del mattino. Si trattava di un’operazione che presentava un elevato rischio di ingorgo, perché, a est, quattro porte davano accesso alla città mentre, a ovest, una sola consentiva l’uscita. Malgrado ciò, le truppe transitarono con ordine e speditezza e l’intero attraversamento del centro abitato fu gestito con grande abilità.
L’esercito napoleonico tenne i nemici all’oscuro delle proprie intenzioni e i coalizzati, dal canto loro, non organizzarono adeguati pattugliamenti. Il risultato fu che gli inseguitori si accorsero di tutto alle sette del mattino e soltanto alle dieci e trenta si organizzarono per irrompere a Lipsia. A quell’ora, però, i due terzi delle truppe napoleoniche avevano già attraversato l’Elster.
Diversi reparti bonapartisti si batterono coraggiosamente a est, per impedire l’accesso dei coalizzati in città e l’inseguimento dell’esercito dell’Imperatore. Prussiani, russi, francesi, austriaci e svedesi progredirono con estrema lentezza, perché rintuzzati dalla retroguardia imperiale e dai cavalieri polacchi del Principe Poniatowski.
I soldati napoleonici lottarono con accanimento, difendendo le strade, gli accessi e gli edifici principali della città e, così, riuscirono a guadagnare tempo, costringendo il nemico a un combattimento all’interno dell’area urbana. La battaglia fu molto dura e si svolse principalmente sotto le porte orientali di Lipsia e nei vicoli prospicienti, finché un battaglione del corpo del Generale prussiano Friedrich Wilhelm von Bülow, guidato dal Maggiore Friccius, riuscì a irrompere nel centro della città.


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Quando il grosso delle truppe dell’esercito coalizzato si riversò nel centro di Lipsia, i combattimenti esplosero in tutta la loro veemenza mentre gli abitanti se ne stavano barricati in casa, dilaniati dai morsi della paura che, come una belva feroce, balzava loro al collo, al cuore e allo stomaco.
In groppa al suo cavallo bianco, Oscar attraversava le vie di Lipsia alla testa del corpo principale dell’esercito francese che, nel bel mezzo degli scontri, si imbatté in una colonna napoleonica. Il combattimento iniziò immediatamente e fu subito un susseguirsi di fendenti e di spari. I bagliori della luce, riflessa nelle spade e nelle lame delle baionette, precedeva di pochi attimi il clangore degli acciai incrociati mentre dense nuvole di polvere da sparo seguivano le deflagrazioni dei moschetti.
Oscar respinse con destrezza gli assalti di due soldati nemici, finché il fianco del cavallo da lei montato si scontrò con quello su cui sedeva un ufficiale napoleonico. La donna si voltò di scatto sguainando la spada, altrettanto fece il Generale nemico e Oscar si trovò faccia a faccia con Alain. I due rimasero di sasso, dopo che, ansando, si erano riconosciuti dietro le lame incrociate. Si guardarono increduli per qualche istante interminabile, finché non si salutarono con un cenno del capo, arretrarono senza darsi le spalle e, infine, si voltarono e si allontanarono in due direzioni diverse.
Nel frattempo, il disordine della retroguardia napoleonica cresceva, dovendo le truppe convogliare sull’unica porta che, a occidente, consentiva l’uscita dalla città.
Napoleone aveva già attraversato il solo ponte che, a Lindenau, consentiva il passaggio sul fiume Elster e, esausto, si era ritirato in un mulino e si era addormentato. Aveva dato ordine di far esplodere quel ponte dopo che le truppe fossero transitate, al fine di bloccare l’inseguimento nemico, ma, per errore, le mine furono innescate prematuramente e il ponte saltò in aria quando alcuni reparti lo stavano attraversando o erano ancora impegnati a combattere in città.
– E’ una Beresina senza il freddo! – gridavano alcuni.
– Tradimento! – ringhiavano altri.
Molti soldati caddero in acqua e altri tentarono di attraversare il fiume, a nuoto o in groppa alle loro cavalcature. La maggior parte fu trascinata dalla corrente e affogò mentre alcuni riuscirono a cavarsela, nuotando con la forza della disperazione. Fra questi ultimi, c’erano il Maresciallo Oudinot, il Maresciallo MacDonald e Alain. Sulla riva occidentale, intanto, la furia dei combattimenti si mischiava alle drammatiche scene di disperazione dei soldati abbandonati.
I militari napoleonici che non riuscirono ad attraversare e che non caddero in combattimento furono presi prigionieri. Fra questi, anche i Generali napoleonici Lauriston e Reynier e il Generale polacco Dombrowski.
A causa dell’inferiorità numerica, della scarsità delle munizioni e di alcuni errori tattici, Napoleone perse una battaglia non impossibile da vincere, dati la pessima coordinazione degli eserciti coalizzati, il dislivello di qualità di questi e i numerosi e, a volte, eclatanti, sbagli da loro commessi.
L’Imperatore, tuttavia, rimase ostinatamente cieco di fronte allo sgretolamento del suo potere e al disvelarsi della fragilità del suo impero. In cuor suo, continuava a nutrire migliaia di illusioni e a pensare come quando era un giovane ufficiale con il fuoco nelle vene e il mondo in mano.
 
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Piemonte, Palazzina di caccia di Stupinigi, 4 aprile 1814
 
Dopo la disfatta di Lipsia, l’Imperatore si era ritirato nel Regno d’Italia, ma i coalizzati lo avevano seguito, infliggendogli altre sconfitte e arrivando a occupare Milano. Il Maresciallo Marmont si era, quindi, consegnato con tutti i suoi uomini ed era passato dalla parte del nemico.
Il Senato si era riunito e aveva dichiarato Napoleone decaduto dalle funzioni imperiali.
Questi, invece, aveva ripiegato su Stupinigi e, lì, aveva convocato il suo Stato Maggiore per impartire le istruzioni in ordine alle future mosse. Quello che l’Imperatore non sapeva era che, nello Stato Maggiore, serpeggiavano il più grande malcontento, una profonda stanchezza e l’amara consapevolezza della disfatta finale. I risultati di una politica imperialista e aggressiva protrattasi per anni si stavano manifestando tutti insieme e il redde rationem era sotto gli occhi di tutti.
In questa situazione, anche Alain aveva fatto la sua parte. Dopo la fuga dall’accampamento dei Cosacchi, il Generale de Soisson era tornato nell’esercito e aveva deciso di raggiungere il suo obiettivo, anziché con attentati e altre iniziative estemporanee, con una metodica e capillare opera di persuasione. Stando bene attento a non dare nell’occhio e a non farsi scoprire, aveva espresso ai Marescialli, ai Generali e agli altri ufficiali superiori ciò che essi stessi, in cuor loro, sapevano. Dopo oltre quindici anni di guerre e di campagne militari, la fine era arrivata. Napoleone non si sarebbe mai fermato e occorreva, quindi, abbandonarlo prima che trascinasse tutti nella sua rovina.
Dopo essersi seduto a capotavola nella grande Sala che ospitava il Consiglio Privato, l’Imperatore ordinò di fare entrare i Marescialli. Questi camminarono ordinatamente in fila indiana e, nel più assoluto dei silenzi, si sedettero anche loro intorno al tavolo. Nessuno aveva il coraggio di guardare in faccia l’Imperatore che, nei loro volti, scorse stanchezza e rassegnazione.
– Bene, amici miei – disse Napoleone, fingendo di non accorgersi dei loro stati d’animo – Vi ho convocati per renderVi edotti delle prossime mosse. Mi rimane ancora un esercito di sessantamila uomini. Partiremo per il Reno e taglieremo le linee di rifornimento dei coalizzati. In questo modo, li obbligheremo a chiedere un armistizio, nel corso del quale potenzieremo l’esercito e ci organizzeremo al meglio.
– La guerra è finita, Sire – disse il Maresciallo Ney con tono grave, ma fermo – L’impero è caduto, l’esercito è distrutto, le casse dello Stato sono vuote e il popolo non ne può più della guerra e reclama la pace!
– Quante esagerazioni! – protestò Napoleone, sforzandosi di non apparire troppo sprezzante – La situazione era molto più disperata a Marengo eppure ne siamo usciti vittoriosi a fine giornata!
– Questo successe molti anni fa, Sire – ribatté il Maresciallo Ney – quando eravamo tutti più giovani. Se avessimo perso quella battaglia, avremmo, comunque, potuto vincere la guerra. Ora, Milano è caduta in mano ai nemici, l’impero è crollato, lo Stato è perso. Non c’è più ragione per combattere.
– Chi se ne importa dello Stato, sono io lo Stato! Finché ognuno di noi sarà in grado di brandire un’arma, ci sarà sempre una ragione per combattere! – sbottò, con rabbia, Napoleone.
– Questi, Sire, sono i ragionamenti di chi vede nella guerra non un mezzo, ma un fine – rispose, con tranquilla fermezza, il Maresciallo Ney.
– Tradimento! – urlò, con occhi iniettati di sangue, l’Imperatore.
– No, Sire, il tradimento è commesso quando un uomo, qualsiasi uomo, va contro gli interessi di una Nazione. Se non tratterete Voi la pace, lo farò io.
– Maresciallo Ney, siete bandito dalla nostra presenza! Siete sollevato dal Vostro incarico, gradi militari e titoli Vi sono revocati con effetto immediato! Uscite da questa stanza immediatamente!
– No.
– Come “no”?!
Poi, rivolto a tutti, gridò:
– Avete giurato di obbedirmi e di essermi fedeli!!
– Io ho giurato fedeltà anche allo Stato, Sire – disse il Maresciallo MacDonald – e mi è impossibile tenere fede a entrambi i giuramenti. Il giuramento allo Stato vale più di quello all’Imperatore!
– E Voi? – tuonò Napoleone, rivolto al Maresciallo Victor.
– Sono d’accordo con i Marescialli Ney e MacDonald – rispose, pacatamente, Victor.
– Davout! – ringhiò Napoleone.
– E’ finita, Sire – disse, con tristezza, il Maresciallo Davout.
– Soult! – insistette l’Imperatore.
– Siamo stati sconfitti, non c’è più ragione di combattere – rispose il Maresciallo Soult.
– Codardi! Ingrati! Se nessuno di voi è un uomo, se a nessuno di voi residua un briciolo d’onore, andate all’inferno! Convocherò Marmont e con lui guiderò il mio esercito!
– Il Maresciallo Marmont la pensa come tutti noi, Sire – replicò, con dolore, il Maresciallo Ney – e, anzi, egli è andato ben oltre, consegnandosi al nemico con tutti i suoi uomini.
– E allora, visto che siete tutti degli incapaci, dei vigliacchi, dei traditori e degli ingrati, pronti ad abbandonare il loro Imperatore nel momento del maggiore bisogno, vi destituirò tutti e promuoverò Marescialli quei Generali che ancora sanno cosa sono il coraggio e la lealtà!
– Tutti gli ufficiali superiori la pensano come noi, Sire – disse, con voce ferma, Ney – O credevate che Vi avremmo affrontato senza prima consultarli e raccoglierne gli umori? E’ finita, Sire! ArrendeteVi, guardate in faccia la realtà o volete che gli ufficiali si rivoltino contro gli ufficiali, i soldati contro i soldati e che l’esercito divori se stesso? Volete che tutto finisca così, Sire?
– Cosa vorreste che io facessi? – sbuffò Napoleone, ormai solo in mezzo a tutti.
– Abdicate, Sire, per il bene del Vostro popolo! Abdicate in favore di Vostro figlio!
– Occorre una proposta di resa da presentare ai nemici.
– L’abbiamo predisposta noi, Sire. Basta che la firmiate.
– Vedo che avete pensato a tutto. Bene, spero che abbiate preso la decisione giusta altrimenti il popolo non vi perdonerà mai.
 
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Piemonte, Palazzina di caccia di Stupinigi, 12 aprile 1814
 
Nei giorni che seguirono il drammatico confronto fra Napoleone e i Marescialli, il Ministro degli Esteri Caulaincourt e il Maresciallo MacDonald si recarono a Milano per trattare con le potenze vincitrici. Al loro ritorno, comunicarono all’Imperatore che sarebbe stata accettata soltanto un’abdicazione incondizionata e non a favore del Re di Roma.
Napoleone divenne abulico e inappetente. Era trasandato, passava le sue giornate seduto scompostamente su una sedia accanto a un caminetto acceso e rifiutava di toccare cibo. Il mondo gli stava crollando addosso ed egli non aveva la forza di lottare né di rassegnarsi. I nemici avrebbero trionfato su di lui e avrebbero fatto di lui il loro zimbello mentre gli amici lo avrebbero compatito ed egli non sapeva decidere quale delle due situazioni considerare la peggiore. Alla fine, ripensò alla fiala di veleno che il medico personale gli aveva consegnato due anni prima, quando era fuggito dalla Russia per tornare a Milano ed ebbe un’illuminazione. Si sarebbe ucciso, togliendo a se stesso l’umiliazione della sconfitta e della prigionia e ai nemici la vittoria su di lui. Si era incoronato da solo, perché nessun altro uomo sarebbe stato degno di farlo. Allo stesso modo, si sarebbe dato la morte da solo.
Sciolse il contenuto della fiala in un bicchiere di vino, mescolò il liquido e bevve tutto d’un fiato.
Il medico gli aveva assicurato che la morte sarebbe stata rapida e indolore. Col passare del tempo, invece, cominciò ad avvertire degli spasimi dolorosissimi allo stomaco e all’intestino e a sudare copiosamente.
A un certo punto, il Ministro degli Esteri entrò nella stanza e lo vide in quelle condizioni.
– Sire, Voi state male, vado a chiamare il medico!
– No, Caulaincourt, lasciate stare, sto morendo…
– Ma, Sire!
– No, muoio di mia mano, per togliere ai miei nemici il piacere di avermi in pugno… ma sedete, voglio dettarVi le mie ultime volontà…
Incerto e spiazzato, Caulaincourt sedette e tirò fuori da una tasca del giustacuore un taccuino.
– Voglio che si sappia che non sono un guerrafondaio come mi dipingono… Ho sempre voluto la pace e l’ordine fra i popoli, soltanto che, per ottenere questo risultato, li ho dovuti sottomettere alla mia volontà… Desidero che i miei nemici non si accaniscano su coloro che hanno fatto fortuna durante il mio regno, ma che li lascino prosperare e ne riconoscano gli indiscussi meriti… Se a mio figlio non sarà concesso regnare, desidero che sia educato nel rispetto della mia memoria e che gli sia dato conoscere le mie imprese senza acredine e pregiudizi… Mia moglie potrà tornare in Austria da suo padre… E’ tutto, potete andare… Tornate domani mattina, quando tutto sarà finito…
Caulaincourt obbedì con riluttanza e se ne andò.
Rimasto solo in camera, Napoleone si mise in attesa della morte, contorcendosi per gli spasimi sempre più forti e vomitando. Ogni conato di vomito e ogni sforzo gli causavano un immenso dolore. In cuor suo, malediceva il medico che gli aveva garantito una morte rapida e indolore e si rammaricava di non essere caduto in battaglia. Sarebbe stato molto più eroico e onorevole mentre, in quella morte dolorosa e abietta, non c’era alcuna gloria.
L’alba arrivò e lo trovò ancora vivo. Il veleno, consegnatogli due anni prima, aveva perso il suo effetto e non l’aveva ucciso, facendolo soltanto soffrire terribilmente.
Quando Caulaincourt fece timidamente capolino nella stanza e lo trovò vivo, fu attraversato da un moto di sollievo.
– Sire, posso chiamare il medico?
– Sì, Caulaincourt, chiamatelo. Visto che non devo morire, voglio almeno porre fine a questa sofferenza.
Nei giorni successivi, l’Imperatore si riprese lievemente, ma rimase debole e pallido.
Trascorsi altri giorni ancora, Caulaincourt portò a Napoleone le condizioni imposte dai vincitori.
– Potrete conservare il titolo di Imperatore, ma dovrete andare in esilio, a vita, sull’isola d’Elba di cui sarete Principe. Questa è una concessione dello Zar, perché i prussiani volevano fucilarVi. Potrete portare con Voi mille soldati e tutti i servitori di cui avrete bisogno e Vi sarà assegnata una rendita di due milioni di franchi l’anno. I Vostri congiunti dovranno rinunciare alle loro corone in cambio di una rendita annua e all’Imperatrice sarà assegnato il Ducato di Parma.
– Quanto tempo ho per accettare?
– Dovrete firmare entro la mezzanotte di domani, Sire, altrimenti la proposta sarà ritirata e sarà emessa una taglia sulla Vostra testa per la Vostra cattura.
Napoleone si sentì in trappola. Se non avesse firmato, sarebbe stato trattato come un criminale comune. Vergò i fogli con uno stato d’animo altalenante fra la stanchezza e il disgusto e, poi, rimise la penna nel supporto, con gesto secco.
– Quando dovrò partire per… quel misero puntino al largo delle coste toscane?
– Appena avrete la conferma che i coalizzati hanno ricevuto il trattato, Sire – rispose il Ministro degli Esteri, passando il tampone sul foglio.
Napoleone fissò il vuoto con sguardo assente, reclinò il capo sul torace e tornò alla sua abulia.







Il personaggio di Laure, sorella minore di Geneviève d’Amiens, compare nel quarantaduesimo capitolo, intitolato: “Nella tela del ragno”.
Lo scambio di battute fra Napoleone e Talleyrand ha avuto veramente luogo, ma si è svolto nel 1809 e non nel 1813.
E’ reale l’episodio della fanteria sassone e della cavalleria sassone e bavarese che, mentre andavano all’attacco, si voltarono all’improvviso e fecero fuoco sulle truppe napoleoniche. In questo capitolo, l’ho usato come éscamotage per salvare Oscar e André dalla morte.
Sono veri anche il colloquio fra Napoleone e i Marescialli e il tentato suicidio dell’Imperatore che, però, non si svolsero a Stupinigi, ma a Fontainebleu. L’ultima immagine ritrae Napoleone proprio a Fontainebleu ed esiste un’antica fotografia di quel quadro. Si era sparsa la voce, ovviamente infondata, che si trattasse di una fotografia, non del quadro, ma proprio di Napoleone.
Grazie, come al solito, a tutti quelli che mi hanno accompagnata fin qui e a chi vorrà leggere e recensire.
   
 
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