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Autore: Aaeru    02/05/2023    8 recensioni
Su suggerimento dell'amica Chiara, ho provato a dare un seguito alla narrazione di "La sola cosa da fare": qui si entra nel territorio impervio del "What if" ma spero comunque di non aver tradito lo spirito dei personaggi originali. Mi saprete dire...
Un ringraziamento particolare a Xwaterice per la consulenza medica! ;-)
Genere: Drammatico, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Giungono a Palazzo Jarjayes sotto la pioggia battente. Marie è ancora sveglia, intenta a passare meticolosamente in rassegna i piani del lussuoso edificio per assicurarsi che ogni finestra sia ben chiusa. Avrebbe potuto delegare il noioso compito a qualcuna delle servette più giovani, come Julie o Armandine, ma non ha ancora perso la vecchia abitudine di attendere, senza farsi notare, il ritorno dei “suoi bambini” e vagare tra un’ala e l’altra è una buona scusa per dissimulare un’inquietudine che sente più opprimente del solito.

Il fulmine che squarcia il buio fradicio svelando l’anonima carrozza dà, infine, ragione dell’acidità che le impasta la bocca. Non ha bisogno di aprire lo sportello per indovinare l’identità dei passeggeri, così lascia che sia Jacques, il giardiniere, a farlo per lei. Lo sa Dio dove l’anziana governante trovi la forza di non svenire di fronte al tremendo spettacolo di quei tre corpi in vita malgrado i segni inequivocabili del massacro. Chiama in aiuto Robert e Marc per aiutare Jacques a scaricarli quando André si ridesta regalandole un sorriso sghembo: “Siamo vivi, nonna, siamo vivi”, mormora mentre cerca di raddrizzarsi, attento a non lasciar scivolare Oscar, abbandonata contro la sua spalla sinistra.

“Lo vedo, André”, risponde Marie con un filo di voce.

 

“Nonna, devo restare con Oscar”, puntualizza il nipote quando si accorge che Robert lo sta accompagnando nella sua stanza.

“Sì, ma prima dovete essere visitati”, concede Marie severa.

L’altro capisce di doversi far bastare quella secca rassicurazione e si arrende. Ma gli pare infinita l’attesa del dottor Lassonne da cui spera di ottenere notizie positive, non tanto riguardo alle  proprie condizioni quanto a quelle di lei, che deve aver battuto la testa piuttosto violentemente a giudicare dal gonfiore all'altezza della nuca che ha sentito stringendola a sé.    

Risponde distratto alle domande dell’assistente del medico, mentre l'eccitazione del pericolo ha ormai lasciato il posto a un dolore sordo che morde tendini e muscoli con la tenacia ossessiva di un cane rabbioso. Tuttavia, si bagna appena le labbra con il laudano offertogli dal giovane dottor Perrin temendo di addormentarsi prima che Lassonne passi di lì.

Le membra cominciano a cedere al languido abbraccio degli oppiacei, quando  sente bussare discretamente e sulla porta della camera appare il volto tanto atteso.   Dopo un puntuale resoconto, Perrin si congeda lasciando André nelle mani  del superiore.

“Ultimamente ci si vede troppo spesso per i miei gusti”, scherza il dottor Lassonne cercando di stemperare la tensione.

“Non vi do torto, dottore”, conviene André fiacco e porge l’unica domanda che davvero gli preme “come sta Oscar?”

“La spalla sinistra era lussata ma ho già provveduto a sistemarla. Certo, avrà bisogno di qualche settimana per riacquistare piena mobilità, prima di riprendere le normali attività lavorative”, risponde l’altro sfregandosi il collo, incerto su come proseguire. L’esitazione non passa inosservata.

“Sì, ma la testa?” 

Sospira Lassonne cercando di prendere tempo. 

“Dottore?”, insiste André, i cui sensi sono acuiti dall’apprensione. 

Inutile fingere…

“Non ti nascondo, figliolo, che la botta sembra essere stata forte: per saperne di più devo tenerla in osservazione ancora per qualche ora. Comunque è già buono che si sia svegliata dopo la caduta. E prima che tu me lo chieda: non è il caso che tu vada a trovarla subito. In situazioni simili ho osservato spesso forme di amnesia temporanea: potrebbe non ricordare quanto è avvenuto nelle ultime ore e vederti in queste condizioni la agiterebbe inutilmente. Ma, quando sarà possibile, farò in modo di avvertirti. Intanto pensa a riposare: non ne hai meno bisogno di lei”.

“Vi ringrazio, dottore”, risponde André, deluso e sollevato allo stesso tempo. 

“Prima di andarmene… Come va l’occhio destro? Immagino sia inutile ribadire che la vita militare non sia certo l’ideale per un uomo nelle tue condizioni…”

“Vi sono riconoscente, dottor Lassonne, ma sapete già come la penso su questo punto: qualunque cosa succeda, ho un impegno che devo onorare. Ad ogni modo, negli ultimi tempi sono stabile”, mente risoluto il giovane, “piuttosto, avete avuto notizie da quel vostro collega di Lione? Come si spiega il mio caso, con tanti uomini che vivono tranquillamente con un occhio solo?”

“Francamente, André, neanche il mio esimio collega, che pure è un luminare, ne è ancora venuto a capo. Però dovrebbe passare da Parigi il mese prossimo e sarà ben lieto di visitarti, se lo vorrai”.  

“Grazie infinite, dottor Lassonne, non mancherò”.

“Purtroppo non posso fare di più, André. Ora riposa”, si congeda il medico porgendo al paziente il bicchiere col laudano. Il giovane beve un lungo sorso e si abbandona, finalmente, al sonno. 

 

Sono invece imperiosi i colpi che trascinano la coscienza di André fuori da un torpore vischioso e senza sogni. Le palpebre svogliate si ritirano lasciando la pupilla superstite inerme di fronte al chiarore sorprendentemente fastidioso di un’alba senza nuvole. 

Gli ci vuole un attimo a realizzare l’identità dell’inopportuno, quanto solerte, visitatore. Quando ci riesce, la stanchezza è più forte di ogni obbligo di rango e così gli è impossibile assumere una posizione consona a salutare dignitosamente il Generale Jarjayes, che lo sta fissando rigido ai piedi del letto. Si sorprende di notare che saranno passati ormai vent’anni dall’ultima volta che quell'uomo da lui temuto, amato e, talvolta, anche odiato, ha bussato alla sua porta. Allora gli aveva ordinato di influire sulle scelte di Oscar: intuisce che stavolta non sarà diverso. 

“André, dobbiamo parlare”, esordisce il padrone, il tono della voce indecifrabile. Con un enorme sforzo di volontà il servo solleva il busto per mettersi almeno seduto, mentre l’altro prende a passeggiare nervosamente per la stanza. Il comportamento anomalo allarma André, ormai del tutto sveglio, nonostante l’ebbrezza indotta dal farmaco. 

“Pensavo fosse finita, André, pensavo che voi…”,  riprende il Generale senza guardarlo, come parlando a se stesso. 

Illudendosi di aver compreso il giovane s’inserisce nel flusso di parole con pacata risolutezza: “Generale, sono mortificato per quanto avvenuto  ieri sera: comprendo di aver mancato al mio dovere di difendere Oscar. Vi chiedo perdono, non sono stato all’altezza del compito, malgrado l’inferiorità numerica possa, in qualche modo, giustificare il mio fallimento. Ma forse avrei comunque potuto fare di più: credetemi, non mi darò mai pace per questo. Sono pronto ad accettare qualsiasi castigo riterrete opportuno”.

Alla parola “castigo” il Generale si ferma e si volta lanciando ad André uno sguardo allucinato. “Che hai capito, sciocco!”, latra avvicinandosi alla pediera e aggrappandosi come per evitare di sprofondare, “Credi forse che pretenda l’impossibile da te?! Non è questo che intendevo! Piuttosto dimmi che state combinando! Pensavo che fosse finita tra voi, mi aveva detto che era FINITA!”

L’altro trasalisce dallo stupore. Ma de Jarjayes incalza: “Mia figlia ha rifiutato fior di pretendenti. Si è giustificata dicendo che, nonostante l’abbia cresciuta come un uomo, si è innamorata come qualsiasi altra donna. Anzi, mi ha ringraziato dicendo che proprio l’addestramento a cui è stata sottoposta, fin da bambina, le ha permesso di superare la delusione di un amore senza futuro”.

Non è di me che stava parlando, Generale, verrebbe da ribattere ad André, inaspettatamente colto dall’effimero pizzicore di una gelosia antica. Nondimeno tace, consapevole della vacuità di un tale puntiglio.

“Confesso che non ho osato chiedere di più perché temevo la risposta”, prosegue il Generale, la voce rabbonita dall’imbarazzo, “e poi Oscar mi aveva fatto capire che, di chiunque si trattasse, era acqua passata”. 

Acqua passata… Il cuore di André esulta malgrado la paradossalità del momento. 

“Quindi ho cercato di essere comprensivo quando si è presentata al ballo organizzato da Bouillé in uniforme e tu non hai fatto nulla per farle cambiare idea”, prosegue torvo de Jarjayes avvicinandosi al capezzale.

“Ti ho perdonato, André. Ma non illuderti di poter pretendere di più: NON È COSÌ CHE ANDRÀ”, tuona sovrastando il disorientato ex attendente.

“Generale, io…”, cerca inutilmente di schermirsi il giovane: l’altro ha già ripreso la sua filippica, abbrancando  le spalle tumefatte del ferito.

“Bada, André, sto facendo uno sforzo immane per non  pensare a quello che potrebbe essere già successo tra voi: se cedessi ti ammazzerei immantinente.  Ma per rispetto a quella povera donna di tua nonna, che mi serve fedelmente da tanto tempo, e la devozione che tu stesso hai dimostrato nei confronti della nostra famiglia, mi accontenterò del fatto che non ci siano state conseguenze irreparabili. Tuttavia, non posso ignorare che mia figlia, ferita e stordita dal laudano, abbia passato la notte a invocare il tuo nome con lo struggimento di un’amante. Non te la posso lasciare, André, non posso lasciartela. Sarebbe PERDUTA per sempre!”, chiosa paonazzo, l’ultimo grido si strozza in gola. 

Di colpo molla la presa e si volta come a prendere le distanze dal momento troppo concitato. Il tempo di riprendere fiato prima di pronunciare l’imposizione definitiva con ritrovato cipiglio e lo sguardo implacabilmente puntato sull’insospettato nemico: “Ti ordino di andartene, André: appena sarai in forze lascerai questa casa e, soprattutto, la Guardia Metropolitana. Potrai tornare a trovare tua nonna quando vorrai, ma solo in assenza di Oscar. Non c’è altra soluzione, mi dispiace”.

È tutto?, si chiede poi con amarezza. No, c’è ancora qualcosa da aggiungere: “André, sappi che non ho preso questa decisione a cuor leggero. Anzi, sono consapevole di causare profonda sofferenza a tutti, me compreso.  Se tu fossi stato un nobile, avrei caldeggiato la vostra unione perché so che l’avresti fatta felice, ma il destino ha deciso diversamente. Sei un uomo intelligente, lo sei sempre stato, quindi sono certo che capirai”. Potrebbe congedarsi ma resta in silenzio, in attesa di una risposta che avverte non così scontata. 

Sulle prime, il volto adulto di quel ragazzetto bretone, mite ma caparbio, che ha accolto sotto il proprio tetto al solo scopo di intrecciarne il destino con quello della figlia, non restituisce alcuna emozione. Poi le labbra si muovono articolando una sola sillaba, tra tutte, la più inopportuna, per un servo e per un soldato: “No”.

De Jarjayes trasecola, mentre l’altro prosegue senza dargli tempo di ribattere:  “No, Generale, mi spiace, ma non posso farlo. Non posso fare quello che mi chiedete”.  E con tono assurdamente gentile, quasi dispiaciuto, ma fermo, dichiara: “ho preso un impegno con voi e non verrò meno alla promessa fatta. Ho giurato di proteggere Oscar da qualsiasi cosa, o persona, possa minacciare la sua incolumità, compresa lei stessa, e non posso infrangere questo giuramento. Nemmeno se è lei o se siete voi a chiedermelo. Lascerò questa casa, se ritenete la mia presenza inopportuna, ma non lascerò la Guardia Metropolitana finché Oscar ne sarà il comandante. Non abbandonerò  vostra figlia finché avrò vita”.

“Idiota! Ti rendi conto della conseguenza delle tue azioni? Non si tratta di te, si tratta di…”, cerca di ribattere il Generale con incerta protervia.

“Si tratta di Oscar, certamente. E non farei mai nulla che possa danneggiarla. Sarebbe inutile, ormai, negare i sentimenti che nutro per vostra figlia. D’altra parte, non c’è ordine al mondo che possa cancellarli. L’unico limite ad essi è la volontà di Oscar”.

    “Attento a come parli, André: non abusare della mia pazienza! Per sposarsi un nobile ha bisogno del permesso del re!”, ruggisce il Generale. 

    “I sentimenti di un re sono uguali a quelli di qualsiasi altro uomo: non servono permessi per innamorarsi. Del resto, non ho pretesa alcuna, nemmeno che vostra figlia mi corrisponda”, replica André con composta ostinazione. L’orgoglio del cuore innamorato  è più efficace  del laudano sui dolori della nottata appena trascorsa: “Tornerò in caserma oggi stesso”, annuncia ebbro di sincerità. Ma la spavalderia ha ormai rotto pericolosamente gli argini:

“Permettetemi di farvi una domanda, Generale: perché avevate deciso di concedere la mano di Oscar?”, affonda insinuante, “Non credo che fosse perché non la ritenete all’altezza  del compito affidatole: avreste fatto un torto alle capacità di vostra figlia e a voi stesso. E i fatti lo hanno dimostrato. Credo piuttosto che vi siate reso conto di cosa sta diventando la Francia e che voleste ingenuamente sottrarla al pericolo incombente: allora sappiate che essere sposata a un nobile non le avrebbe risparmiato un fato diverso da quello che ci ha sfiorati stasera, se non addirittura peggiore”. 

Il manrovescio stizzoso che infierisce sulla guancia enfiata di André ha il sapore amaro del déjà-vu, ma l’effetto è alquanto diverso, com’è diversa la mano che si è abbattuta. 

“Generale, vi chiedo perdono: mi sono spinto troppo oltre con le mie parole”, si ammansisce, mentre nello sguardo dolente dell’altro legge la fine del loro rapporto, di qualunque natura esso sia stato.

“Niente scuse, André. In fondo, c’è del vero in quello che hai detto. Questo però non cambia la realtà delle cose, purtroppo”, ammette il Generale, “Come padre ho il dovere di vegliare su mia figlia, fare tutto ciò che è in mio potere per evitare che si rovini l’esistenza. Non posso agire diversamente, per quanto doloroso sia. Ti ho trattato come un figlio, nei limiti delle insopprimibili differenze di classe che ci dividono.”

 Insopprimibili per questa società, forse…

I due uomini si fissano in silenzio per un istante che pare infinito. È  André a infrangere la ritrovata calma apparente: “Generale, vi sarò eternamente riconoscente per tutto ciò che mi avete dato, ma non posso venir meno alle mie priorità nemmeno per la gratitudine che provo nei vostri confronti. Mi dispiace”.

“Anche a me. Sappi che non serbo rancore nei tuoi confronti ma non si può fare altrimenti. Che Dio ti protegga, André. Addio”, si congeda in fretta de Jarjayes per non tradire oltre la sua commozione.

Rimasto solo il giovane si siede, con qualche incertezza, alla scrivania per vergare poche frasi dalle linee traballanti quanto netto è il pensiero che le guida. Infila il foglio asciugato in una busta bianca, raccoglie poche cose utili in una sacca, indossa un’uniforme pulita e scende nelle cucine dove  trova Marie già indaffarata ad avviare complessi ingranaggi che mandano avanti Palazzo Jarjayes.

“André, che ci fai in piedi?!”, esclama con voce chioccia l’anziana governante, desolata alla vista del nipote in divisa. 

“Te ne vai già?”, chiede con un filo di voce.

“Tornerò presto, nonna”, promette lui attirandola a sé e depositando un bacio lieve sulla cuffietta inamidata.

“Ma perché?”, domanda inutilmente Marie, che conosce già la risposta. Non può guardarlo in faccia mentre lo chiede perché lui la sta stringendo forte.

“Hai passato con lei gran parte della notte, quindi l’hai sentita. Lo sai perché”, risponde il giovane intenerito. Poi tira fuori di tasca la busta bianca: “Questa è per Oscar. Dagliela solo quando sarà bene sveglia e in forze, per cortesia. E se, nel frattempo, ti chiede di me, dille di non preoccuparsi, che sarò in caserma ad aspettarla. Ti voglio bene, nonna. Grazie di tutto”.

“Ti voglio bene anch’io, figliolo”, risponde Marie in un singhiozzo mentre si riempie gli occhi della figura del nipote che si allontana verso una nuova vita.

   
 
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