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Autore: Lily Liddell    03/09/2023    0 recensioni
Un essere umano e Loki collaborano da anni, finché qualcosa non disturba la loro pacifica relazione di fedele-venerato.
Per poter continuare ad avere il dominio del caos, Loki dovrà affidarsi ai suoi seguaci e ad altre divinità, altrimenti potrebbe essere la fine dei giochi per il dio degli inganni.
Si prospetta una lunga avventura.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Bondage, Contenuti forti, Violenza
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Astrid stava fumando sulle scale d’emergenza che passavano proprio fuori la finestra del suo appartamento. Da lì riusciva a vedere un piccolo spicchio di New York che, nonostante fosse mattino presto, era già molto più sveglio di lei.
Con una tazza di caffè fumante in grembo e lo sguardo perso, rivolto verso il cielo, Astrid non riusciva a concentrarsi su un pensiero fisso, troppo distratta dalla forma delle nuvole. Piccole e bianche, preannunciavano pioggia.
Le sue gambe penzolavano, le faceva oscillare avanti e indietro, rilassata.
Si portò la sigaretta alle labbra, tirò una lunga boccata di fumo, trattenendolo in bocca e ingoiandolo, prima di soffiarlo via.
A pochi metri da lei, mentre beveva un sorso di caffè, si appollaiò un corvo dalle penne bianche e gracchiò.
«Fuori dalle palle,» disse, in tono fermo, senza neanche guardarlo.
Il corvo, di tutta risposta, gracchiò di nuovo e si avvicinò. Messa giù la tazza, stizzita, si allungò per cacciare l’animale con le maniere forti.
«Sciò, via!» lo intimò, ma nello scacciarlo a bracciate perse l’equilibrio.
In un attimo si ritrovò a cadere, oltre la scala antincendio. Il corvo saltò, prese a fissarla e a lei sembrò di piombare nel nulla a rallentatore. L’uccello gracchiò, la sigaretta che le era sfuggita dalle mani, adesso roteava davanti ai suoi occhi.
«Figlio di puttana…» si ritrovò a dire, o a pensare, in quelli che presumibilmente erano i suoi ultimi attimi di vita.
Si ritrovò distesa supina, la schiena poggiata su una spiaggia. Aprì gli occhi, due occhietti piccoli e neri la fissavano dall’alto. Il corvo bianco era ancora lì e gracchiò.
Astrid, confusa, si tirò su poggiandosi sui gomiti. Guardandosi bene intorno, si rese conto che più che su una spiaggia sembrava essere finita in un deserto nel bel mezzo di un’aurora boreale. Dune e dune di sabbia si susseguivano davanti a lei, mentre il cielo scuro era dipinto da colori freddi che si mischiavano fra loro dando vita a forme spettacolari.
«Sono morta?» chiese, più a se stessa che al corvo. «Se sono morta per colpa tua ti tiro il collo».
Lui gracchiò, poi spiccò il volo e fece un giro sulla testa di Astrid, che lo seguì con lo sguardo. Una volta tornato dov’era, si appollaiò su una porta che prima non c’era.
In realtà, le porte erano tre. Lui era sulla terza, contando da sinistra. Gracchiò di nuovo, sembrava impaziente.
«Non— non ho tempo per queste stronzate. Che sta succedendo?» chiese, ma non successe nulla. Astrid era curiosa, ma non abbastanza da fiondarsi ad aprire una porta di cui non sapeva nulla.
Andò a vedere cosa nascondessero dietro ma sembravano solo tre porte posizionate nel mezzo del nulla. Tutte e tre identiche, di legno scuro, con un unico pomello nero laccato e nessuna serratura.
Non si fidava neanche un po’ del corvo, quindi, prima di scegliere la porta che lui stava chiaramente indicando, si fermò a riflettere. Non poteva sapere cosa ci fosse dietro quelle tre porte, non sapeva cosa sarebbe successo scegliendo quella sbagliata — non sapeva nemmeno se ce ne fosse una giusta o solo una “meno peggio”.
«Merda…» borbottò fra i denti, mentre, gettata la spugna e dicendosi che non poteva avere alcun metro di giudizio verso le tre porte, se non un’effettiva affinità che aveva sempre avuto col numero tre, fin da bambina, decise di fidarsi del corvo bianco.
Aperta la porta, si ritrovò a fissare una landa ghiacciata; fece un passo avanti e ci finì dentro.
Stava congelando, faceva talmente freddo che non c’era neve. Il mare gelido andava avanti per chilometri. Era impossibile anche solo vedere dove finisse e cielo e mare si incontravano all’orizzonte.
Il cielo stellato era colorato di sfumature che andavano dal blu intenso al color lavanda.
Sotto ai suoi piedi c’era una spiaggia fatta di sassi e dal lato opposto alla riva del mare si stagliava una catena montuosa altissima, di cui a stento vedeva le vette circondate da nuvole.
Il suo fiato veniva subito condensato in vapore bianco; scaldarsi le braccia con i palmi delle mani era inutile.
Pensandoci, sembrava di essere in qualche punto indefinito dell’Helheimr, il regno dei morti. Anche se in teoria ci sarebbero dovute essere tutte le anime dei defunti a vagare senza meta e invece era completamente sola. Sperava di essere ancora viva…
Il gracchiare del corvo la riportò alla realtà, e si rese conto che si era allontanato.
«Muninn, se mi hai ammazzata giuro che mi vendicherò in qualche modo, brutto stronzo…»
Il corvo la fissò in silenzio, se ne stava con le zampe artigliate a una pietra più grossa e, accanto a questa, era sbocciato un singolo geranio rosso dal colore incredibilmente intenso.
Come fosse possibile che un fiore potesse nascere in condizioni climatiche simili, Astrid non se lo spiegava, ma si avvicinò comunque. Muninn gracchiò quando lei si avvicinò.
«Che cazzo di fine ha fatto tuo fratello, eh?» senza neanche aspettare di ricevere una risposta, si inginocchiò accanto al fiore e lo colse.
Appena toccò i petali, gli occhi di Astrid si aprirono e si tirò su dal materasso, in posizione seduta.
«Merda…» ansimò, il sogno che aveva fatto ancora vivido in mente — anche se per poco, lo sapeva. Fece un salto giù dal letto, l’aria gelida di novembre la fece rabbrividire e il fatto che indossava solo la biancheria del giorno prima non aiutò di certo. Sul tavolo della cucina c’era un quadernetto chiuso, si sedette e iniziò a scrivere tutto quello che aveva sognato, nei minimi dettagli.
Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima che sognava robe strane, ma quel sogno lo era stato particolarmente. Probabilmente non si sarebbe mai più seduta sulle scale antincendio per fumare una sigaretta…
Mentre si preparava un caffè per svegliarsi come si deve, qualcuno bussò alla porta e lei si infilò una vestaglia prima di andare ad aprire. Era un ragazzino giovane, con una serie di giornali in mano.
«Quotidiano» fece lui, porgendogliene uno.
«Non ho nessun abbonamento, sparisci».
Lui controllò, poi tornò a porgerle il giornale «L’indirizzo è giusto. Sono un dollaro e cinquanta».
Astrid sbuffò, chiedendosi se la padrona di casa avesse di nuovo sbagliato a dare l’indirizzo. Andò a prendere il portafoglio e pagò quel maledetto giornale, prima di sbattere la porta e tornare a bere il suo caffè.
Diede un’occhiata alla prima pagina, politica e cronaca nera, come al solito. Tutto molto bello.
Poi, qualcosa catturò la sua attenzione. Un piccolo titolo nel taglio in basso: “Gerani miracolosi, crescono in una notte.”
Prima di andare alla pagina indicata, osservò meglio il giornale. Non era un quotidiano di New York, ma del Kansas…
Aggrottando la fronte, andò finalmente a vedere che razza di articolo fosse quello fatto su un fiore miracoloso e la tazza che aveva in mano precipitò a terra, frantumandosi. Il suo cuore ebbe un tuffo.
C’era una foto allegata all’articolo. Rappresentava i gerani miracolosi in questione, chi l’aveva coltivati e, sullo sfondo della foto, due corvi appollaiati tranquillamente sull’insegna del negozio di fiori. Uno bianco e uno nero.
La donna che reggeva orgogliosa il vaso di fiori era senza ombra di dubbio sua sorella… la stessa che non sentiva da più di trent’anni. Nonostante la foto fosse in bianco e nero, la donna somigliava terribilmente ad Astrid. Avevano gli stessi capelli neri, lo stesso taglio di occhi e se la foto fosse stata a colori, Astrid sapeva che sarebbero stati dello stesso blu cielo e che la pelle sarebbe stata dello stesso candore della neve che tinteggia le montagne dei fiordi norvegesi.
Sempre sullo sfondo, accanto all’insegna, un po’ di spalle, come se non volesse essere fotografato, riconobbe chiaramente il dio che da quasi quarant’anni aveva reso la sua vita un inferno: Odino.
«Figlio di puttana…»
Astrid di ricerche ne aveva dovute fare veramente poche; dopo tutto quello che era successo, dopo tutti gli anni passati a cercare sua sorella, ci aveva messo un attimo.
Non sapeva perché, non conosceva il motivo della maggior parte delle cose che succedevano nella sua vita.
Aveva cercato Lois per quasi trent’anni e alla fine ci aveva anche rinunciato. Non era destino...
Poi, ecco che sogna un cazzo di fiore che le regala una pista fino a un negozio in Kansas, a Lebanon. Non poteva essere una coincidenza.
Prima che tutto andasse a puttane, quando ancora aveva suo figlio con sé, quando ancora riusciva a comunicare tramite lettere con sua sorella, dopo essere stata mandata in un convento dai suoi genitori per essere rimasta incinta a quattrodici anni, c’era proprio un posto che sognava di visitare: Lebanon – ovvero, il luogo dove si trovava il centro geografico degli Stati Uniti d’America. Una notte aveva scoperto che le suore volevano dare Carl, il suo bambino, in adozione. Lei, quindi, aveva scritto un’ultima lettera a Lois. Sarebbe scappata con il bimbo che all’epoca aveva poco più di un anno, e sarebbe andata lì, dove aveva sempre sognato di andare.
Ovviamente in Kansas non c’era mai arrivata. Una serie di eventi glielo avevano impedito e poco dopo i servizi sociali le avevano anche tolto il figlio.
Non aveva mai più sentito Lois, né aveva trovato Carl.
Era stata in Kansas, però, ma non aveva mai pensato che Lois ci fosse arrivata… eppure era lì. Nero su bianco. Su quel dannato quotidiano.
C’era una mail e un numero di telefono, aveva pensato di contattarla con il primo metodo, ma voleva sentire la sua voce...
Continuava a chiedersi il motivo, non poteva essere un caso e forse avrebbe combinato l'ennesimo casino, l'ennesima cazzata. Alla fine, non era quasi mai colpa sua.
Il libero arbitrio era un’illusione, di tutte le scelte fatte in vita sua, forse solo una o due erano state veramente sue.
Compose il numero di telefono usando il suo cellulare privato. Il telefono squillò, finché una voce gentile non rispose. Aveva un nodo nello stomaco; non la riconobbe affatto.
Aveva dimenticato la voce di sua sorella? Forse era qualcun altro ad aver risposto?
«Sto cercando Lois Langdon, sono…» doveva dire la verità o no? Era convinta che sua sorella l’aveva cercata tanto quanto lei e che, se si fosse presentata con “sono tua sorella” le avrebbe agganciato il telefono in faccia.
«Ho letto l’articolo sul fiore miracoloso, potrei avere delle informazioni importanti».
«Sono io» rispose la voce dall’altro capo del telefono, sembrava cordiale. Molto più cordiale di lei. «Davvero ha delle informazioni? Perché per come la vedo io sembra quasi un miracolo!» si mise a ridere.
Astrid decise di tagliarci corto. Non aveva senso mentire… se gli dèi avevano deciso che doveva andare così, era il momento giusto. «Sono Astrid, Lois…» e subito dopo aggiunse: «I corvi mi hanno mostrato i fiori in un sogno… solo così sono riuscita a trovarti» ecco, adesso doveva solo aspettare e vedere se l’altra le avrebbe creduto.
«Huginn e Muninn?» la sorella sussurrò attraverso il ricevitore del telefono. «Allora avevo ragione! Erano davvero loro! Sì! Girano qui intorno da settimane… Astrid, sei davvero tu?» c’era dolore e speranza nella sua voce.
Lois non aveva mai avuto la conferma che la vita di Astrid era stata completamente guidata dal volere degli dèi. Astrid nelle sue lettere non le aveva mai detto fino a che punto si erano spinti gli dèi. Ma Lois non era stupida. Era stata lei ad accorgersi per prima che da ragazze erano sempre seguite da due corvi, uno bianco e uno nero. Nessun altro voleva crederle. Da quando si erano perse di vista lei non aveva più saputo nulla della sorella. Non aveva avuto il cuore di raccontarle di Odino…
«Sì. Sono a New York, ma se sei in Kansas mi metto in viaggio oggi stesso» stava per continuare quando la voce della sorella l’interruppe.
«Posso mandarti l’indirizzo a questo numero?» era tanto impaziente di rivederla quanto lei. Era chiaro che anche Lois l’avesse cercata in questi anni.
Non le importava perché quel bastardo le avesse dato il permesso di ritrovarsi solo ora, voleva rivedere sua sorella. «Sì… sì, manda tutto qui, io preparo uno zaino e mi metto in viaggio. Ascolta, Lois… nella foto sul giornale dietro di te c’era un uomo. È ancora lì?»
«Chi? Il signor Grim? No… è andato via stamattina. Perché?»
Grim… così si era presentato a lei quarant’anni prima. Aveva avuto la faccia tosta di mantenere quel nome. «Cazzo! Niente, lascia stare, ti spiego quando ci vediamo di persona…»
*
Martedì a mezzanotte Robert e Maggie erano sulle sponde del Loch Ness. Dormivano nel furgone, entrambi stavano congelando e non avevano idea di cosa aspettarsi.
I turisti a quell’ora non erano ammessi ma per una serie di fortunate coincidenze, i due erano riusciti a entrare e ad avvicinarsi al lago.
La cittadina era addormentata già da diverse ore.
A dire il vero Maggie aveva una sensazione strana. «Credo che ci sia lo zampino di qualche dio» commentò.
Robert si guardò intorno, controllando bene il pelo dell’acqua, che era immobile. «Che vuoi dire?»
«Non dovrebbe essere così deserto» disse Maggie. «Dovrebbe esserci qualcuno».
Era vero, un custode, almeno un turista tardivo o un passante… invece no, erano completamente soli. Fin troppo conveniente. C’era sicuramente lo zampino di qualcuno. Che fosse Loki o qualcun altro, non potevano saperlo, ma tutto quel silenzio era innaturale.
«Pensi che sia una trappola?» chiese Robert, guardingo.
Maggie ci rifletté a lungo, non sembrava una trappola. Anche perché era stato Loki a mandarla lì…
«No, non credo. Forza, dai, prendiamo la serpe e avviciniamoci».
Robert annuì e si avvicinò al furgone, entrò e andò a prendere la valigetta ancora incatenata. Maggie lo raggiunse e infilò la mano nella tasca dei jeans. Loki le aveva dato una chiave di metallo, piccola e leggera.
Quando la infilò nel lucchetto il cuore le batteva, non si rese conto di aver smesso di respirare finché la serratura non scattò e la catena si sciolse.
Fece un lungo sospiro, sorrise a Robert, senza che lui sapesse veramente il motivo.
Poi infilò di nuovo la catena in tasca. «Metti al sicuro la catena, io porto la valigetta fuori».
Lasciò Robert nel furgone, poi tornò all’aria aperta e una voce echeggiò nella sua mente: “Te l’avevo detto…”
Maggie scosse la testa, sorridendo appena. Tornò verso la riva del lago, aspettando Robert.
Era buio, c’era solo la luce della luna a illuminare l’acqua, uno o due lampioni piuttosto lontani. Il silenzio era inquietante, Maggie cominciava a sentire un certo freddo.
Proprio mentre si voltava a cercare Robert con lo sguardo, qualcosa increspò l’acqua e attirò la sua attenzione.
Un gorgoglio profondo fece tremare la terra e Robert si affrettò a raggiungere Maggie sulla sponda del lago. Non si dissero nulla, ma lui le afferrò un braccio e la tirò appena un po’ indietro, per evitare che finisse in acqua.
Maggie apprezzò il gesto ma dubitò che qualsiasi cosa stesse per apparire di fronte a loro sarebbe stata fermata da un braccio umano.
Un altro gorgoglio fece tremare la terra e il lago davanti a loro. L’acqua si increspò nuovamente e poco a poco la testa di una bestia enorme prese a fuoriuscire dal pelo dell’acqua.
Apparirono prima due enormi occhi di un giallo brillante dalla pupilla stretta, una membrana trasparente si sollevò non appena risalì dall’acqua. Poi fu visibile il resto di un muso affusolato ricoperto da scaglie che sotto la luce della luna erano di un viola cangiante sulle quali l’acqua scivolava e rimanevano asciutte. Aveva due piccole fessure sul muso attraverso le quali respirava e il respiro era bollente, così caldo che fumava. Si mosse e la sua forma tagliò l’acqua del lago così bene da non far quasi muovere un’onda.
Ora Maggie capiva perché Loki le aveva detto che non c’era un mostro di Loch Ness. Quello che aveva davanti era chiaramente un drago – o un mostro marino… o tutte e due le cose insieme. E chissà quanti altri ce ne erano che passavano attraverso le acque di Loch Ness, che stando a quello che diceva il dio norreno era un ottimo passaggio.
Robert fissava con occhi terrorizzati la creatura, ma non lasciava andare il braccio di Maggie.
Maggie lo trascinò dietro di lei, e davanti a lei mise la valigetta. «Siamo qui per uno scambio equo…» disse, cercando di mantenere un tono di voce normale.
Robert, dietro di lei, sembrava pietrificato.
Il drago aprì la bocca – e Maggie avrebbe preferito che non lo facesse, perché adesso poteva vedere la miriade di zanne aguzze presenti al suo interno. «Il mio nome è Glamira, mi è stato detto da uno dei miei assistenti che avete una delle serpi di Eris» aveva una voce profonda, femminile, che fece muovere le fronde degli alberi e i capelli di Maggie. Il suo fiato sapeva di salsedine, nonostante Loch Ness fosse ad acqua dolce. Chissà da dove proveniva.
«Io sono Maggie, lui è Robert…» si presentò lei, poi indicò la valigetta. «La serpe è qui dentro, se vuoi controllare…»
Dal nulla spuntò un uomo in giacca e cravatta che fece trasalire sia Maggie che Robert. Probabilmente era arrivato mentre loro erano troppo impegnati ad ammirare l’arrivo del drago.
Maggie gli consegnò la valigetta e lui fece qualche passo indietro. La aprì, controllò il suo contenuto, si sentirono i sibili e i versi disumani della serpe, poi lui richiuse la valigetta e la consegnò nuovamente a Maggie. L’uomo si avvicinò a Glamira e le disse qualcosa sottovoce, poi si allontanò nell’ombra.
Maggie e Robert si scambiarono uno sguardo preoccupato.
«Molto bene,» tuonò Glamira, facendo di nuovo muovere le fronde degli alberi e i capelli di Maggie. «Cosa volete in cambio?»
«Un contatto… sappiamo che Astrid Langdon lavora per te. Vorremmo avere il modo di parlare con lei» Maggie ancora una volta tentò di mantenere un tono di voce professionale, fingendo di ignorare che di fronte a lei ci fosse un enorme drago viola.
Dopo una lunga pausa, Glamira annuì. Chiamò con uno sbuffo il suo assistente, che si avvicinò silenziosamente. Poi l’uomo si avvicinò a Maggie e Robert e porse a Maggie un biglietto. Maggie lo osservò con cura e sopra c’era un numero di telefono che a giudicare dal prefisso sembrava americano.
«Può provare a chiamare, per controllare. A quest’ora non so se risponderà, la signorina Langdon ha uno stile di vita particolare…» commentò l’assistente.
Maggie prese subito il telefono e compose il numero, chiedendosi quante sterline avrebbe speso per una telefonata oltreoceano…
Il telefono fece un paio di squilli, poi scattò la segreteria telefonica.
«Sono Astrid, non lasciate un messaggio, tanto non ascolterò proprio un cazzo. E non riprovate più tardi, non rompetemi i coglioni. Beep, addio».
Maggie interruppe la telefonata, se avesse voluto lasciare un messaggio l’avrebbe fatto sicuramente dopo. Fece un cenno positivo a Robert e poi consegnò la valigetta all’assistente. Lui si affrettò a tornare nell’ombra, da dov’era venuto, per mettere al sicuro l’oggetto di scambio.
Maggie immediatamente il numero sul telefono e consegnò per precauzione il biglietto con il numero a Robert, per ogni evenienza.
«Grazie mille…» disse, rivolta a Glamira.
Il drago gorgogliò qualcosa di simile a una risata, poi, mentre iniziava a inabissarsi nel lago, aggiunse. «Buona fortuna a trovarla… non risponde alle mie telefonate da una settimana» e sparì sott’acqua.
   
 
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