Capitolo unico
Si lisciò nervosamente la veste di lino candido e controllò il colorato scialle che le cingeva le spalle. Era una giornata di festa, la giovanissima Batnoam ne era consapevole. Di consueto legava i suoi lunghi capelli in modo semplice, ma quel giorno la sua schiava gliel’aveva acconciati servendosi di anelli d’oro incisi con basso rilievi arzigogolati, che a lei ricordavano le onde del mare.
Da quando era nata non aveva mai mancato una di quelle lunghissime e noiosissime commemorazioni della conquista di Siracusa da parte di Cartagine, ma quell’anno sarebbe stato diverso: suo padre Maarbale, nome di cui andava particolarmente orgoglioso in quanto appartenuto a un importante generale che si era distinto durante la seconda guerra contro i Romani, era stato nominato suffeto.
Naturalmente quello avrebbe dovuto essere un vanto; eppure per lei era un motivo principalmente di fastidio: suo padre ˗ da che ne lei aveva memoria, era sempre stato un noto senatore ˗ erano divenuto sempre più ossessionato dal suo più intimo timore: egli era convinto che i Romani avessero delle spie in città e che presto avrebbero tentato di rovesciare il potere cartaginese.
A lei sembrava esagerato, anche se non poteva esprimere quel pensiero ad alta voce. E persino sua madre e i suoi fratelli erano in disaccordo con quella teoria e più volte avevano provato a farlo ragionare. La maggioranza del Senato non condivideva le sue paure, sempre più oggetto di battute ilari. Nonostante ciò le capacità oratorie, politiche, l’abilità di stratega, l’intelligenza, il farsi volere bene dal popolo proprio di Maarbale, avevano portato il Senato a nominarlo suffeto.
Le sue paranoie però erano aumentate. Aveva cominciato a impedire a Batnoam, la figlia più piccola, di muoversi da sola e soprattutto la sera. Per conto suo ella aveva sempre amato la relativa libertà di cui godeva, considerata strana specialmente dalle donne greche più anziane. Eppure ora si ritrovava quasi bloccata. Suo padre aveva paura che i Romani potessero attaccare lei, per colpire lui. E che gli stessi Siracusani stessero complottando contro di loro.
Maarbale era poco più di un bambino quando ˗ dopo la vittoria di Siracusa sui Romani nel 211 e la successiva conquista da parte di Cartagine ˗ suo padre si era trasferito in Sicilia con l’intera famiglia. Egli era stato un importante funzionario e aveva avuto l’onore di essere scelto da Annibale Barca in persona per fondare la nuova colonia cartaginese sulle rovine della greca Siracusa.
La Siracusa in cui era cresciuta e vissuta Batnoam non aveva nulla di quella passata greca, se non qualche anziano che ancora ricordava i vecchi tempi. Quella era Nuova Siracusa, colonia di Cartagine e città più potente e grande della Sicilia. I Romani all’isola avevano dovuto rinunciare da molto tempo.
Suo padre non riusciva a stare tranquillo. Perché poi? Erano tutti timori infondati. E lunghe indagini l’avevano dimostrato. Ormai il Senato si era stancato di dargli credito e spendere soldi, ma soprattutto di allarmare la popolazione.
Il corteo di cui, ahimè, ella faceva parte raggiunse lentamente le statue di Epicide e Ippocrate, due di coloro che più di tutti si erano distinti affinché Cartagine trionfasse.
Batnoam si sfiorò distrattamente il suo nazem, l’anello d’oro che tradizionalmente indossavano tutte le donne del suo popolo. All’evento di solito partecipava tutta la popolazione. Tutti dovevano festeggiare la grandezza di Cartagine e di Nuova Siracusa, che ormai da quasi cinquanta anni comandava indisturbata su gran parte della Sicilia.
Cinquanta anni erano tantissimi, almeno da punto di vista di una giovane come lei, che non riusciva nemmeno a immaginare come fosse la vita prima di Nuova Siracusa. E se per questo non aveva mai visto nemmeno Cartagine.
Fissò il sacerdote che compiva il triplice sacrificio in onore del padre degli dei El, della sua consorte Astarte, nonché dea della guerra, e del figlio Baal, dio del sole e dell’agricoltura, ovvero sia quello di cui Nuova Siracusa viveva, la sua fonte di ricchezza.
Successivamente assisté alla distribuzione del grano alla popolazione.
Quando finalmente la cerimonia terminò, tornò a piedi a casa insieme al resto della sua famiglia. Suo padre appariva stanco e agitato.
«Padre» lo chiamò, appena raggiunsero lo stretto atrio della loro villa.
L’uomo nervosamente si voltò a guardarla. Si era guardato intorno per tutto il tempo.
«Ero sicuro che oggi i Romani avrebbero attaccato».
L’aveva bisbigliato in modo che la consorte e i figli maggiori non potessero sentirlo. Era un uomo così intelligente che a Batnoam dispiaceva si riducesse in quel modo e peggio ancora diventasse lo zimbello del Senato.
«Perché avrebbero dovuto farlo?» sospirò, mentre in silenzio percorrevano lo stretto corridoio che si aprì in un vasto cortile. Il padre aveva dato ordine agli schiavi di non allontanarsi dall’ingresso, ma Batnoam sapeva che non si fidava veramente. Quando quella fissazione era iniziata molti anni prima, aveva liberato tutti gli schiavi di origine greca. In città erano parecchi e lui li temeva. Nessuno più di loro, secondo lui, avrebbe voluto la vendetta. Quando Roma era stata sconfitta nel 211, alcuni Siracusani avevano tentato di fuggire, altri erano stati catturati, specialmente coloro che avevano combattuto, molti erano stati uccisi per aver aperto le porte ai Romani; altri erano morti per gli strascichi di un’epidemia che aveva quasi piegato l’esercito cartaginese stesso. Pochi erano stati ammessi nella nuova colonia da uomini liberi, coloro che esplicitamente avevano lavorato a loro favore, come alcuni consiglieri di uno degli ultimi re, Geronimo, ucciso proprio dai filoromani. Quindi per il suffeto Maarbale era un rischio circondarsi di schiavi greci.
«Sono sempre più forti. Oggi sarebbe stata un’occasione ideale».
Batnoam lo osservò appoggiarsi al bordo del pozzo, al centro del cortile, e fissare senza vederla l’acqua in fondo.
«Non mi credi, vero?».
Le sue parole la colpirono profondamente. No, non gli credeva, ma non ebbe il coraggio di rispondergli. Lui lo comprese lo stesso, le rivolse uno sguardo stanco e si avviò verso i piani superiori.
*
«Fate attenzione con quelle assi!».
«Nervoso oggi, eh?».
Un giovane alto, capelli lunghi sulle spalle e un lieve accenno di barba, continuò a fissare i due operai che aveva appena richiamato.
«Non dovresti preoccuparti tanto, lo sai».
«È il mio lavoro».
«Il cantiere non è tuo e non lo sarà mai».
«Emilio» sbottò il giovane voltandosi finalmente verso il suo interlocutore, altrettanto giovane, molto più alto, dal fisico asciutto e palesemente allenato. La tunica che indossava era strana sul suo corpo o forse loro era per lui, che l’aveva visto sotto ben altre spoglie e non certo quelle dell’operaio di un cantiere navale. «Lo sai che non devi pronunciare certi commenti, soprattutto non qui».
Un lampo attraverso gli occhi di Emilio, che si guardò intorno infastidito. «Neilos, dovremmo dare fuoco a questo posto» sussurrò in modo che solo lui potesse sentire.
«Torna al lavoro!» sbottò l’altro a voce alta. «O non avrai la tua paga».
Emilio gli scoccò un’occhiataccia, non disse nulla; Neilos comprese i suoi pensieri: quel luogo era uno dei simboli del potere cartaginese
Egli comunque lo ignorò e si allontanò. Era difficile per lui venire a patti con le sue origini, con il suo destino già tracciato e con quello che desiderava il suo cuore. Quel cantiere non era suo e sarebbe bastato poco perché gli venisse tolto. Il vero proprietario era Maarbale, il nuovo suffeto, di cui era stato il braccio destro fino a quel momento. Maarbale aveva sempre apprezzato la sua abilità di carpentiere. Aveva risposto in lui grande fiducia, lasciandogli la conduzione del cantiere durante quell’anno in cui avrebbe ricoperto quel ruolo tanto prestigioso. Eppure tutti a Nuova Siracusa sapevano quanto temesse i Siracusani e una loro possibile alleanza con i Romani, un ritorno al passato. Neilos non capiva perché Maarbale avesse tanta fiducia in lui. Era una trappola? Quei pensieri lo angustiavano ormai da troppo tempo, nonostante il lavoro al cantiere lo entusiasmasse. Trovava incredibile che da alcune fasce di legname sparse nascessero quelle navi enormi della flotta cartaginese, che tanto aveva ammirato fin dalla più giovane età. Ammirazione che aveva sempre dovuto celare in qualche modo, perché, come per l’ennesima volta gli aveva ricordato Emilio, quello era il simbolo del potere dei Cartaginesi, di coloro che avevano tradito la parola data.
Sospirò e andò a verificare che tutto procedesse secondo programma e in ordine. I cantieri erano fantastici, funzionavano alla perfezione, ognuno aveva il proprio compito: dalla scelta delle assi e del legname giusto alla loro unione fino alla parte della polena di ferro, che rendeva temibili quelle navi.
Emilio si occupava di portare il legname dal punto di scarico all’interno del cantiere, laddove qualcuno subito dopo procedeva a una prima selezione. Non gli piaceva come lavoro, riteneva che non fosse alla sua altezza. E tutto sommato Neilos riteneva avesse ragione, ma non aveva potuto trovargli di meglio. Era già abbastanza che non destasse troppa attenzione e sospetti, anche perché la sua corporatura e la sua prestanza non facevano certo pensare a una persona abituata ai lavori manuali, ma allo stesso tempo temprata dall’esercizio fisico e dall’aria aperta. Neilos ogni giorno lo rimproverava per il suo modo di vestirsi, che era ben lungi da quello di un semplice e povero manuale, ma lui non lo voleva ascoltare, adorando troppo attirare l’attenzione e l’ammirazione dalle fanciulle lungo la strada. Era così testardo a volte.
Lo ignorò per il resto della giornata e si dedicò a levigare lo scafo della nuova nave. Era un lavoro meccanico, ma adorava il perfetto risultato finale: le assi prima tanti pezzi separati, poi diventavano alla vista un unico blocco. Quello che avrebbero dovuto fare lui ed Emilio.
A volte, però, avrebbe voluto un destino diverso. Sospirò, rendendosi conto di non riuscire in nessun modo a scacciare i brutti pensieri.
Conclusa la giornata, scivolò via dal cantiere senza farsi vedere da Emilio, che sicuramente l’avrebbe costretto ad andare a bere. Era uno dei suoi vizi peggiori. Si avviò verso la periferia di Nuova Siracusa. Lentamente raggiunse la pianura Pantanelli fuori città. Ormai il sole stava tramontando. Sulla pianura si fondevano i due fiumi che attraversavano il territorio urbano fin da tempi antichissimi, il Ciane e l’Anapo. A quell’ora non vi era nessuno. Non era giunto che da pochi minuti, quando percepì un familiare scalpiccio e si voltò con il cuore in gola.
«Batnoam» disse sorpreso. Ben poche fanciulle si sarebbero avventurate da sole a quell’ora fuori città. Aveva sentito dire più volte in famiglia che le donne cartaginesi godessero di troppa libertà; troppa per una cultura come quella greca che non conferiva molta importanza alle donne.
«Neilos».
«Come facevi a sapere che mi avresti trovato qui?».
«Ero venuta al cantiere e ti ho intravisto mentre ti allontanavi. Ho capito che eri diretto qui e ti ho seguito».
«Avresti potuto dirmelo».
«Mi avresti rimandato a casa».
«Non è un luogo sicuro».
«Sembri paranoico come mio padre. Quale pericolo dovrebbe esserci? Le sentinelle controllano l’intero perimetro e la fortezza di Eurialo ospita un’imponente guarnigione. Nuova Siracusa è il luogo più protetto e sicuro di tutta la Sicilia».
Neilos non replicò e fissò le acque docili dei due fiumi, che di lì a poco sfociavano nello Jonio.
«Tuo padre è un uomo saggio».
«Ha paura dei Romani e dei Greci, ma tu sei sempre al suo fianco al cantiere».
Neilos rimase in silenzio osservando una trota guizzante nell’ultimo barlume di tramonto. Presto sarebbe stato totalmente buio, almeno finché la luna non sarebbe spuntata del tutto.
«Si fida di me» disse con tono vago. «Proprio per questo ora ti accompagno a casa».
Batnoam sbuffò, ma lo seguì lungo un sentiero che li avrebbe condotti a una delle porte più vicine al mare.
«Perché non chiedi a mio padre di potermi frequentare ufficialmente?».
Neilos fu scosso da un attacco di tosse e la fissò a occhi sgranati. «Come ti viene in mente?».
«Pensavo che ricambiassi i miei sentimenti» ribatté arrabbiata.
«Non è una questione di sentimenti. Noi non possiamo stare insieme».
«Mio padre ti darebbe il permesso. Ha stima di te».
«Impossibile. Per te non sarebbe un buon matrimonio. Conosci le mie origini».
«Tu sei cartaginese! Sei nato a Nuova Siracusa. Il passato non conta».
Neilos le rivolse un’occhiata addolorata e la lasciò solo quando raggiunsero l’ingresso della sua abitazione.
Rientrò a passi lenti a casa sua lungo strade ormai deserte. Come ogni edificio della città era stata costruita secondo la tecnica fenicia: fondamenta e struttura portante in pietra, mattoni crudi di fango e argilla cotta; il tetto, piatto e ricoperto di pece in modo che fosse protetto dall’acqua, era cinto da alcune basse balaustre. Inoltre, come tutte le abitazioni più umili, era abbastanza piccola, con solo due stanze.
«Dov’eri?» lo accolse la voce paterna. Dorio, figlio di Dionigi, uno dei combattenti che si era distinto durante l’assedio di Siracusa.
Neilos s’irrigidì, ma tentò di usare un tono normale. «Ho fatto una passeggiata fino al Pantanelli».
«Sbrigati a mangiare. Tu ed Emilio avete del lavoro da fare».
Neilos deglutì e annuì. Dopo aver mangiato, si ritirò nell’altra stanza e tirò fuori dei vecchi libri che custodiva gelosamente. Erano dei trattati nautici, ma c’era anche qualche commedia di Plauto e di Terenzio, ma soprattutto qualcosa di Catone che Emilio gli aveva procurato.
«È ora» disse proprio quest’ultimo, raggiungendolo nella spoglia camera poco dopo.
Neilos sollevò gli occhi e sospirò: quel momento solo per sé era già finito. Si alzò e lo seguì verso il centro della città.
«Sei sicuro? Mi sembra una pessima idea».
«Ha promesso di appoggiarci».
«Proprio per questo è inaffidabile. È un traditore, potrebbe voltare faccia anche a noi».
«Lo fa per la ricchezza».
«Idiota. Ecco cos’è. Vedrai che, alla prima avvisaglia di pericolo, ci denuncerà».
«Anche tu sei un traditore».
«Di che parli?».
«La bella Batnoam, la figlia dell’altro suffeto, non ti è indifferente».
«Non è vero. L’allontano sempre».
«Eppure ti piace. E stasera hai fatto tardi, eri con lei».
«Chi te lo dice?».
«La tua faccia. Ti conosco abbastanza».
Neilos non replicò e si concentrò. La villa del suffeto era enorme, specialmente rispetto alle case più umili della città. Il giovane rimase a bocca aperta vedendo i bellissimi marmi che adornavano i pavimenti e le maioliche incantevoli che ornavano le pareti. Quella sì che era una casa regale. Più di una volta era entrato in quella di Maarbale, che era grande ed elegante, ma non sfarzosa quanto questa. E naturalmente simili piaceri dovevano mantenersi in qualche modo. Che bel suffeto si era scelto quell’anno il senato!
L’uomo era sdraiato su un divanetto di chiara foggia romana e indossava la consueta tunica bianca ornata con filamenti d’oro.
«Benvenuti!».
I due s’inchinarono leggermente in segno di rispetto.
«Hai portato un amico, Emilio, eh?».
«Sì, signore, Neilos è quasi un fratello per me».
«Allora che mi hai portato?».
Emilio sorrise freddamente e tirò fuori un involto dalla tasca. Lo stesso Neilos fissò a occhi sgranati il contenuto: un pezzo d’oro puro.
«Roma saprà ricompensare il suo aiuto».
«Voglio diventare il governatore della Sicilia, ragazzo. L’hai detto ai tuoi?».
«Certo» asserì Emilio.
«Bene, bene».
«Allora, possiamo contare sul suo aiuto?».
Il suffeto divenne improvvisamente serio. «Manderò la flotta lontana, in modo che i Romani possano entrare senza problemi dal porto… Però, se qualcosa dovesse andare storta… Io non vi ho mai appoggiato… Chiaro?».
«Chiarissimo» confermò Emilio.
«Hai capito il vecchio?» sbottò Neilos appena furono lontani.
«Che cosa ti aspettavi? L’importante è che ordini alla flotta di allontanarsi. Noi apriremo la porta ai legionari e sarà una passeggiata».
Neilos sospirò.
«Che c’è? È quello che sogniamo! La rivincita di Siracusa».
Neilos non replicò e si disse che i loro sogni non erano proprio gli stessi. Sotto i Cartaginesi non si viveva troppo male. Certo non c’era la libertà di cui sentiva raccontare da suo padre e dagli anziani della comunità greca superstite. Ma sotto i Romani sarebbe stato diverso? In fondo sarebbero passati da una dominazione all’altra.
*
Quella zona era illuminata solo dalla luna. Batnoam fu scossa da un brivido. Non era stata una buona idea uscire di notte, figuriamoci da sola. Né suo padre né Neilos sarebbero stati contenti. Neilos! Com’era strano quel ragazzo. Era stato sul punto di parlarne al padre, poi aveva desistito: se lui non la voleva, era inutile insistere. Eppure lui le nascondeva qualcosa e lei avrebbe scoperto cosa. Quella assurdità sulle sue origini greche! Ma per favore. Erano cinquant’anni che ormai quella terra era in mano ai Cartaginesi, persino i Romani avevano imparato a girare a largo della Sicilia. Era secoli che una delle loro navi non appariva all’orizzonte. Lei non comprendeva proprio tutti quei timori.
In quella parte della città le vie erano più strette e s’insinuavano tra case di piccole dimensioni e per lo più costitute da mattoni di fango e paglia. Era la parte greca della città, la più povera. Non c’erano solo Greci, ma anche altri stranieri che nei porti cartaginesi non erano mai mancati. Eppure tutti si ostinavano a parlare di quella zona come quella greca. Quando Nuova Siracusa era stata eretta in fondo aveva occupato il territorio della vecchia Siracusa. Tutta quell’insistenza a dividere Greci e Cartaginesi dopo tanti anni, la considerava assurda. Addirittura alcuni discendenti dei Greci avevano le loro belle ville a Ortigia. A quest’ora i due popoli avrebbero dovuto essere perfettamente integrati.
Notò una luce accesa che risaltava in un vicolo più stretto e si avvicinò. Sembrava una vecchia casa disabitata, ogni apertura era stata chiusa da una serie assi. Eppure proprio attraverso di esse penetrava una luce, come di una candela. Si avvicinò e percepì un mormorio soffuso. Osservò con attenzione quella che avrebbe dovuto essere la porta e a tentoni, anche perché lì la luce della luna non giungeva, e trovò l’asse mobile.
Era un ambiente vecchio e parco, una specie di vestibolo molto semplice. Una donna anziana recitava in un angolo una litania in greco. Batnoam compì qualche passo, ma quella si voltò di scatto e la raggiunse con un pugnale. La giovane rimase senza fiato: era così vecchia e fragile, che poteva sentirne le ossa premere sulle sue scapole, dove trovava tanta energia?
«Ti prego, non farmi del male» la pregò tremante.
La vecchia si liberò, ma prima controllò che la ragazza non avesse nulla con sé. «Non sei armata» decretò. «Che fai qui?» sbottò scrutandola.
«Cercavo una persona».
Una risata vuota e finta rispose alla sua affermazione e l’anziana sollevò di nuovo il pugnale. «Signorina, poche menzogne. Sarò vecchia, ma so uccidere».
Batnoam la fissò: la vedeva stravolta nei lineamenti duri e gli occhi arrossati. Era spaventata anche lei. Ma perché?
«Non ho mentito. Si tratta di un giovane che lavora al cantiere di mio padre».
La vecchia la fissò a occhi sgranati, ora non nascondeva più la sua paura. «Tu sei la figlia del suffeto» esalò.
«Sì. E davvero stavo cercando una persona, ho visto una luce e mi sono incuriosita».
«Dove sono le guardie?» chiese tremante la vecchia, presto il pugnale le sarebbe caduto dalle mani. Davvero aveva ucciso qualcuno in vita sua o l’aveva detto solo per spaventarla?
«Non ci sono. Sono uscita di nascosto».
La vecchia la fissò per qualche minuto, poi, notando che nessun armato aveva ancora fatto irruzione, riprese colore in volto. Batnoam si rilassò a sua volta: non voleva essere responsabile della morte di una vecchia.
«Da sola? Sei davvero sciocca allora. Non sai che è pericoloso?».
Batnoam sbuffò. «E perché mai? La criminalità è quasi inesistente, di chi dovrei avere paura?».
La vecchia la fissò scettica. «Beh, vattene a casa».
«No» s’imputò la ragazza, più sicura di sé. «Mi indichi dove trovare la persona che cerco» chiese prendendo tempo. Aveva cominciato a osservare il vestibolo: era perfettamente pulito e c’erano varie casse accumulate da un lato, dall’altra dei vecchi ferri metallici lunghi, arrugginiti e bruciacchiati. Sembravano quasi delle braccia di metallo.
«Che pretese! Entri in casa d’altri e pretendi pure!».
Il linguaggio della donna era un misto di punico e di greco e Batnoam faceva fatica a comprenderla. A Nuova Siracusa s’insegnava solo il punico, ma sapeva che nelle famiglie greche veniva tramandato il greco e alcuni più colti studiavano anche il latino, perché naturalmente per la politica estera era necessario conoscerlo.
«Lei abita qui?» chiese sorpresa. Si era accorta che nella stanza adiacente vi era un’altra fiaccola, ma stranamente non illuminava l’ambiente circostante.
La vecchia la fissò di nuovo spaventata. «Sì, da quando erano fanciulla, più piccola di te» rispose però. E nel suo tono Batnoam percepì sfida e quasi rancore. Ma per cosa? Va bene, non era educato il suo comportamento, ma che stava facendo di così sbagliato? Avrebbe potuto anche essere più ospitale.
«Sarebbe gentile da parte sua farmi accomodare, no?» sbottò infastidita da tante rimostranze. E da tante stranezze. Perché le assi? Che erano tutti quelli oggetti strani? Sorprendendo la vecchia entrò nell’altra stanza a passo svelto. Almeno che la facesse accomodare!
Urlò, mentre la vecchia tentava invano di fermarla. La fiaccola non illuminava perché era una superficie che rifletteva l’altra. Di fatto una specie di specchio. Si era spaventata vedendo il proprio riflesso. E non era l’unico nella stanza, costatò appena i suoi occhi si abituarono alla luce fioca che veniva dall’esterno.
«Oh, no, e ora che faccio?» si lagnò la vecchia.
Batnoam si voltò verso di lei incerta di fronte a tante stranezze. Quella però aveva recuperato la fiaccola e le puntava contro il pugnale.
«Entra».
«Cosa?» mormorò spaventata Batnoam indietreggiando e urtando qualcosa.
«Sei tanto impicciona…» borbottò la vecchia. «Ora siediti lì» disse indicando un vecchio divano di foggia greca.
La donna appoggiò la fiaccola su un tavolino e la fissò muovendo nervosamente il pugnale.
«Lei non è un’assassina, quindi la smetta di minacciarmi. Io sono pure disarmata».
La vecchia rise nuovamente in modo isterico e vuoto. «Io sono un’assassina!».
«Non ci credo».
La donna prese una sedia e si mise di fronte a lei. «Io ucciso due dei vostri soldati, quando ero ancora una ragazzina!».
Possibile? Batnoam lo credeva molto difficile. «E perché mai?» domandò.
«Perché loro uccisero i miei genitori e il mio padrone» sibilò la vecchia e si vedeva che dopo tanti anni era qualcosa che la feriva ancora.
«Il tuo padrone?».
«Il grande Archimede! Questa era la sua casa!».
«Chi era Archimede?».
La vecchia sbottò in greco. Batnoam non comprese le parole ma le sembrano tanto un’imprecazione.
«Sei solo una ragazzina impicciona e viziata» borbottò l’altra donna «E ora che faccio con te?».
«Niente, che vuole fare? Nessuno la punirà per un delitto compiuto quando era una ragazzina» disse Batnoam conciliante. «Quindi io ora vado via…». Tentò di alzarsi, ma quella sventolò il pugnale davanti a lei.
«No, no» sbottò ella. «Tu ora stai qui. Non puoi andartene in giro a raccontare di questo posto».
«Ma perché mai?! È solo una casa vecchia».
La donna borbottò e le ingiunse: «Stai zitta e buona. Non mi costringere a ucciderti. Alzati».
Batnoam non ebbe altra scelta che obbedire e avanzò verso una porta in fondo alla stanza e l’attraversò. La camera successiva era più ampia, ma era occupata solo da una libreria enorme, piena di testi papiracei ben conservati. La vecchia si prendeva cura di quel posto.
«Eri affezionata al tuo padrone?».
«Era un buon padrone» borbottò ella. «Lo trovavo strano da piccola, però da grande mi hanno spiegato molte cose».
«Cosa?».
«Sta zitta» ripeté la donna. «Ora tu stai qui in silenzio. Quando arriveranno gli altri, decideranno cosa fare… Sì, sì, principessina, ti sei messa in un bel guaio…».
Batnoam non riuscì a impedirle di chiudersi la porta alle spalle. Rimase nel buio completo. Chi erano gli altri? Forse era una banda di briganti. Avrebbero chiesto il riscatto per lei? Eppure la vecchia avrebbe dovuto essere contenta, suo padre l’avrebbe pagata bene. Per un po’ rimase all’in piedi, poi si lasciò scivolare sul pavimento di legno. Sospirò. Sua madre le aveva sempre detto che aveva un temperamento pessimo e che prima o poi si sarebbe messa nei guai. E infatti. E ora che le avrebbero fatto? Lei non voleva morire giovane.
Probabilmente a un certo punto si appisolò, perché si riscosse al suono di alcune voci maschili. Rabbrividì allo scattare della serratura. Una luce e un’ombra precedettero il volto giovane che apparve ai suoi occhi.
«Allora la vecchia Doria non è così impazzita. La figlia del suffeto è venuta da noi!».
Dopo un momento di smarrimento, Batnoam lo riconobbe. Era il ragazzo che stava sempre in compagnia di Neilos e lavorava anche lui al cantiere di suo padre!
«Mi hai riconosciuto, vero?» ghignò quello.
«Dov’è Neilos? Cercavo lui» chiese spaventata.
«Sei venuta quaggiù di notte per cercarlo?» ripeté sorpreso Emilio.
«Sì. Tu sai dov’è? Io non so niente di questo posto. Voglio andarmene da qui e voglio vedere Neilos».
«Ci sono troppi voglio nelle tue parole» replicò severamente Emilio.
«Lo dirò a mio padre» disse senza riflettere Batnoam.
«Lo so» disse tranquillamente Emilio. «Ecco perché dobbiamo decidere cosa fare con te».
«Non vorrai uccidermi? Mio padre ti cercherà dovunque. A te e alla vecchia e vi farà giustiziare!».
«Molto probabile».
«E allora lasciami libera».
«Non se ne parla. Tuo padre, a differenza tua, è una persona saggia e capirebbe fin troppo dal tuo racconto».
«Cosa c’è da capire?».
«La vecchia ti ha detto di chi era questa casa e questa casa dovrebbe essere disabitata» le spiegò il giovane scrutandola preoccupato. «Comunque dovrai farti andare bene questo posto per un po’… Ormai siamo pronti. Quando tutto sarà finito, ti lasceremo andare».
Batnoam lo fissò per un po’. «State congiurando con i Romani!» realizzò sorpresa. Suo padre aveva sempre avuto ragione!
Il giovane si schiarì la gola e la fissò con un sorrisetto rigido. «Io sono Romano» sibilò.
La ragazza lo fissò intimorita.
«Caius Marcius Aemilius» si presentò l’altro con un lieve inchino. «Al suo servizio, signorina» aggiunse con ironia.
«Ma-ma tu sei stato cresciuto dal padre di Neilos».
«Non esattamente. Quando io sono giunto qui ero già un soldato di Roma, con il compito di preparare il terreno e guidare tutti coloro che già avevano preso contatti con noi».
«Tra cui il padre di Neilos» sussurrò lei.
«Beh sì».
«Mio padre si fida di lui» sibilò sentendosi tradita e spaventata.
«Già, e purtroppo Neilos lo stima a sua volta. Perciò sei ancora viva. Neilos non mi perdonerebbe mai se ti accadesse qualcosa».
«Lui dov’è?».
«Gli ordinato di stare lontano».
«Obbedisce a te?».
«A me e a suo padre».
«Lo voglio vedere».
«Vedremo» replicò Emilio avvicinandosi a una vecchia branda. «Intanto, dormi e fai la brava».
«Mi cercheranno».
«Troveremo una soluzione».
Batnoam tentò di aggredirlo, ma lui estrasse il gladio con velocità straordinaria e glielo puntò alla gola.
«Ho detto di stare buona».
E così Batnoam, non avendo scelta, tentò di calmarsi. Appena avesse fatto giorno avrebbe potuto osservarsi intorno e trovare una via di uscita.
*
Niente, nemmeno una via di uscita! Alle prime luci dell’alba, aveva iniziato a cercare, ma niente. Le finestre erano sbarrate e non era riuscita a smuovere nemmeno un’asse.
«Arrenditi» sospirò la vecchia, entrando e facendo attenzione a chiudersi la porta alle spalle. Portava con sé un vassoio con del latte e del pane.
«Perché? Perché ci odiate tanto? Non state bene pure voi?».
La vecchia sospirò e recuperò uno sgabello traballante, su cui appoggiò il vassoio.
«Noi eravamo alleati con i Romani, stavamo in pace e Siracusa prosperava. Poi alcuni si sono lasciati ammaliare dai Cartaginesi, specialmente dal vostro grande Annibale».
Batnoam sollevò lo sguardo e incrociò gli occhi di Neilos, appena entrato nella stanza.
«In particolare il re Geronimo, nipote dell’amato Gerone II, si lasciò convincere e andò contro la politica che la sua famiglia aveva tenuto fino a quel momento. Non tutti erano d’accordo, così coloro che volevano ancora seguire la politica di Gerone II fecero in modo di complottare contro di lui e lo uccisero. Per un brevissimo periodo tentarono persino di fondare un governo democratico a Siracusa».
«Fallirono, immagino».
Neilos annuì e si fermò di fronte a lei.
«Sì, perché Epicide e Ippocrate furono molto bravi a confondere le acque e mettere la popolazione contro i Romani. Anche se mio padre e gli altri sembrano dimenticarlo all’epoca la guerra contro i Romani ufficialmente la vollero i cittadini di Siracusa, i Cartaginesi intervennero a favore nostro… Ognuno compì i suoi errori e le sue scelte. Siamo i figli di quelle scelte».
«E allora, perché?».
«Posso sapere che cosa sta succendo?».
Batnoam fissò sconvolta Emilio: ora capiva perché la tunica usata in cantiere non era sembrata giusta addosso a lui: era un soldato romano e ora indossava orgogliosamente la divisa.
Neilos gli andò incontro e gli disse: «Fai attenzione, mio padre e gli altri vogliono voltare le spalle a Roma e creare un impero Siracusano su tutta la Sicilia».
Emilio e Batnoam lo fissarono sconvolti.
«Sono fuori di testa?» esalò Emilio. «Già è una follia per voi mettervi contro Cartagine e la spunterete con il nostro aiuto, ma anche contro Roma…».
«Roma è molto forte, si è ripresa benissimo dopo il colpo della perdita di Siracusa» intervenne Batnoam guadagnandosi un’occhiataccia di Emilio. «Ora che accadrà?».
«Le flotte di Roma sono in vista» comunicò Emilio.
Neilos sospirò. «Siracusa sarà distrutta o da Roma o da Cartagine».
«Abbiamo provocato un nuovo scontro tra Roma e Cartagine. I Romani non aspettavano altro» concordò Emilio. «Dove sono le macchine di Archimede?».
«Sono andati a sistemarle».
Emilio sbiancò e scappò via.
«Ma chi è questo Archimede?».
«Un genio!» rispose Neilos illuminandosi. «Sotto Gerone II ha inventato delle macchine belliche potenti, che poi ci hanno aiutato tantissimo durante l’assedio… Le sue braccia meccaniche hanno messo a dura prova la flotta romana. Naturalmente vi siete premurati di distruggere tutto quello che avete trovato, perché avete visto quelle armi in azione contro i Romani… Addirittura Marcello definì Archimede, “Briareo geometra”, l’uomo dalle cento braccia e dalle cinquanta teste. I soldati romani lo identificavano con le sue armi».
«Lo ammiri molto» costatò Batnoam.
Neilos annuì con uno sguardo malinconico e distante.
«Ora cosa succederà?» lo incalzò lei.
Il giovane scosse la testa. «Quello che gli dei vorranno».