DESPERADO
L'uomo che non sapeva piangere
Traduzione a cura di besemperadreamer e erika91
Disclaimer:
questa storia è stata scritta per
i fan. I personaggi non mi appartengono, con l’eccezione di
quelli inventati da
me (ovviamente non Piton, Silente, eccetera) e della mediocre trama che
ho
messo insieme.
NdA:
La canzone, come il titolo di
questa storia, deriva dalla favolosa e malinconia canzone
“Desperado” di Johnny
Cash. E, ovviamente, non posso reclamare come mio il genio di Oscar
Wilde. La
storia che Abby legge è “Il
Principe
Felice”.
Molte grazie
alla mia brillante
beta!
“Don’t
your feet get cold in the winter time?
The
sky won’t snow and the sun won’t shine
It’s
hard to tell the night time from the day
You’re
losing all your highs and lows
Ain’t
it funny how the feeling goes away?
Desperado,
why don’t you come to your senses?
Come
down from your fences, open the gate
It
may be raining, but there’s a rainbow above you
You
better let somebody love you, before it’s too late”
Ma i
tuoi piedi non diventano freddi nell'inverno?
Dal cielo
non nevica e il sole
non brilla
È
difficile distinguere la
notte dal giorno
Stai
perdendo tutti i tuoi alti
e bassi
Non
è strano come la sensazione
se ne va?
Desperado,
perché non usi la
ragione?
Scendi
dalle tue posizioni,
apri il cancello
Potrebbe
piovere, ma c'è un
arcobaleno sopra di te
Faresti
meglio a lasciare che
qualcuno ti ami
Prima che
sia troppo tardi
Inspirò.
Immediatamente l’odore dei
disinfettanti invase le sue narici. Sospesa tra sonno e veglia, la sua
mente arguta
si mise in
moto,
cercando di
raccogliere freneticamente più informazioni possibili sulla
situazione in cui
si trovava. Prese un altro respiro, lentamente, quasi con cautela.
Sentiva…
dolore e sollievo. Significava che era vivo.
Un attimo.
Vivo? In realtà era
sorpreso di scoprire che, apparentemente, era sopravvissuto
all’ira del Signore
Oscuro. Un magistrale colpo di fortuna, di sicuro. Eppure
era ancora li, con un cuore
che martellava ancora
ad un ritmo leggero ma regolare, con dei polmoni che si riempivano e
svuotavano
in sincronia, con tutte le ossa del corpo che gli facevano un male
cane. Dolore
– si acuiva ad ogni respiro. Quando la sua cassa toracica si
espandeva era come
se venisse pugnalato da uno stiletto tagliente, e quando provava a
deglutire la
sua gola sembrava andare a fuoco.
Il dolore non
gli era nuovo. Come un
vecchio amico, lo aveva accompagnato nel corso degli anni...Si poteva
amaramente
definire quasi un esperto. Era consapevole che si potesse presentare in
varie
forme e che qualche volta le ferite corporali guarissero più
velocemente di
quelle dell’anima. Mentre altri lo rifuggivano, lui era
abituato a sopportarlo,
ed in fondo era l’unico punto fermo di quell’ignota
situazione.
Il suo cervello
registrò altre informazioni.
All’apparenza aveva un ago collegato ad una flebo infilato
nell’avambraccio.
Era una sensazione spiacevole, ma non più di una puntura di
una grossa zanzara.
Non si curò di aprire gli occhi. A quel punto, era
già abbastanza dover accettare
di essere vivo, e di sentirsi men che entusiasta a riguardo.
Qual era il suo
ultimo ricordo?
Strinse di più gli occhi, ritraendosi in se stesso,
ricercando quelle memorie
nella sua coscienza. L’ultima cosa che ricordava era che
stava morendo
dissanguato mentre il ragazzo, Potter, lo fissava con gli occhi
sbarrati. Analizzando
quel momento in retrospettiva, trovò leggermente ironico
aver visto proprio lui
per ultimo, nella sua esistenza terrena. Il mondo intero sembrava
girare
intorno al famigerato Signor Potter, dopotutto. In tutta
sincerità, doveva ammettere
che non tutte le colpe erano da ricondurre al
Ragazzo-Sopravvissuto-Ancora. Gli
eventi in cui quell'insolente ragazzino si era spesso ritrovato
coinvolto, e
alcune volte anche costretto, risalivano a un tempo lontano dalla sua
nascita -
un tempo, dove i suoi genitori erano ancora studenti ad Hogwarts. Giorni
di scuola, giorni di scuola. Vecchi, cari, routinari, giorni
dorati… Da quei
tempi aveva compiuto tante scelte, e per suo grande rammarico, molte di
esse si
erano rivelate terribilmente sbagliate.
Un amaro
sorrisetto si formò agli
angoli della sua bocca. Alla fine la sua morte sarebbe stata inutile,
ma quale
morte alla fine aveva senso? Solo i giovani morivano in maniera eroica.
I
bastardi di mezza età come lui… Beh, loro
morivano di una normale, noiosa morte
senza senso, perché raggiunta una certa età
l’idealismo diventava qualcosa di
inafferrabile.
Sentì
un fruscio di tessuto. Essendo
piuttosto sicuro di non essersi mosso, concluse di non essere solo
nella
stanza. Forse, dopotutto, era tempo di aprire gli occhi. La prima cosa
che
entrò nel suo campo visivo fu il suo braccio, che sembrava
più pallido e magro
di quanto ricordasse. Scoprì stranamente che non gli
importava più di tanto. Il
Marchio Nero era oscurato da un brutto livido violaceo. C’era
stato un tempo in
cui niente era stato capace di ricoprirlo, ma ora era solo un ricordo
lontano. Chiuse
di nuovo i suoi occhi, sentendosi esausto.
“Penso
che sia sveglio,” sentì dire a
una voce femminile. Normalmente forse non sarebbe stata spiacevole, ma
in quel
momento tutte le voci echeggiavano dolorosamente nella sua testa come
il raschìo
di unghie sulla lavagna.
Un’ombra
ricadde su di lui. Un aroma
poco familiare invase le sue narici: un profumo costoso, molto dolce,
quasi
nauseante. “Chiamo un’infermiera,” disse
la voce dopo un momento di esitazione.
Poteva sentire gli occhi della donna sul suo viso, e
aggrottò le sopracciglia infastidito.
La sua presenza era a malapena tollerabile.
Inaspettatamente
il dolore si
intensificò, riversandosi su di lui come un’onda.
Prima era stato sopportabile,
ma ora che ogni sensazione era decuplicata, la sua testa minacciava di
esplodere. Voleva urlare, ma non ci riusciva. Dalla sua gola sarebbe
dovuto
uscire qualche suono, ma sentiva solo dei disperati ansimi strozzati.
Sentiva
le guance bagnate. Piangeva, probabilmente per la prima volta da anni,
ma a
quel punto non se ne preoccupava più. Il suo corpo era
dolore, la sua mente una
caliginosa nube rossa.
“Tienilo
fermo,” ordinò un’altra
voce, suonando improvvisamente vicina. Diversi volti lo sovrastavano,
ma non
riusciva a vederne chiaramente neanche uno. Emergevano brevemente da
quella
confusione indistinta che era la sua visione, poi vi sparivano di nuovo
dentro.
Scosse la testa ancora e ancora, sapendo istintivamente cosa sarebbe
successo.
No! No! No! No! Qualcuno toccò il suo braccio. Una presa
decisa ma gentile
intorno al suo polso, una breve inutile lotta, seguita dalla leggera
sensazione
dell’ago che penetrava la sua pelle. Poi tutto
rallentò piacevolmente. I suoni
si affievolirono fino ad esaurirsi, e i movimenti veloci diventarono
lenti,
mentre precipitava gradualmente in un sonno privo di sogni.
“E’
un oltraggio!” sibilò lei al
giovane guaritore, mentre sullo sfondo due infermiere si affrettavano
intorno
al letto dell’uomo. Una controllava criticamente la flebo
attraverso la quale
la pozione Guaritrice entrava in cirlcolo, mentre l’altra
prendeva le
pulsazioni dell’uomo. Il giovane guaritore rimase senza
fiato. Era sulla trentina
e arrivava probabilmente dritto dritto dalla Scuola Medica Merlino o da
qualche
altra università. Inesperto com’era,
l’improvviso sfogo della donna lo prese
momentaneamente alla sprovvista.
“Mi
dispiace, Signorina Priestley,”
iniziò.
“Non
Priestley. Carter,” lo
interruppe la donna con voce stridula per il suo stato di agitazione.
“Signorina
Carter, se gentilmente mi
dice qual è il suo problema, farò del mio meglio
per aiutarla,” suggerì il
giovane uomo, cercando di essere particolarmente educato per non farla
arrabbiare ulteriormente.
“Sono
sorpresa che me lo chieda. Il
coma di mia zia è il risultato dell’attacco di
alcuni Mangiamorte. Trovo piuttosto
insensibile che abbiate scelto di metterla nella stessa stanza con uno
di
loro.” I suoi occhi verdi lo fissarono con disapprovazione.
Le sue mani
tremavano leggermente. Appena se ne rese conto, le strinse in due pugni.
“Per
favore, Signorina Carter. Si
calmi.” Il guaritore si guardò intorno, cercando
impotente qualcuno o qualcosa
che lo potesse salvare dalla situazione. I suoi occhi si fermarono
sulla
tavoletta d’argento che pendeva alla fine del letto della zia
della signorina
Carter. La afferrò, tenendola tra sé e la donna
come uno scudo.
“Signorina
Carter, posso chiamarla
Abigail?” chiese, sbirciando il suo nome mentre gli occhi
leggevano
nervosamente l’anamnesi del paziente.
“No,
non penso che sia necessario,”
rispose lei tranquillamente, incrociando le braccia.
Il guaritore
rimase momentaneamente
basito dalla risposta. “Signorina Carter,
quest’uomo non è un Mangiamorte
qualunque. Si è preoccupata di leggere i
giornali?” Iniziava a sentirsi
irritata. “Lui è Severus Piton.” Il
dottore indicò il paziente in questione.
Abigail si
voltò per dare
un'occhiata veloce dell’uomo sul letto d’ospedale
dietro di lei, poi concentrò
di nuovo la sua attenzione sul giovane dottore.
“Quindi?”
“Ha
lavorato per Silente e l’Ordine
della Fenice,” spiegò con esasperazione.
“Oh,
senza dubbio! Avrebbe potuto
dirmelo prima. Questo risolve tutto,” rimarcò
sarcasticamente.
Il giovane uomo
sospirò. “Beh, se le
è di consolazione, garantisco io per lui. È
perfettamente sicuro. Inoltre vede come
è stato ridotto. Che minaccia può rappresentare
in queste condizioni?”
“Lei
cosa ne pensa? Esattamente
quella che rappresenta un generico Mangiamorte svenuto. Praticamente
innocuo
come un gattino,” la sua voce grondava sarcasmo.
“Va
bene, vedo che con lei non si
può ragionare,” il guaritore alzò le
mani in resa.
“Si
potrebbe, se trasferisse mia zia
in un’altra stanza.”
“Vedrò
cosa si può fare,” evitò
strategicamente di menzionare che al momento il San Mungo era pieno e
che le
possibilità di trovare a sua zia un’altra stanza
erano pari a quelle di trovare
una palla di neve all’inferno. La guerra era appena finita.
C’erano molti
feriti e ancora di più sull’orlo della morte.
Aveva cose più importanti a cui
pensare che non risentimento e dolore.
***
Lei si
curvò sopra di lui,
fissandolo dall’alto in basso. Gli occhi con cui lo stava
scrutando non erano
gentili. Coglievano ogni difetto, ogni piccola imperfezione.
Molte persone
sembravano serene nel
sonno. La loro maschera scivolava via, rivelando la loro vera natura.
Era come
una rapida occhiata nel passato, la visione di una versione
più giovane e
innocente del dormiente. Ma questo uomo? La sua faccia era un maschera
anche
nel sonno.
Il suo naso
adunco era il tratto
dominante di un viso che trasudava un’aria di arroganza e
severità. Le due
profonde rughe intorno alla bocca non sembravano quelle tipiche di una
persona che
amava ridere di cuore. Poteva immaginare la sua bocca ghignare con fare
derisorio verso di lei. Il complementare cipiglio, che supponeva
seguisse il
ghigno, doveva essere il colpevole del profondo solco tra le sue
sopracciglia.
I suoi occhi
vagarono sulla gola che
era stata finemente avvolta in bende. Dovevano essere cambiate. Sottili
venature rosse si stavano formando sul bordo della stoffa bianca,
espandendosi
e scurendosi lentamente. Per qualche ragione che non riuscì
a spiegarsi, tese
la mano come per toccargli la guancia. La sua pelle sarebbe stata calda
o
fredda? Le sue dita indugiarono indecise sul suo viso per un istante.
Lei
sobbalzò violentemente quando la
mano di lui si mosse fulminea e si chiuse attorno al suo polso. La sua
presa
era salda, ma non brutale. Non si aspettava di svegliarlo. Era stato
fuori
gioco fino all’incidente di pochi giorni prima.
I loro occhi si
incontrarono. Un
sopracciglio si alzò quasi beffardo mentre la guardava senza
battere ciglio.
Guardare dentro i suoi occhi neri era stranamente turbante, ma lei
sostenne lo
sguardo senza cedere, anche se si sentiva come una mangusta di fronte a
un
serpente velenoso.
“Lei
è uno di loro,” disse lei
infine, meravigliata dalla tranquillità della sua stessa
voce. Con un
energetico strattone riuscì a liberare la mano.
La mano di lui
tornò sul lenzuolo in
modo slealmente lento. Incapace di parlare, lui continuò a
fissarla, dando l’impressione
di essere del tutto indifferente a quanto lei aveva appena detto. Poi,
alla
fine - un lento annuire, un segnale per lei che aveva capito.
“Loro,”
la voce di lei era quasi un
sibilo quando pronunciò quella parola
“l’hanno quasi uccisa.” Gli occhi di
Abigail vagarono automaticamente sopra la forma dormiente di sua zia.
Lui ruotò
cautamente la testa per seguire la sua occhiata, attento a non far
riaprire le sue
ferite. Ci fu un lampo
di comprensione nei suoi occhi quando si fermarono sul volto della
donna più
vecchia.
Lei lo guardava
con la coda
dell’occhio, senza mai perderlo di vista. “La
conosce? Non si preoccupi. Tutti
la conoscono.” La sua bocca era piegata in un sorriso amaro.
“Ma
questo probabilmente è
perché…”
si azzittì un attimo, lottando per tenere sotto controllo le
sue emozioni. Il
dolore andò solo a incrementare la rabbia, cosa che era
controproducente,
perché stava cercando disperatamente di comportarsi
civilmente.
“Può
immaginare quanto io non sia
particolarmente entusiasta di trovarla qui, anche se il dottore mi ha
detto che
lei è l’eccezione che conferma la regola, un
paradosso vivente, per così dire.
L’unico Mangiamorte del mondo
intero di cui ci si possa
fidare. Deve scusarmi se non condivido
l’entusiasmo,” il tono derisorio della
sua voce era difficile da non notare.
Lei si
azzittì di nuovo, guardandolo
gravemente, come per cercare di capire se fosse una minaccia o no. Dopo
un po’
sembrò aver raggiunto una qualche sorta di conclusione,
perché allontanò gli
occhi per fissare invece il lucido pavimento di linoleum. “Ho
letto qualcosa su
di lei. La sua biografia non ispira proprio fiducia, ma il ragazzo,
Potter,
pensa di sicuro che lei sia una specie di eroe.”
La bocca di lui
si contrasse in un
sorriso amaro, che lei non mancò di notare.
“E’ quello che penso anch’io.”
commentò il suo gesto. “Diciamo le cose come
stanno. Io non aspiro a
conoscerla, ma anche se lo facessi, non penso che diventeremmo migliori
amici.”
L’espressione
sul viso di lei
cambiò. La calma apparente venne rimpiazzata da
un’espressione arrabbiata. Si
sporse più vicino in modo da trovarsi quasi naso a naso. Lui
la guardò
tranquillamente per un momento. Fino a quel momento era stata solo una
donna
fastidiosa, nipote della signora con la quale aveva la sfortunata di dividere la
camera. Non gli
importava di lei, perché era stata solo un’altra
faccia senza nome, ma
sfortunatamente lei voleva farne una questione personale. Lo
costringeva a
guardarla, a percepirla ad un livello che andava oltre la semplice
constatazione della sua esistenza. Gli occhi di lui vagarono sul suo
viso,
cercando di catalogarne i tratti. Viso ovale, fronte alta, mento
piccolo, naso
corto, sopracciglia arcuate, occhi verdi…
Con grande
sorpresa della donna, la
sua vicinanza improvvisa sembrava metterlo molto a disagio. Le sue
narici si
dilatarono leggermente mentre di nuovo respirava l’aroma del
suo profumo. Il
calore irradiava da lei e si insinuava sotto la sua pelle. Era una
sensazione
poco familiare che lo innervosiva parecchio. Incapace di sostener il
suo sguardo
ancora a lungo, i suoi occhi vagarono altrove, guardando qualunque cosa
tranne
lei. Il suo ovvio disagio le diede quel tipo di sicurezza di cui aveva
bisogno
per dire a voce alta ciò che aveva sulla punta della lingua.
Quando
parlò ancora, il suo fiato
caldo pizzico la sua pelle. La sua voce era bassa; quasi un sussurro,
ma poteva
sentirla abbastanza bene. “Per il momento diciamo che la
terrò d'occhio. Se
qualcosa va storto… se lei e i suoi amici Mangiamorte
torcono anche solo un
capello a mia zia…” Il resto della frase rimase
sospesa nell’aria.
“Forse
sono solo una donna, ma non
le conviene sottovalutarmi.” Gli scoccò
un’ultima occhiata persistente, prima
di muoversi bruscamente per alzarsi.
Il suo
improvviso allontanamento lo
lasciò a domandarsi se si fosse immaginato tutto. Ma
l'angolo del suo letto su
cui lei si era seduta era ancora caldo e la sua minaccia gli risuonava
ancora
nelle orecchie. Per sua somma sorpresa dovette riconoscere che l'aveva
presa
seriamente.
***
La voce di lei
lo strappò via da un
sonno privo di sogni. A differenza dell’ultima volta che
l’aveva sentita, non
era carica di aggressività. Era dolce e gentile, cosa che
gli fece capire che
con tutta probabilità non stava parlando con lui.
Una
conversazione con lui, comunque,
sarebbe stata unidirezionale in quei giorni. Il guaritore
l’aveva informato che
l’attacco di Nagini gli aveva lesionato le corde vocali,
rendendogli
impossibile parlare fino a quando le ferite non si fossero rimarginate.
In quel
momento gli stavano somministrando la pozione Vox Reparo, che,
speravano,
sarebbe servita allo scopo. Aveva letto qualcosa a riguardo ma la
pozione era
ancora in fase sperimentale, e questo non aumentava le sue speranze.
“Seriamente,
non riesco a capire perché questa storia ti piaccia tanto.
Giuro, ogni volta
che la leggo, mi viene
da piangere,” disse Abigail, rivolgendosi ovviamente a sua
zia.
Dopo che se ne
fu andata, il silenzio insopportabile avvolse nuovamente
la stanza. Volse la sua testa per guardare la persona che giaceva nel
letto
accanto al suo. Per lui era soltanto
un’anziana
signora dai capelli argentei. Per il resto del mondo Magico, era Miriam
Priestley - una celebrità. Il Cavillo, la Gazzetta del
Profeta, praticamente
ogni giornale, aveva già scritto di lei nel corso degli
anni. La sua faccia ben
conosciuta, che
generalmente sorrideva allegramente dalle copertine dei libri, era adesso
pallida e
decisamente poco affascinante. Era praticamente impossibile non sapere
chi lei
fosse. Miriam Priestley, mahatma nella ricerca e nello sviluppo di
incantesimi,
orgogliosa autrice di vari libri di Difesa contro le Arti Oscure. Al momento non
sembrava granché ad
una leggenda;
infatti in ogni suo tratto se ne poteva scorgere l'età, ed ogni ruga, ogni
chiazza sulla
pelle era pronunciata, a causa del suo cattivo stato di salute.
Severus provava il
disperato bisogno di trovare qualcosa con cui tenere occupata la sua
mente. Non
che qualcuno avesse in programma di venirlo a trovare, comunque; a nessuno
importava abbastanza
di lui per venire a vedere come stava. Tutto quello che doveva fare era
aspettare con ansia la
fine di un altro lungo
pomeriggio. Così quando scorse il libro rilegato in pelle
sul comodino
del
letto della
signora Priestley, lo vide come la sua ancora di salvezza. Doveva solo alzarsi e
prenderlo, ma chissà se era veramente pronto a sostenere un
tale sforzo. Un semplice
“Accio libro!”
sarebbe bastato. Beh, peccato! Non aveva la sua bacchetta e praticare magia
senza
era fuori
questione nel suo debole stato. Era inutile piangere sul latte versato.
Fece scendere
le gambe dal bordo del letto. La tunica d'ospedale
arrivava a coprire
a malapena le sue
ginocchia che apparivano
ossute e pallide, non come l'ultima volta che le aveva viste. Non aveva piena
fiducia
nella funzionalità delle sue gambe, ma l'alternativa di
soffrire ancora la
noia,
trascorrendo il tempo a
fissare il soffitto, non era proprio un’alternativa. Avrebbe
preferito piuttosto stare steso sul pavimento come uno scarafaggio sul
dorso
che sopportare ancora un altro minuto così.
Per sua
sorpresa riuscì a raggiungere, vacillando, il comodino e
recuperare la sua preda senza incorrere in nessun incidente
preoccupante. Ci
volle solo circa mezz'ora. Certo, ci fu qualche occasionale scivolata, un
po’ di nausea, ed
inciampò qualche volta, ma nulla che non potesse sopportare.
Alla fine
sprofondò nel suo letto esausto, ma col libro tra le mani.
Trascorse il resto
del pomeriggio sfogliandolo, divorando ogni parola scritta sulle pagine
ingiallite.
Col senno di
poi, probabilmente non si sarebbe mai lamentato della
mancanza di compagnia, perché l'ebbe molto prima di quanto
volesse. Il giorno
seguente, Harry Potter venne a fargli visita. Fortunatamente gli acuti
squittii
di eccitazione emessi
delle infermiere alla
sua
vista lo
avvertirono in anticipo,
così poté velocemente fingere di essere addormentato in tempo.
Poteva sentire una
sedia venire accostata al suo letto, seguito da un lungo, tirato,
sospiro.
Fortunatamente Potter ebbe abbastanza buon senso da non provare a
svegliarlo.
La sua perseveranza era piuttosto sorprendente. Dopo un'ora era ancora
lì.
“E'
sempre così?” bisbigliò alla fine
Potter ad un’infermiera passante
che era venuta a prendersi cura della signora Priestley.
“Si, dorme molto. Almeno,
è
sempre addormentato quando entro in questa camera,” disse con
tono amichevole.
Piton sogghignò malignamente tra
sé e sé. Questo era
perché l’infermiera era
fastidiosa quasi quanto Potter. Lo importunava sempre, offrendosi di
sprimacciargli
il cuscino, chiedendo se avesse apprezzato il pranzo o meno, il che era
estremamente stupido, dato che evidentemente non poteva rispondere.
“Forse
dovrei andare via,” disse Potter con rammarico.
“Così
presto? É appena arrivato.”
“Ritornerò.”
Alle orecchie di Piton quella frase suonò come una
minaccia. Il rumore della sedia che strisciava sul pavimento
annunciò
l'allontanamento a lungo desiderato del Sig. Potter. Sentì
dei passi sul
pavimento di detestabili
suole di gomma. Che altro?
La porta si
aprì. “Oh, mi scusi,” esclamò
una ben conosciuta voce
femminile.
Era di nuovo
quella donna,
era
già arrivato il momento della
giornaliera visita a sua zia. “Non mi aspettavo
di trovarla qui. Lei è
Harry Potter, vero? Abigail Carter. Piacere di conoscerla.”
Adesso aveva un
nome da associare a quel viso. Forse poteva smettere di
chiamarla “quella donna”- o forse no, se continuava
ad essere estremamente
detestabile.
“Piacere
di conoscerla, Signorina Carter. Non è che, per puro caso,
lei
è imparentata con...”
“Miriam
Priestley, sì,” giudicando dal tono della sua voce
stava
sorridendo.
“Oh,
per un momento ho pensato che avrebbe detto Piton,” il tono
di
Potter era sospettosamente neutrale.
“No,”
disse lei freddamente. La sua risposta monosillabica parlava da
sé.
“Non le piace,
eh?”
osservò Potter.
“E'
così ovvio?” chiese lei leggermente imbarazzata.
“Beh,
sì.”
“Mi
deve scusare allora.”
“Nessun
problema.”
“Ok,
allora…”
Potter
fece brevemente una pausa, “Piacere
di averla conosciuta, Signorina
Carter.”
“Abigail,”
offrì lei.
“Abigail.
Ma solo se mi chiami Harry.”
“Va
bene.”
“D'accordo.”
“Arrivederci
allora.”
“Ciao.
Ci si
vede in giro, allora.”
“Sì,
suppongo di sì,” sentì un sorriso
inconfondibile nella voce di
Potter. Fece pochi
passi, si fermò di
nuovo. “Mi dispiace se sembro un po' sfrontato, ma devo
proprio chiedere...come
può odiare qualcuno che non è nemmeno capace di
parlare?”
“E'
un Mangiamorte,” disse come se quello da sé si
spiegasse da solo.
“Capisco,
ma considerando
tutto quello che ha fatto non credi di avere, non so, un
po’ di
pregiudizi?”
“Forse,
ma chiunque al
posto mio sarebbe
leggermente sensibile quando si tratta di Mangiamorte,” il
tono
di voce rappresentava un avvertimento a non toccare quell'argomento.
“Come
mai?” Potter era ancora incapace di cogliere le ovvie
sottigliezze.
“Sono
stata una fuggitiva per gli ultimi due anni. Sono una Mezzosangue, sai. Possiedo un negozio di libri a Diagon
Alley. É
stato chiuso in mia assenza. “Mondi in Collisione”?
Non credo che tu ne abbia mai sentito
parlare. Vendiamo
letteratura Babbana così come libri di incantesimi,
biografie e qualsiasi cosa
che sia mai stato pubblicato nella Comunità
Magica.”
“Veramente
sì. Ad una mia amica piace fare acquisti lì.
Hermione
Granger?”
“Ma
certo, Hermione. Portale i miei saluti. É una
così cara ragazza.
Spero stia bene.”
“Sì, sì.”
“Per
quanto riguarda Piton...”
“Si,
cosa?” c'era una traccia di irritazione nella sua voce.
“Per
tenerle compagnia. So che l'ha preso la volta scorsa...credo che
sia meno problematico così,” disse lei. Era andata
via prima ancora che lui
potesse aprire gli occhi.
Dopo una
settimana improvvisamente venne loro l'idea di dargli pergamena
e penna d'oca così che potesse essere almeno in grado di
comunicare. La ragione
per cui ci avessero messo circa una settimana per arrivarci non fu per negligenza. Era solo che il
loro paziente non
sembrava particolarmente loquace.
Poiché
molte delle sue ossa rotte e dei suoi lividi stavano iniziando a
guarire, trascorse
considerevolmente
meno tempo a dormire e molto più ad annoiarsi.
Naturalmente
era grato delle visite di Abigail, perché anche se non
veniva per lui, gli
forniva comunque un qualche tipo di distrazione durante quegli infiniti
giorni
al San Mungo. Quando era a corto di parole con sua zia, tirava fuori
questo o
quell’altro libro e iniziava a leggere.
Non tutti
sposavano i suoi gusti, alcuni erano piuttosto sdolcinati e
femminili, ma come aveva detto lei stessa prima, non leggeva per
lui, e quindi non aveva
di che lamentarsi. Che gli
interessassero o meno, tutti riuscirono a
coinvolgerlo e gli permisero di lasciarsi alle spalle quella mediocre
stanza in
cui era confinato, anche se solo
per un'ora.
Per qualche
ragione - forse erano state le parole di Potter - lei aveva
preso l'abitudine di lasciargli libri sul
comodino prima di andare via, così che potesse leggerli a sua
discrezione.
“Gli
da almeno uno sguardo?” Abigail chiese quando
depositò l'ultimo
libro accanto al suo letto. Lei lo guardò con aspettativa
come se stesse
realmente aspettando una risposta. Sentendosi
stranamente
obbligato a giustificarsi, raggiunse d’impulso
la
penna d'oca e la pergamena.
La sua
scrittura era regolare, come se fuoriuscisse da una
pressa topografica, e piuttosto vecchio stile. “Non gli ho
meramente dato uno
sguardo, li ho letti, persino,” diceva il foglio. Aveva
dovuto sacrificare la
maggior parte del suo consueto sarcasmo in vece della concisione,
eppure
qualcosa ancora riusciva a filtrare dalla brevità della nota.
“Spero
che le stiano piacendo,” disse lei piuttosto
impersonalmente.
Affascinata,
vide come la sua mano scrisse un altra sentenza sul foglio
come se si muovesse
di sua sponte.
“Erano soddisfacenti.”
“Bene.
Beh, d'accordo. Credo che andrò adesso,”
annunciò e si volto per
andare via, ma fu fermata da una mano attorno al suo braccio.
Abbassò lo
sguardo per fissarlo con fare inquisitorio. Lui rimosse velocemente la
mano, prima di affrettarsi a scrivere
qualcos'altro sul pezzo di carta.
“Mi ha stancato.
Perché non
si decide a chiedere?”
Lei
guardò alternativamente lui, poi il foglio con un cipiglio
sul viso.
“Chiedere cosa?”
Questa volta si
risparmiò di scrivere. Non era necessario. Lo sguardo
sul suo viso parlava chiaro. Le sue sopracciglia erano sollevate
scetticamente
e la sua bocca era incurvata in un sorriso derisorio.
“Bene,”
disse Abigail, provando a mantenere la sua voce regolare. Senza
alcun dubbio aveva voluto chiederglielo lo stesso minuto che aveva
visto il
marchio nero sul suo braccio.
“E'
coinvolto in quello che è accaduto a lei?”
Lui
voltò la testa per guardare sua zia per un lungo momento,
poi
finalmente scosse la testa.
I suoi occhi
ricaddero sul libro che giaceva sul comodino. Era un porto sicuro
in quella
situazione grottesca. “Questo è uno dei preferiti
di mia zia,” gli disse
Abigail, cambiando deliberatamente argomento. Ne aveva saputo
abbastanza quel giorno. “Ne
abbia
molta cura. Lo rivoglio indietro domani.”
La pozione Vox
Reparo dovrebbe aver funzionato adesso. Ha già provato a
parlare?” chiese esasperatamente il giovane guaritore.
Lui scosse la testa. No. Non ne aveva sentito l'esigenza sino a quel
momento.
“Beh,
forse dovrebbe provare ora,” suggerì l'altro uomo.
“Vorremmo
sapere se almeno ha dato qualche tipo di effetto.”
“E
così ha funzionato,” rimarcò seccamente
il guaritore.
“A rilento,
sì,”
aggiunse Piton
per prendere le dovute misure.
“Dopo
il tipo di ferite di cui ha sofferto, è un miracolo che
abbia
persino sortito qualche
effetto,”
dando uno sguardo alla cartella clinica del paziente.
“Così,
quanto tempo intendete tenermi qui dopo aver recuperato la mia
voce?”
“Francamente,
Signor Piton, non dovrebbe prenderla così alla leggera.
É
un miracolo che lei sia vivo dopotutto. Se il Signor Paciock non
l'avesse
trovata quando lei...Deve ancora ristabilirsi. Ha sofferto di
un’emorragia
prolungata, diverse costole rotte e fratture, un paio di ematomi
evidenti...Non
mi sentirei in pace con
me stesso a dimetterla
subito.”
“Bene,” rispose Piton oscuramente, provando a venire a patti con il fatto che fosse stato salvato da null’altri che Neville Paciock. L'universo sembrava avere un senso dell'umorismo piuttosto oscuro.