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Autore: Teanni    22/12/2009    5 recensioni
Piton è sopravvissuto all'attacco di Lord Voldemort, grazie ad uno sfacciato colpo di fortuna e ad un certo Signor Paciock.
Ma il fato è crudele: costretto a letto, deve sopportare la presenza di una giovane donna irritante che lo odia profondamente.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Severus Piton
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Questa fanction è una traduzione. Potete trovare l'originale cliccando sul link presente nelle Note del''Autore.  

DESPERADO 

L'uomo che non sapeva piangere 

Traduzione a cura di besemperadreamer e erika91

Disclaimer: questa storia è stata scritta per i fan. I personaggi non mi appartengono, con l’eccezione di quelli inventati da me (ovviamente non Piton, Silente, eccetera) e della mediocre trama che ho messo insieme.

NdA: La canzone, come il titolo di questa storia, deriva dalla favolosa e malinconia canzone “Desperado” di Johnny Cash. E, ovviamente, non posso reclamare come mio il genio di Oscar Wilde. La storia che Abby legge è “Il  Principe Felice”.

Molte grazie alla mia brillante beta!

“Don’t your feet get cold in the winter time?

The sky won’t snow and the sun won’t shine

It’s hard to tell the night time from the day

You’re losing all your highs and lows

Ain’t it funny how the feeling goes away?

Desperado, why don’t you come to your senses?

Come down from your fences, open the gate

It may be raining, but there’s a rainbow above you

You better let somebody love you, before it’s too late”

Ma i tuoi piedi non diventano freddi nell'inverno?

Dal cielo non nevica e il sole non brilla

È difficile distinguere la notte dal giorno

Stai perdendo tutti i tuoi alti e bassi

Non è strano come la sensazione se ne va?

 

Desperado, perché non usi la ragione?

Scendi dalle tue posizioni, apri il cancello

Potrebbe piovere, ma c'è un arcobaleno sopra di te

Faresti meglio a lasciare che qualcuno ti ami

Prima che sia troppo tardi

 

Inspirò. Immediatamente l’odore dei disinfettanti invase le sue narici. Sospesa tra sonno e veglia, la sua mente arguta si mise in moto, cercando di raccogliere freneticamente più informazioni possibili sulla situazione in cui si trovava. Prese un altro respiro, lentamente, quasi con cautela. Sentiva… dolore e sollievo. Significava che era vivo.

Un attimo. Vivo? In realtà era sorpreso di scoprire che, apparentemente, era sopravvissuto all’ira del Signore Oscuro. Un magistrale colpo di fortuna, di sicuro. Eppure era ancora li, con un cuore che martellava ancora ad un ritmo leggero ma regolare, con dei polmoni che si riempivano e svuotavano in sincronia, con tutte le ossa del corpo che gli facevano un male cane. Dolore – si acuiva ad ogni respiro. Quando la sua cassa toracica si espandeva era come se venisse pugnalato da uno stiletto tagliente, e quando provava a deglutire la sua gola sembrava andare a fuoco.

Il dolore non gli era nuovo. Come un vecchio amico, lo aveva accompagnato nel corso degli anni...Si poteva amaramente definire quasi un esperto. Era consapevole che si potesse presentare in varie forme e che qualche volta le ferite corporali guarissero più velocemente di quelle dell’anima. Mentre altri lo rifuggivano, lui era abituato a sopportarlo, ed in fondo era l’unico punto fermo di quell’ignota situazione.

Il suo cervello registrò altre informazioni. All’apparenza aveva un ago collegato ad una flebo infilato nell’avambraccio. Era una sensazione spiacevole, ma non più di una puntura di una grossa zanzara. Non si curò di aprire gli occhi. A quel punto, era già abbastanza dover accettare di essere vivo, e di sentirsi men che entusiasta a riguardo.

Qual era il suo ultimo ricordo? Strinse di più gli occhi, ritraendosi in se stesso, ricercando quelle memorie nella sua coscienza. L’ultima cosa che ricordava era che stava morendo dissanguato mentre il ragazzo, Potter, lo fissava con gli occhi sbarrati. Analizzando quel momento in retrospettiva, trovò leggermente ironico aver visto proprio lui per ultimo, nella sua esistenza terrena. Il mondo intero sembrava girare intorno al famigerato Signor Potter, dopotutto. In tutta sincerità, doveva ammettere che non tutte le colpe erano da ricondurre al Ragazzo-Sopravvissuto-Ancora. Gli eventi in cui quell'insolente ragazzino si era spesso ritrovato coinvolto, e alcune volte anche costretto, risalivano a un tempo lontano dalla sua nascita - un tempo, dove i suoi genitori erano ancora studenti ad Hogwarts. Giorni di scuola, giorni di scuola. Vecchi, cari, routinari, giorni dorati… Da quei tempi aveva compiuto tante scelte, e per suo grande rammarico, molte di esse si erano rivelate terribilmente sbagliate.

Un amaro sorrisetto si formò agli angoli della sua bocca. Alla fine la sua morte sarebbe stata inutile, ma quale morte alla fine aveva senso? Solo i giovani morivano in maniera eroica. I bastardi di mezza età come lui… Beh, loro morivano di una normale, noiosa morte senza senso, perché raggiunta una certa età l’idealismo diventava qualcosa di inafferrabile.

Sentì un fruscio di tessuto. Essendo piuttosto sicuro di non essersi mosso, concluse di non essere solo nella stanza. Forse, dopotutto, era tempo di aprire gli occhi. La prima cosa che entrò nel suo campo visivo fu il suo braccio, che sembrava più pallido e magro di quanto ricordasse. Scoprì stranamente che non gli importava più di tanto. Il Marchio Nero era oscurato da un brutto livido violaceo. C’era stato un tempo in cui niente era stato capace di ricoprirlo, ma ora era solo un ricordo lontano. Chiuse di nuovo i suoi occhi, sentendosi esausto.

“Penso che sia sveglio,” sentì dire a una voce femminile. Normalmente forse non sarebbe stata spiacevole, ma in quel momento tutte le voci echeggiavano dolorosamente nella sua testa come il raschìo di unghie sulla lavagna.

Un’ombra ricadde su di lui. Un aroma poco familiare invase le sue narici: un profumo costoso, molto dolce, quasi nauseante. “Chiamo un’infermiera,” disse la voce dopo un momento di esitazione. Poteva sentire gli occhi della donna sul suo viso, e aggrottò le sopracciglia infastidito. La sua presenza era a malapena tollerabile.

Inaspettatamente il dolore si intensificò, riversandosi su di lui come un’onda. Prima era stato sopportabile, ma ora che ogni sensazione era decuplicata, la sua testa minacciava di esplodere. Voleva urlare, ma non ci riusciva. Dalla sua gola sarebbe dovuto uscire qualche suono, ma sentiva solo dei disperati ansimi strozzati. Sentiva le guance bagnate. Piangeva, probabilmente per la prima volta da anni, ma a quel punto non se ne preoccupava più. Il suo corpo era dolore, la sua mente una caliginosa nube rossa.

“Tienilo fermo,” ordinò un’altra voce, suonando improvvisamente vicina. Diversi volti lo sovrastavano, ma non riusciva a vederne chiaramente neanche uno. Emergevano brevemente da quella confusione indistinta che era la sua visione, poi vi sparivano di nuovo dentro. Scosse la testa ancora e ancora, sapendo istintivamente cosa sarebbe successo. No! No! No! No! Qualcuno toccò il suo braccio. Una presa decisa ma gentile intorno al suo polso, una breve inutile lotta, seguita dalla leggera sensazione dell’ago che penetrava la sua pelle. Poi tutto rallentò piacevolmente. I suoni si affievolirono fino ad esaurirsi, e i movimenti veloci diventarono lenti, mentre precipitava gradualmente in un sonno privo di sogni.

“E’ un oltraggio!” sibilò lei al giovane guaritore, mentre sullo sfondo due infermiere si affrettavano intorno al letto dell’uomo. Una controllava criticamente la flebo attraverso la quale la pozione Guaritrice entrava in cirlcolo, mentre l’altra prendeva le pulsazioni dell’uomo. Il giovane guaritore rimase senza fiato. Era sulla trentina e arrivava probabilmente dritto dritto dalla Scuola Medica Merlino o da qualche altra università. Inesperto com’era, l’improvviso sfogo della donna lo prese momentaneamente alla sprovvista.

“Mi dispiace, Signorina Priestley,” iniziò.

“Non Priestley. Carter,” lo interruppe la donna con voce stridula per il suo stato di agitazione.

“Signorina Carter, se gentilmente mi dice qual è il suo problema, farò del mio meglio per aiutarla,” suggerì il giovane uomo, cercando di essere particolarmente educato per non farla arrabbiare ulteriormente.

“Sono sorpresa che me lo chieda. Il coma di mia zia è il risultato dell’attacco di alcuni Mangiamorte. Trovo piuttosto insensibile che abbiate scelto di metterla nella stessa stanza con uno di loro.” I suoi occhi verdi lo fissarono con disapprovazione. Le sue mani tremavano leggermente. Appena se ne rese conto, le strinse in due pugni.

“Per favore, Signorina Carter. Si calmi.” Il guaritore si guardò intorno, cercando impotente qualcuno o qualcosa che lo potesse salvare dalla situazione. I suoi occhi si fermarono sulla tavoletta d’argento che pendeva alla fine del letto della zia della signorina Carter. La afferrò, tenendola tra sé e la donna come uno scudo.

“Signorina Carter, posso chiamarla Abigail?” chiese, sbirciando il suo nome mentre gli occhi leggevano nervosamente l’anamnesi del paziente.

“No, non penso che sia necessario,” rispose lei tranquillamente, incrociando le braccia.

Il guaritore rimase momentaneamente basito dalla risposta. “Signorina Carter, quest’uomo non è un Mangiamorte qualunque. Si è preoccupata di leggere i giornali?” Iniziava a sentirsi irritata. “Lui è Severus Piton.” Il dottore indicò il paziente in questione.

Abigail si voltò per dare un'occhiata veloce dell’uomo sul letto d’ospedale dietro di lei, poi concentrò di nuovo la sua attenzione sul giovane dottore. “Quindi?”

“Ha lavorato per Silente e l’Ordine della Fenice,” spiegò con esasperazione.

“Oh, senza dubbio! Avrebbe potuto dirmelo prima. Questo risolve tutto,” rimarcò sarcasticamente.

Il giovane uomo sospirò. “Beh, se le è di consolazione, garantisco io per lui. È perfettamente sicuro. Inoltre vede come è stato ridotto. Che minaccia può rappresentare in queste condizioni?”

“Lei cosa ne pensa? Esattamente quella che rappresenta un generico Mangiamorte svenuto. Praticamente innocuo come un gattino,” la sua voce grondava sarcasmo.

“Va bene, vedo che con lei non si può ragionare,” il guaritore alzò le mani in resa.

“Si potrebbe, se trasferisse mia zia in un’altra stanza.”

“Vedrò cosa si può fare,” evitò strategicamente di menzionare che al momento il San Mungo era pieno e che le possibilità di trovare a sua zia un’altra stanza erano pari a quelle di trovare una palla di neve all’inferno. La guerra era appena finita. C’erano molti feriti e ancora di più sull’orlo della morte. Aveva cose più importanti a cui pensare che non risentimento e dolore.

***

Lei si curvò sopra di lui, fissandolo dall’alto in basso. Gli occhi con cui lo stava scrutando non erano gentili. Coglievano ogni difetto, ogni piccola imperfezione.

Molte persone sembravano serene nel sonno. La loro maschera scivolava via, rivelando la loro vera natura. Era come una rapida occhiata nel passato, la visione di una versione più giovane e innocente del dormiente. Ma questo uomo? La sua faccia era un maschera anche nel sonno.

Il suo naso adunco era il tratto dominante di un viso che trasudava un’aria di arroganza e severità. Le due profonde rughe intorno alla bocca non sembravano quelle tipiche di una persona che amava ridere di cuore. Poteva immaginare la sua bocca ghignare con fare derisorio verso di lei. Il complementare cipiglio, che supponeva seguisse il ghigno, doveva essere il colpevole del profondo solco tra le sue sopracciglia.

I suoi occhi vagarono sulla gola che era stata finemente avvolta in bende. Dovevano essere cambiate. Sottili venature rosse si stavano formando sul bordo della stoffa bianca, espandendosi e scurendosi lentamente. Per qualche ragione che non riuscì a spiegarsi, tese la mano come per toccargli la guancia. La sua pelle sarebbe stata calda o fredda? Le sue dita indugiarono indecise sul suo viso per un istante.

Lei sobbalzò violentemente quando la mano di lui si mosse fulminea e si chiuse attorno al suo polso. La sua presa era salda, ma non brutale. Non si aspettava di svegliarlo. Era stato fuori gioco fino all’incidente di pochi giorni prima.

I loro occhi si incontrarono. Un sopracciglio si alzò quasi beffardo mentre la guardava senza battere ciglio. Guardare dentro i suoi occhi neri era stranamente turbante, ma lei sostenne lo sguardo senza cedere, anche se si sentiva come una mangusta di fronte a un serpente velenoso.

“Lei è uno di loro,” disse lei infine, meravigliata dalla tranquillità della sua stessa voce. Con un energetico strattone riuscì a liberare la mano.

La mano di lui tornò sul lenzuolo in modo slealmente lento. Incapace di parlare, lui continuò a fissarla, dando l’impressione di essere del tutto indifferente a quanto lei aveva appena detto. Poi, alla fine - un lento annuire, un segnale per lei che aveva capito.

“Loro,” la voce di lei era quasi un sibilo quando pronunciò quella parola “l’hanno quasi uccisa.” Gli occhi di Abigail vagarono automaticamente sopra la forma dormiente di sua zia. Lui ruotò cautamente la testa per seguire la sua occhiata, attento a non far riaprire  le sue ferite. Ci fu un lampo di comprensione nei suoi occhi quando si fermarono sul volto della donna più vecchia.

Lei lo guardava con la coda dell’occhio, senza mai perderlo di vista. “La conosce? Non si preoccupi. Tutti la conoscono.” La sua bocca era piegata in un sorriso amaro. 

“Ma questo probabilmente è perché…” si azzittì un attimo, lottando per tenere sotto controllo le sue emozioni. Il dolore andò solo a incrementare la rabbia, cosa che era controproducente, perché stava cercando disperatamente di comportarsi civilmente.

“Può immaginare quanto io non sia particolarmente entusiasta di trovarla qui, anche se il dottore mi ha detto che lei è l’eccezione che conferma la regola, un paradosso vivente, per così dire. L’unico Mangiamorte del mondo intero di cui ci si possa fidare. Deve scusarmi se non condivido l’entusiasmo,” il tono derisorio della sua voce era difficile da non notare.

Lei si azzittì di nuovo, guardandolo gravemente, come per cercare di capire se fosse una minaccia o no. Dopo un po’ sembrò aver raggiunto una qualche sorta di conclusione, perché allontanò gli occhi per fissare invece il lucido pavimento di linoleum. “Ho letto qualcosa su di lei. La sua biografia non ispira proprio fiducia, ma il ragazzo, Potter, pensa di sicuro che lei sia una specie di eroe.”

La bocca di lui si contrasse in un sorriso amaro, che lei non mancò di notare. “E’ quello che penso anch’io.” commentò il suo gesto. “Diciamo le cose come stanno. Io non aspiro a conoscerla, ma anche se lo facessi, non penso che diventeremmo migliori amici.”

L’espressione sul viso di lei cambiò. La calma apparente venne rimpiazzata da un’espressione arrabbiata. Si sporse più vicino in modo da trovarsi quasi naso a naso. Lui la guardò tranquillamente per un momento. Fino a quel momento era stata solo una donna fastidiosa, nipote della signora con la quale aveva la  sfortunata di dividere la camera. Non gli importava di lei, perché era stata solo un’altra faccia senza nome, ma sfortunatamente lei voleva farne una questione personale. Lo costringeva a guardarla, a percepirla ad un livello che andava oltre la semplice constatazione della sua esistenza. Gli occhi di lui vagarono sul suo viso, cercando di catalogarne i tratti. Viso ovale, fronte alta, mento piccolo, naso corto, sopracciglia arcuate, occhi verdi…

Con grande sorpresa della donna, la sua vicinanza improvvisa sembrava metterlo molto a disagio. Le sue narici si dilatarono leggermente mentre di nuovo respirava l’aroma del suo profumo. Il calore irradiava da lei e si insinuava sotto la sua pelle. Era una sensazione poco familiare che lo innervosiva parecchio. Incapace di sostener il suo sguardo ancora a lungo, i suoi occhi vagarono altrove, guardando qualunque cosa tranne lei. Il suo ovvio disagio le diede quel tipo di sicurezza di cui aveva bisogno per dire a voce alta ciò che aveva sulla punta della lingua.

Quando parlò ancora, il suo fiato caldo pizzico la sua pelle. La sua voce era bassa; quasi un sussurro, ma poteva sentirla abbastanza bene. “Per il momento diciamo che la terrò d'occhio. Se qualcosa va storto… se lei e i suoi amici Mangiamorte torcono anche solo un capello a mia zia…” Il resto della frase rimase sospesa nell’aria.

“Forse sono solo una donna, ma non le conviene sottovalutarmi.” Gli scoccò un’ultima occhiata persistente, prima di muoversi bruscamente per alzarsi.

Il suo improvviso allontanamento lo lasciò a domandarsi se si fosse immaginato tutto. Ma l'angolo del suo letto su cui lei si era seduta era ancora caldo e la sua minaccia gli risuonava ancora nelle orecchie. Per sua somma sorpresa dovette riconoscere che l'aveva presa seriamente.

***

La voce di lei lo strappò via da un sonno privo di sogni. A differenza dell’ultima volta che l’aveva sentita, non era carica di aggressività. Era dolce e gentile, cosa che gli fece capire che con tutta probabilità non stava parlando con lui.

Una conversazione con lui, comunque, sarebbe stata unidirezionale in quei giorni. Il guaritore l’aveva informato che l’attacco di Nagini gli aveva lesionato le corde vocali, rendendogli impossibile parlare fino a quando le ferite non si fossero rimarginate. In quel momento gli stavano somministrando la pozione Vox Reparo, che, speravano, sarebbe servita allo scopo. Aveva letto qualcosa a riguardo ma la pozione era ancora in fase sperimentale, e questo non aumentava le sue speranze.

“Seriamente, non riesco a capire perché questa storia ti piaccia tanto. Giuro,  ogni volta che la leggo, mi viene da piangere,” disse Abigail, rivolgendosi ovviamente a sua zia.

Lui voltò il capo scomodamente per guardarla. Lei sedeva su una sedia accanto al letto della zia, con in mano un consunto libro rilegato in pelle. Le sue mani scivolavano sulla rilegatura come se far scorrere le dita sulla sua superficie liscia le procurasse qualche genere di conforto. Ogni tanto si aggiustava gli occhiali. Avevano la montatura scura, rettangolare e la facevano sembrare un topo da biblioteca.

 “Dicono che i pazienti che sono caduti in coma siano capaci di percepire cosa succede attorno a loro così, forse, tu sei in grado di sentire la mia voce. So che è infantile...lo so, ma devo almeno provare, non credi?” fece una pausa come se stesse aspettando veramente che la donna incosciente rispondesse. Sciocca ragazza! L'unica suono nella stanza era l'occasionale sgocciolio della sua flebo. Era quel tipo di silenzio che, alla lunga, poteva diventare esasperante. Avendolo sopportato per ore, ne sapeva qualcosa. Sperò quindi che lei continuasse a parlare. Con suo grande sollievo finalmente lo fece.

“Sapevo che l’avresti pensata come me. Beh, farò meglio a cominciare a leggere allora,” si schiarì la gola. Si udì per poco tempo il fruscio di pagine che venivano voltate, poi la sua voce sorprendentemente regolare riempì la stanza.

In alto, al di sopra della città, su un'alta colonna, c'era la statua del Principe Felice. Era placcato interamente con sottili foglie d'oro zecchino, per occhi portava due brillanti zaffiri, e un largo rubino rosso luccicava sull'impugnatura della sua spada.

Severus era troppo annoiato per fingere disinteresse. Quella sterile e piccola stanza d'ospedale non gli forniva chissà quali distrazioni, così ascoltò con attenzione la sua lettura, assorbendo ogni singola parola. Era la prima forma di intrattenimento degli ultimi due giorni e ne benediva ogni secondo.

Si sentì stranamente toccato da quella storia malinconica. Era una storia di abnegazione e amore incondizionato. Non ne sapeva molto sulla vita, ma di quei due concetti . Il suggerimento che alla fine dell'esistenza terrena ci sarebbe stata una ricompensa per le azioni compiute, comunque, lo fece accigliare. Gli sembrava strano che sarebbe stato perdonato per tutto quello che aveva fatto, sebbene fosse stato per il bene superiore. Il fine giustifica i mezzi e quello che...Balle!

Il rumore della sedia che strisciava sul pavimento mentre lei si alzava lo fece  riemergere da quel sogno ad occhi aperti. Lei baciò sua zia sulla fronte come al solito e si voltò per andar via. Il regolare clip-clap dei suo tacchi alti annunciò il suo allontanamento. Lei esitò quando passò davanti al suo letto.

“Non leggo per lei,” disse infine bruscamente. La sua voce tremò appena quando parlò. Stava tirando leggermente su col naso. Se avesse pianto o no era, a quel punto, relativamente irrilevante. Per qualche ragione si sentì profondamente offeso dal suo commento. Gli unici strumenti di vendetta in quei giorni erano non verbali. Decise quindi perforarle la schiena con lo sguardo mentre si allontanava.   

Dopo che se ne fu andata, il silenzio insopportabile avvolse nuovamente la stanza. Volse la sua testa per guardare la persona che giaceva nel letto accanto al suo. Per lui era soltanto un’anziana signora dai capelli argentei. Per il resto del mondo Magico, era Miriam Priestley - una celebrità. Il Cavillo, la Gazzetta del Profeta, praticamente ogni giornale, aveva già scritto di lei nel corso degli anni. La sua faccia ben conosciuta, che generalmente sorrideva allegramente dalle copertine dei libri, era adesso pallida e decisamente poco affascinante. Era praticamente impossibile non sapere chi lei fosse. Miriam Priestley, mahatma nella ricerca e nello sviluppo di incantesimi, orgogliosa autrice di vari libri di Difesa contro le Arti Oscure. Al momento non sembrava granché ad una leggenda; infatti in ogni suo tratto se ne poteva scorgere l'età, ed ogni ruga, ogni chiazza sulla pelle era pronunciata, a causa del suo cattivo stato di salute. 

Severus provava il disperato bisogno di trovare qualcosa con cui tenere occupata la sua mente. Non che qualcuno avesse in programma di venirlo a trovare, comunque; a nessuno importava abbastanza di lui per venire a vedere come stava. Tutto quello che doveva fare era aspettare con ansia la fine di un altro lungo pomeriggio. Così quando scorse il libro rilegato in pelle sul comodino del letto della signora Priestley, lo vide come la sua ancora di salvezza. Doveva solo alzarsi e prenderlo, ma chissà se era veramente pronto a sostenere un tale sforzo. Un semplice “Accio libro!” sarebbe bastato. Beh, peccato! Non aveva la sua bacchetta e praticare magia senza era fuori questione nel suo debole stato. Era inutile piangere sul latte versato. 

Fece scendere le gambe dal bordo del letto. La tunica d'ospedale arrivava a  coprire a malapena le sue ginocchia che apparivano ossute e pallide, non come l'ultima volta che le aveva viste. Non aveva piena fiducia nella funzionalità delle sue gambe, ma l'alternativa di soffrire ancora la noia, trascorrendo il tempo a fissare il soffitto, non era proprio un’alternativa. Avrebbe preferito piuttosto stare steso sul pavimento come uno scarafaggio sul dorso che sopportare ancora un altro minuto così. 

Per sua sorpresa riuscì a raggiungere, vacillando, il comodino e recuperare la sua preda senza incorrere in nessun incidente preoccupante. Ci volle solo circa mezz'ora. Certo, ci fu qualche occasionale scivolata, un po’ di nausea, ed inciampò qualche volta, ma nulla che non potesse sopportare. Alla fine sprofondò nel suo letto esausto, ma col libro tra le mani. Trascorse il resto del pomeriggio sfogliandolo, divorando ogni parola scritta sulle pagine ingiallite. 

Col senno di poi, probabilmente non si sarebbe mai lamentato della mancanza di compagnia, perché l'ebbe molto prima di quanto volesse. Il giorno seguente, Harry Potter venne a fargli visita. Fortunatamente gli acuti squittii di eccitazione emessi delle infermiere alla sua vista lo avvertirono in anticipo, così poté velocemente fingere di essere addormentato in tempo. Poteva sentire una sedia venire accostata al suo letto, seguito da un lungo, tirato, sospiro. Fortunatamente Potter ebbe abbastanza buon senso da non provare a svegliarlo. La sua perseveranza era piuttosto sorprendente. Dopo un'ora era ancora lì. 

“E' sempre così?” bisbigliò alla fine Potter ad un’infermiera passante che era venuta a prendersi cura della signora Priestley. 

“Si, dorme molto. Almeno, è sempre addormentato quando entro in questa camera,” disse con tono amichevole. 

Piton sogghignò malignamente tra sé e sé. Questo era perché l’infermiera era fastidiosa quasi quanto Potter. Lo importunava sempre, offrendosi di sprimacciargli il cuscino, chiedendo se avesse apprezzato il pranzo o meno, il che era estremamente stupido, dato che evidentemente non poteva rispondere. 

“Forse dovrei andare via,” disse Potter con rammarico. 

“Così presto? É appena arrivato.” 

“Ritornerò.” Alle orecchie di Piton quella frase suonò come una minaccia. Il rumore della sedia che strisciava sul pavimento annunciò l'allontanamento a lungo desiderato del Sig. Potter. Sentì dei passi sul pavimento di detestabili suole di gomma. Che altro? 

La porta si aprì. “Oh, mi scusi,” esclamò una ben conosciuta voce femminile.

Era di nuovo quella donna, era già arrivato il momento della  giornaliera visita a sua zia. “Non mi aspettavo di trovarla qui. Lei è Harry Potter, vero? Abigail Carter. Piacere di conoscerla.” 

Adesso aveva un nome da associare a quel viso. Forse poteva smettere di chiamarla “quella donna”- o forse no, se continuava ad essere estremamente detestabile. 

“Piacere di conoscerla, Signorina Carter. Non è che, per puro caso, lei è imparentata con...” 

“Miriam Priestley, sì,” giudicando dal tono della sua voce stava sorridendo.
 

“Oh, per un momento ho pensato che avrebbe detto Piton,” il tono di Potter era sospettosamente neutrale. 

“No,” disse lei freddamente. La sua risposta monosillabica parlava da sé. 

Non le piace, eh?” osservò Potter. 

“E' così ovvio?” chiese lei leggermente imbarazzata. 

Beh, sì.” 

“Mi deve scusare allora.” 

“Nessun problema.” 

Ok, allora…” Potter fece brevemente una pausa, “Piacere di averla conosciuta, Signorina Carter.” 

“Abigail,” offrì lei. 

“Abigail. Ma solo se mi chiami Harry.” 

“Va bene.” 

“D'accordo.” 

“Arrivederci allora.” 

“Ciao. Ci si vede in giro, allora.” 

“Sì, suppongo di sì,” sentì un sorriso inconfondibile nella voce di Potter. Fece  pochi passi, si fermò di nuovo. “Mi dispiace se sembro un po' sfrontato, ma devo proprio chiedere...come può odiare qualcuno che non è nemmeno capace di parlare?”

“E' un Mangiamorte,” disse come se quello da sé si spiegasse da solo. 

“Capisco, ma considerando tutto quello che ha fatto non credi di avere, non so, un po’ di pregiudizi?” 

“Forse, ma chiunque al posto mio sarebbe leggermente sensibile quando si tratta di Mangiamorte,” il tono di voce rappresentava un avvertimento a non toccare quell'argomento. 

“Come mai?” Potter era ancora incapace di cogliere le ovvie sottigliezze. 

“Sono stata una fuggitiva per gli ultimi due anni. Sono una Mezzosangue, sai. Possiedo un negozio di libri a Diagon Alley. É stato chiuso in mia assenza. “Mondi in Collisione”? Non credo che tu ne abbia mai sentito parlare. Vendiamo letteratura Babbana così come libri di incantesimi, biografie e qualsiasi cosa che sia mai stato pubblicato nella Comunità Magica.” 

“Veramente sì. Ad una mia amica piace fare acquisti lì. Hermione Granger?” 

“Ma certo, Hermione. Portale i miei saluti. É una così cara ragazza. Spero stia bene.” 

“Sì, sì.”

“Mi fa piacere sentirlo.” Seguì una pausa imbarazzata, che non fu tanto strana in una conversazione tra due persone relativamente estranee. 

“Per quanto riguarda Piton...” 

“Si, cosa?” c'era una traccia di irritazione nella sua voce.

 “So che non sembra una delle persone più simpatiche.” Lei si lasciò sfuggire una risatina soffocata. Piton era leggermente offeso. “E' facile provare antipatia nei suoi confronti,” abbastanza stranamente Potter stava prendendo le sue difese. “Io l'ho provata per un lungo periodo, ma dovresti dargli un'altra possibilità, guardare oltre le apparenze.”

“Perché dovrei?”

 “Piton mi ha protetto tutti questi anni a Hogwarts. Ha messo a rischio la sua vita ancora e ancora e non l'ho ripagato esattamente con gentilezza.”

 “Perché avrebbe dovuto farlo? Da quello che ho letto sui giornali era ovvio che lui ti disprezzasse,” inquisì lei curiosamente. Piton poteva praticamente immaginare il cipiglio sulla sua faccia. Sperò solo che Potter non rispondesse alla sua domanda. Ma ovviamente, quando c'era di mezzo lui, era inutile desiderare o sperare.

 Forse l’ha fatto...forse è ancora così, ma di certo non disprezzava mia madre.”

 “Oh,” disse lei. Era piuttosto ovvio che avesse capito l'allusione non tanto sottile.

 Già,” disse Potter.

 “Grazie,” disse Abigail dopo un po'.

 “Per cosa?”

 Per averne parlato con me.”

 “Non è stato niente di ché.

 “Beh...”

 “D'accordo.”

 “Ci vediamo.”

 “Sì, ciao.”

Finalmente la porta dietro Potter si chiuse. L'infermiera era andata via durante la conversazione tra Abigail e Harry, così c'erano solo lui, la zia e Abigail nella camera. La sentì ispirare ed espirare lentamente di proposito come per calmarsi, poi si avvicinò per sedersi accanto al capezzale di sua zia e mise il libro che aveva letto prima sul comodino accanto al letto di Piton. 

“Per tenerle compagnia. So che l'ha preso la volta scorsa...credo che sia meno problematico così,” disse lei. Era andata via prima ancora che lui potesse aprire gli occhi. 

Dopo una settimana improvvisamente venne loro l'idea di dargli pergamena e penna d'oca così che potesse essere almeno in grado di comunicare. La ragione per cui ci avessero messo circa una settimana per arrivarci non fu per  negligenza. Era solo che il loro paziente non sembrava particolarmente loquace. 

Poiché molte delle sue ossa rotte e dei suoi lividi stavano iniziando a guarire, trascorse considerevolmente meno tempo a dormire e molto più ad annoiarsi.

Naturalmente era grato delle visite di Abigail, perché anche se non veniva per lui, gli forniva comunque un qualche tipo di distrazione durante quegli infiniti giorni al San Mungo. Quando era a corto di parole con sua zia, tirava fuori questo o quell’altro libro e iniziava a leggere. 

Non tutti sposavano i suoi gusti, alcuni erano piuttosto sdolcinati e femminili, ma come aveva detto lei stessa prima, non leggeva per lui, e quindi non aveva di che lamentarsi. Che gli interessassero o meno, tutti riuscirono a coinvolgerlo e gli permisero di lasciarsi alle spalle quella mediocre stanza in cui era confinato, anche se solo per un'ora. 

Per qualche ragione - forse erano state le parole di Potter - lei aveva preso l'abitudine di lasciargli libri sul comodino prima di andare via, così che potesse leggerli a sua discrezione. 

“Gli da almeno uno sguardo?” Abigail chiese quando depositò l'ultimo libro accanto al suo letto. Lei lo guardò con aspettativa come se stesse realmente aspettando una risposta. Sentendosi stranamente obbligato a giustificarsi, raggiunse d’impulso la penna d'oca e la pergamena. 

La sua scrittura era regolare, come se fuoriuscisse da una pressa topografica, e piuttosto vecchio stile. “Non gli ho meramente dato uno sguardo, li ho letti, persino,” diceva il foglio. Aveva dovuto sacrificare la maggior parte del suo consueto sarcasmo in vece della concisione, eppure qualcosa ancora riusciva a filtrare dalla brevità della nota. 

“Spero che le stiano piacendo,” disse lei piuttosto impersonalmente. 

Affascinata, vide come la sua mano scrisse un altra sentenza sul foglio come se  si muovesse di sua sponte. “Erano soddisfacenti.” 

“Bene. Beh, d'accordo. Credo che andrò adesso,” annunciò e si volto per andare via, ma fu fermata da una mano attorno al suo braccio. Abbassò lo sguardo per fissarlo con fare inquisitorio. Lui rimosse velocemente la mano, prima di affrettarsi a scrivere qualcos'altro sul pezzo di carta. 

Mi ha stancato. Perché non si decide a chiedere?” 

Lei guardò alternativamente lui, poi il foglio con un cipiglio sul viso. “Chiedere cosa?” 

Questa volta si risparmiò di scrivere. Non era necessario. Lo sguardo sul suo viso parlava chiaro. Le sue sopracciglia erano sollevate scetticamente e la sua bocca era incurvata in un sorriso derisorio. 

“Bene,” disse Abigail, provando a mantenere la sua voce regolare. Senza alcun dubbio aveva voluto chiederglielo lo stesso minuto che aveva visto il marchio nero sul suo braccio.

“E' coinvolto in quello che è accaduto a lei?” 

Lui voltò la testa per guardare sua zia per un lungo momento, poi finalmente scosse la testa.

Sentì improvvisamente un groppo alla gola. Gli credette, quando disse che non era coinvolto, ma la sua esitazione implicava che aveva preso parte a tante altre cose che erano egualmente terribili e rivoltanti. Abigail lentamente fece un passo indietro, ma per qualche ragione non andò via. Forse era solo perché aveva paura di voltargli le spalle.

“Ha provato piacere...nelle cose che ha fatto?” Abigail chiese quando ritrovò la sua voce di nuovo. Involontariamente la sua mente ritornò al giorno in cui l'avevano trovata, affamata e disperata. Come avvoltoi, avevano giocato con lei. Era stata debole, troppo debole per provare persino a tenere bene la bacchetta in mano...L'avevano circondata sempre più. Le loro facce sorridevano, mentre sua zia piangeva e supplicava pietà invano.

Lui posò la punta della penna sulla pergamena esitando, poi finalmente scrisse con una certa veemenza. “Non provo piacere in nulla.”

Lei fu presa in contropiede dalla sua ammissione inaspettata. Per un po' non fece altro che fissarlo senza parole, almeno finché le ultime vestigia di buone maniere non ritornarono a galla. “Mi dispiace,” infine riuscì a dire, non sapendo esattamente per cosa era dispiaciuta-il fatto che fosse stata meno che gentile o che lui apparentemente fosse una persona molto triste e infelice.

“Non ho bisogno, voglio la sua pietà,” la sua scrittura era stampata profondamente nel foglio.

“Bene, perché non ho nessuna intenzione di compatirla,” lo informò bruscamente. Seguì una lunga pausa. Poteva sentire i suoi occhi su di lei. Perché stava provando ad allontanarla fissandola? Non funzionava più con lei dalla quinta elementare. 

I suoi occhi ricaddero sul libro che giaceva sul comodino. Era un porto sicuro in quella situazione grottesca. “Questo è uno dei preferiti di mia zia,” gli disse Abigail, cambiando deliberatamente argomento. Ne aveva saputo abbastanza quel giorno. “Ne abbia molta cura. Lo rivoglio indietro domani.”

 ***

La pozione Vox Reparo dovrebbe aver funzionato adesso. Ha già provato a parlare?” chiese esasperatamente il giovane guaritore.

Lui scosse la testa. No. Non ne aveva sentito l'esigenza sino a quel momento. 

“Beh, forse dovrebbe provare ora,” suggerì l'altro uomo. “Vorremmo sapere se almeno ha dato qualche tipo di effetto.”

Piton annuì lentamente. Sebbene non volesse ammetterlo, la sua voce era il suo unico vanto. Nessuno gli aveva detto mai di essere bello e il riflesso giornaliero dello specchio aveva reso quella realtà piuttosto concreta. Molte persone, comunque, avevano occasionalmente lodato la sua voce, chiamandola setosa, persino ipnotica. Durante gli anni aveva imparato come usarla in suo favore per fare tremare gli studenti o intimidire i suoi avversari.

Inumidì le labbra nervosamente, schiarendosi la gola, poi prese un profondo respiro. Quello era il momento della verità. “Io..” fu sorpreso di sentire la propria voce di nuovo. Suonava stranamente poco familiare ma, ancora, non aveva usato la sua voce per un bel po' di tempo. “Qualche effetto l’ha avuto sicuro. Dovreste dire al vostro pozionista di renderla più potente. Ci sono volute otto ingestioni prima che funzionasse. Aveva paura di mettere gli ingredienti sbagliati e di uccidermi accidentalmente?” 

“E così ha funzionato,” rimarcò seccamente il guaritore.
 

A rilento, sì,” aggiunse Piton per prendere le dovute misure. 

“Dopo il tipo di ferite di cui ha sofferto, è un miracolo che abbia persino sortito qualche effetto,” dando uno sguardo alla cartella clinica del paziente.

“Così, quanto tempo intendete tenermi qui dopo aver recuperato la mia voce?” 

“Francamente, Signor Piton, non dovrebbe prenderla così alla leggera. É un miracolo che lei sia vivo dopotutto. Se il Signor Paciock non l'avesse trovata quando lei...Deve ancora ristabilirsi. Ha sofferto di un’emorragia prolungata, diverse costole rotte e fratture, un paio di ematomi evidenti...Non mi sentirei in pace con me stesso a dimetterla subito.”  

“Bene,” rispose Piton oscuramente, provando a venire a patti con il fatto che fosse stato salvato da null’altri che Neville Paciock. L'universo sembrava avere un senso dell'umorismo piuttosto oscuro.

  
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