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Autore: Frances    16/01/2010    4 recensioni
~ The tale of a man who lost his name and got bitter lies and silent suffering instead
[Tseng x Aerith]
Prima Classificata allo Tserith Contest indetto da Valychan
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Tseng
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Five; Facing himself in front of the fireplace • [ ν ] - εуλ 2007 (xxx)

The day he used a lie to say goodbye

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Pioveva a dirotto il giorno in cui Cissnei spense il suo PHS e svanì nel nulla.

Dispersa sul campo.

Quando Tseng lesse il rapporto ufficiale che era stato steso dopo la conclusione dell’ultima missione, le uniche tre parole che parlassero di lei lo gettarono in un silenzioso sconforto. Aveva disteso lentamente il foglio sulla propria scrivania, massaggiandosi lentamente la radice del naso – tentando di adattare il respiro al battito cardiaco agitato, aveva fatto scorrere le ruote della sua poltrona, alzandosi in piedi.

Quando convocò nel suo ufficio Reno e Rude che avevano lavorato con lei durante il suo ultimo incarico, si erano presentati solennemente davanti a lui mostrandogli espressioni cupe. Rude aveva le labbra contratte e le sopracciglia corrugate, i muscoli del viso tanto tesi che non ci sarebbe stato bisogno di guardarlo negli occhi nascosti per scorgere la preoccupazione che lo attanagliava. Reno teneva le mani in tasca e come suo solito non sembrava affatto turbato – ma quando aprì bocca, la sua voce aveva subìto una trasformazione inquietante. Era bassa, roca, un rantolo che gli risaliva la gola e fremeva, ogni parola suonava aggressiva e piena di rabbia.

« Ditemi la verità.» fissando Midgar attraverso la grande vetrata, la richiesta di Tseng fu perentoria e secca.

« Non ho la più pallida idea di cosa diavolo sia successo, capo.» il rosso parlò per primo « Io e Rude eravamo assieme in elicottero, Cissnei si spostava via terra, con la moto. Ad un tratto ha spento il PHS, l’auricolare è diventato muto ed il suo indicatore di posizione si è volatilizzato da qualunque radar.» sollevò una mano sfilandola dalla tasca, schioccò le dita « Sparita.»

Tseng abbassò appena lo sguardo, riuscendo a scorgere solo il proprio riflesso sbiadito sulla superficie trasparente. Quel giorno di Settembre aveva affidato ai suoi uomini una missione di recupero – era riuscito a dare inizio all’operazione senza troppe difficoltà, in segretezza. I registri catalogavano la missione come un semplice pattugliamento delle terre aride intorno a Midgar, dalle porte della città fino alla costa e Kalm; i registri formali lo confermavano, ma erano ben pochi coloro a cui era permesso toccare gli archivi del dipartimento degli Affari Interni e l’affidabilità dei documenti era provata dalla firma di Tseng posta in calce su ogni foglio. I segreti della Turk rimanevano nella Turk – e nessuno avrebbe mai sospettato di una banale pattugliamento.

Era stata un’infrazione grave, un tradimento rischioso, un deliberato occultamento ed una consapevole alterazione di informazioni – disubbidienze che normalmente avrebbero portato a gravi ripercussioni; tuttavia, quel giorno Tseng aveva osservato Cissnei, Reno  e Rude salire sull’elicottero senza pentirsi un solo istante degli ordini che aveva impartito. Dopo che per anni le sue parole erano state semplicemente giudici e proclamatrici di condanne capitali, questa volta avrebbero salvato un uomo innocente da una morte ingiusta.

Cissnei si era fermata un attimo prima di richiudere il portellone, ignorando il fracasso causato dalle pale ormai in funzione:

« Lascia fare a me, Tseng!» aveva urlato, gli occhi che brillavano di determinazione ed un sorriso sicuro e sereno sulle labbra, i capelli ormai corti che le turbinavano intorno al volto « Te lo riporterò vivo. Costi quel che costi!»

Il Comandante della Sezione Investigazioni aveva seguito l’elicottero con gli occhi, fissandolo mentre si sollevava dalla pista di decollo e si allontanava provocando un frastuono assordante, diventando d’un tratto il catalizzatore di tutte le sue speranze.

Ma.

Tseng deglutì appena, voltandosi lentamente verso i due colleghi. Nonostante tutti i suoi sforzi, la realtà era stata ben diversa.

« L’abbiamo persa poco dopo essere venuti a conoscenza del…» Rude si interruppe, cercando la giusta maniera di esprimersi «…fallimento del nostro incarico.»

Tseng annuì piano, avanzando verso di loro, le mani congiunte dietro la schiena:

« Capisco.»

« Probabilmente se l’è svignata.» commentò Reno, il gorgoglio teso della sua voce che diventava gradualmente più svogliato « Chi può dirlo? Era sola, aveva un mezzo veloce, all’improvviso ci ha lasciati soli sull’elicottero senza neppure dirci addio.» fece un gesto rapido con la mano aperta, come a scacciare degli insetti fastidiosi « Abbiamo perso le sue tracce e i rapporti confermano la sua scomparsa. Una fuga perfetta.»

« Dovremmo chiedere il supporto dell’esercito per condurre delle ricerche.» propose Rude, sovrastando le supposizioni vuote di Reno – il quale stranamente si zittì dopo un istante, mentre con un gesto svogliato infilava le dita tra le ciocche rosse eccessivamente lunghe.

« E’ quello che ho intenzione di fare.» Tseng gli diede subito ragione, sfilando il PHS dalla tasca destra dei pantaloni.

« Capo, pensaci un attimo.» riprese Reno, imperterrito, le dita che tentavano di sciogliere un groviglio di capelli rossi e sottili « Magari lei non vuole essere trovata. Lasciala perdere.» scosse il capo « Se è davvero filata via avrà avuto i suoi motivi.» fece una pausa prima di aggiungere, il tono di voce che si abbassava notevolmente « E se anche fosse scappata perché questo posto iniziava a farle schifo, scommetto che tu stesso le daresti ragione completamente.» si grattò la nuca, come se le cose che stava dicendo non fossero altro che informazioni gratuite e prive di qualsiasi peso « Certo, non lo ammetteresti mai apertamente.»

Perché in fin dei conti tu odi questo lavoro. Era la conclusione inespressa di tutto il suo discorso, aleggiò nell’aria come se Reno l’avesse urlata, un’accusa tanto veritiera che dopo una miriade di bugie fece male come un gancio nello stomaco.

Tseng lo studiò, aprendo il telefono. Reno ricambiò il suo sguardo senza farsene un problema, i suoi occhi verdi che non tradivano alcun turbamento, alcun fastidio, non lasciavano intendere niente di niente. Era preoccupato ed era incredibilmente bravo a non darlo a vedere, oppure, semplicemente, non gliene importava nulla?

« Reno.» Tseng sostenne il suo sguardo indecifrabile con occhiate altrettanto fredde « Non sono il genere di comandante che rimane impassibile quando un suo prezioso sottoposto sparisce nel nulla.» poggiò il cellulare all’orecchio « E in questi casi, la priorità per me è assicurarmi che i miei subordinati stiano bene.»

Reno liquidò la questione con un’alzata di spalle:

« Lo dici tu.»

Quando tuttavia Tseng parlò dell’operazione ad Heidegger, dopo che il PHS aveva squillato a vuoto in attesa di una risposta, la reazione dell’Sovrintendente della Sicurezza Pubblica fu decisamente diversa da quella che si era aspettato:

« Perché dovrei mobilitare l’esercito per una cosa simile?»

Tseng rimase in silenzio per qualche istante, le labbra dischiuse e gli occhi sbarrati:

« Signore, si tratta di un mio sottoposto.» spiegò, rispettoso, cercando di ignorare le smorfie infastidite che avevano iniziato ad apparire sulla bocca di Reno.

« Non ho intenzione di sprecare tempo prezioso.» aveva continuato Heidegger dall’altro capo del telefono, la voce che rimbombava metallica dal ricevitore « Il mio Dipartimento non se ne fa niente di elementi incompetenti o inutili, tantomeno si preoccupa quando un sottoposto scompare in missione. Se dovessimo condurre operazioni di ricerca per ogni soldato che perdiamo in battaglia, non la finiremmo più.» l’uomo rise sonoramente, come reagendo d’istinto ad una battuta di incredibile umorismo « Se la cosa ti sta molto a cuore, occupatene da solo, ma non ti permetterò di intralciare altre operazioni. Se vuoi l’esercito, aspetta al mese prossimo, e forse potrò concederti una scorta.» tirò su con il naso, schiarendosi la gola, rischiando quasi di soffocare con la sua stessa saliva « Ora lasciami lavorare.»

Quando Tseng chiuse il telefono, riponendolo in silenzio al suo posto, a Reno e Rude bastò guardarlo in faccia per comprendere quale fosse stato l’esito della chiamata.

« I nostri superiori ci amano.» commentò sarcastico il rosso, con tono fatalista prima di aggiungere, disattento « Niente di personale, capo.»

Tuttavia, tre giorni dopo, il PHS di Tseng squillò svegliandolo alle tre del mattino; e sebbene sullo schermo del telefono il numero risultasse sconosciuto, quando il Turk accettò la chiamata, la testa affondata stancamente nel cuscino, la voce che gli rispose suonava incredibilmente familiare.

« Tseng.» Cissnei pronunciò il suo nome soffocando le ultime due lettere, un rantolo basso che somigliava ad un singhiozzo o un affanno.

« Dove sei?» la domanda del Turk giunse prima di qualsiasi altra cosa, impaziente e tesa come se dalla risposta dipendesse tutto.

« La spiaggia, davanti a Midgar.» disse lei semplicemente « Tseng, vorrei vederti.» fece una pausa, il suo respiro sembrava irregolare, il vento sferzava con forza contro il ricevitore provocando un disturbo fastidioso « E’ possibile? So di non avere giustificazioni, forse avrei fatto meglio a non chiama…»

« Aspettami.» Tseng interruppe la chiamata senza farla finire, gettando da una parte il lenzuolo e mettendosi fulmineamente in piedi.

Entrò in una macchina di cui la ShinRa gli aveva dato le chiavi il giorno della sua promozione, indossando solo una camicia con il colletto sbottonato ed i pantaloni di un vecchio completo gessato che ormai non indossava più da tempo.

Quando raggiunse la costa, il cielo iniziava a rischiararsi, colorandosi lentamente dei colori accesi dell’alba. Si fermò solo quando vide una Nuova Hardy Daytona 840 parcheggiata al lato della strada, una moto di alta cilindrata che veniva fornita alle truppe della ShinRa per le missioni di pattuglia rapida o di inseguimento. Quando scese dall’auto, una brezza leggera fece frusciare il colletto aperto della camicia, mentre i capelli sciolti gli lambivano morbidamente gli zigomi e la fronte. La luce del sole nascente infuocava la superficie piatta del mare, fino all’orizzonte, mentre il vento leggero lo increspava appena. Cissnei era lì, seduta sulla sabbia a pochi metri dal bagnasciuga: aveva i piedi nudi e stringeva le gambe piegate contro il petto, mentre la giacca della divisa sgualcita giaceva sulla sabbia assieme alle scarpe con il tacco alto ed un involto di stoffa bianca. Quando Tseng la raggiunse, senza fare caso alle suole che scricchiolavano nella sabbia o ai granelli che si insinuavano all’interno delle scarpe, la piccola Turk non si mosse di un millimetro. Si limitò a salutarlo con voce fioca, continuando a scrutare il mare e la risacca incessante sulla riva.

« Ciao.» disse « Grazie per essere venuto.»

L’uomo la affiancò, rimanendo in piedi:

« Sai che non avrei potuto fare altrimenti.»

Cissnei ridacchiò appena, debolmente, muovendo la testa di lato:

« Sei davvero quel genere di capo che si affeziona ai suoi sottoposti, vero?» sembrava divertita dalla cosa, anche se normalmente lo avrebbe forse dimostrato in maniera più vivace « Ho visto anche Reno e Rude, poco fa.» aggiunse poco dopo, tornando seria « Non ho resistito. Volevo incontrare anche loro.»

« Volevo chiedere scusa per il mio comportamento. Reno mi ha detto che se non fossi stata una donna mi avrebbe probabilmente colpita. Non capivo se dicesse sul serio o se fosse uno dei suoi soliti scherzi.» si strinse maggiormente in sé stessa, nascondendo la bocca tra le ginocchia « Rude mi ha portato un ricambio di vestiti.» concluse, indicando il fagotto bianco « E’ stato gentile.»

Tseng annuì debolmente, spostando lo sguardo verso un punto indefinito della costa:

« Mh. Suppongo di sì.»

Passò qualche istante prima che lei si decidesse a riprendere; quando parlò la sua voce era tornata incerta, sottile, quasi un sussurro:

« Perdonami.»

Tseng continuò a guardare la linea sfuggevole che divideva il mare ed il cielo, segnando un confine di sfumature arancioni, rosa e rosse.

« Non è stata colpa tua.»

« Ho fallito.» l’ammissione di Cissnei risuonò distorta, segnò una crepa nella sua voce rendendola molto simile ad un singhiozzo trattenuto.

Zack Fair è morto.

Tseng socchiuse gli occhi, spostando lo sguardo verso il bagnasciuga:

« So cosa è successo. Le cose non sono andate come speravamo, ma non è dipeso da te.»

« Lo sapevi, non è vero?» il tono di Cissnei si rianimò appena – i due Turk mossero la testa all’unisono, finendo per scambiarsi vicendevolmente occhiate intense. Lo sguardo della ragazza era limpido, umido, le iridi erano due polle di acrilico castagna che si rimescolavano come in preda ad una tempesta. Aveva le guance aride e incavate, i bordi delle palpebre sembravano gonfi ed arrossati come dopo un lungo e silenzioso pianto; e anche ora la sua bocca era distorta, era piegata in una curva tanto affranta che Tseng sentì la sua tristezza penetrargli nelle ossa.

« Sapevi quanto tenevo a lui.» continuò lei « Per questo mi hai chiesto di aiutarlo. Sapevi che avrei fatto di tutto per salvargli la vita.»

Tseng non riuscì né a negare né a darle ragione. In realtà aveva semplicemente sperato che i suoi tentativi si rivelassero efficaci.

« Nessuno ti accusa per ciò che è accaduto.» non cercava di consolarla, né la compativa – era solo un modo come un altro per dirle come stavano le cose « Hai fatto ciò che potevi.»

Cissnei sospirò, tornando a nascondere il volto tra le ginocchia piegate:

« Sono davvero inutile.»

Tseng rimase in silenzio, mentre un’improvvisa fiammata di pietà e disprezzo iniziava a consumarlo dall’interno. Non compativa Cissnei, né Reno, né Rude che non erano riusciti a portare termine quell’incarico troppo importante – derideva la propria inadeguatezza.

Chi è il vero inutile, qui?

Dopo qualche istante, Cissnei sollevò ancora il capo, immettendo aria nei polmoni; chiuse e riaprì lentamente gli occhi, con la bocca chiusa, poi il suo sguardo si fece più deciso. Sistemò appena il colletto della camicia, tirando la cravatta sciolta che le pendeva informe ai lati del seno – la legò con gesti esperti, stringendola fino a quando non le lambì perfettamente il collo:

« Ho finito la benzina.» annunciò, mentre frugava nella tasca dei pantaloni alla ricerca di qualcosa « Non sapevo cos’altro fare, ma suppongo che ormai sia finito il tempo per piangersi addosso. Devo tornare alla base.» estrasse il suo telefono, aprendolo con un gesto rapido del polso « Riattivo il mio ID ed il segnale radar.»

No.

Tseng contrasse appena le labbra, poi le mostrò la mano aperta:

« Dammi il PHS.»

Cissnei spostò lo sguardo su di lui e sul suo palmo, interrompendosi poco prima di premere il tasto d’accensione del telefono; per qualche istante si limitò a studiarlo con un’espressione perplessa ed interrogativa negli occhi, forse si stava domandando quali potessero essere le intenzioni del suo misterioso comandante. Poi decise di obbedire e gli consegnò docilmente ciò che le aveva chiesto.

Tseng lo richiuse premendo le dita contro lo schermo, provocando uno schiocco metallico – se lo rigirò tra le mani, rimuovendo lo sportello che chiudeva lo scomparto in cui venivano inseriti la batteria e le schede di riconoscimento. Sfilò l’ID di Cissnei, una sottile piccola tessera di metallo su cui era inciso il simbolo della ShinRa, un chip di dimensioni ridotte che alla luce rifletteva mille colori, come il riverbero mutevole del gasolio. Lo sollevò tenendolo tra il pollice e l’indice, studiandolo contro lo sfondo dell’alba, sentendo lo sguardo dubbioso di Cissnei che non lo abbandonava un attimo ed ancora silenziosamente si chiedeva quali fossero le sue intenzioni. 

Il Turk schiacciò l’ID tra le dita, spezzandolo in due – i due frammenti scricchiolarono e sfrigolarono, caddero nella sabbia, ormai del tutto inutili.

Gli occhi liquidi di Cissnei si fecero enormi, le pupille che si rimpicciolivano fino a diventare due puntini invisibili nelle iridi castane:

« Ma, Tseng, che…!»

Il Comandante non fece una piega, limitandosi a riporre lo sportellino al proprio posto, richiudendo il reparto della batteria – le porse nuovamente il PHS, tenendolo stretto in mano:

« Ora prendilo e gettalo in mare.»

L’espressione di Cissnei, se possibile, divenne ancora più incredula:

« Cosa…?»

Il tono di Tseng si indurì, divenne basso e severo:

« E’ un ordine.»

« Ma, signore…»

« Cissnei.» esordì l’altro, assumendo un tono rigido « Secondo i rapporti ufficiali risulti dispersa e la ShinRa non è interessata a ritrovarti. Io testimonierò, mettendo per iscritto che Cissnei è morta oggi stesso.» la guardò, lanciandole un’occhiata gelida « Non sprecare questa occasione.»

Vattene, scappa.

Tu che ne hai la possibilità, sottraiti a questa prigione senza uscita.

Vivi come una donna e non come un’assassina.

Cissnei lo guardò con gli occhi sgranati per alcuni istanti prima di deglutire ed assumere un’espressione leggermente più decisa; allungò la mano verso il telefono che Tseng le porgeva, afferrandolo con forza. L’occhiata che gli rivolse prima di alzarsi in piedi fu ferma e determinata:

« Agli ordini, capo.»

Accettò l’aiuto di Tseng e si sollevò aggrappandosi al braccio del collega; poi avanzò a piedi nudi sulla sabbia, accelerando il passo – corse fino a quando l’acqua marina non le lambì le caviglie, bagnando i pantaloni della sua divisa ormai inutile e priva di significato.

E mentre lanciava il PHS verso quel mare infuocato dall’alba, un urlo le sgorgò dalla gola così forte e limpido che chiunque nel giro di un miglio avrebbe potuto udirlo. Sapeva di libertà.

 

Quando quel pomeriggio Tseng entrò nella chiesa, trovò Aerith distesa tra i suoi fiori. Se ne stava lì, sulla terra e nella polvere, i petali che le sfioravano il volto e la stoffa rosa dell’abito, guardava attraverso lo squarcio nel tetto che lasciava filtrare la luce dall’esterno.

La prima reazione fu di stupore e di una sorta di strana angoscia – la fioraia aveva sempre fermamente insistito sul fatto di non calpestare o rovinare i fiori, e gli aveva ricordato spesso di fare attenzione a non schiacciarli.

Ma prima che potesse accostarsi all’aiuola e accertarsi che lei stesse bene, la voce di Aerith lo immobilizzò:

« Sapevo che saresti arrivato.» esordì, mettendosi a sedere. Era finalmente riuscita ad ultimare anche la piccola giacca rossa – l’aveva sempre indossata orgogliosamente sul vestito lungo che si era cucita da sola, sin da quando gliel’aveva mostrata, subito dopo aver concluso l’ultima rifinitura.

Tseng la raggiunse silenziosamente, porgendole una mano quando arrivò ai margini dell’aiuola – fece attenzione a non calpestare i fiori. Aerith spostò lentamente lo sguardo verso di lui, accettando il suo aiuto poco dopo; si sollevò balzando fuori dall’aiuola,con cautela. I fiori su cui si era distesa si ripresero lentamente, gli steli elastici che tornavano alla loro posizione eretta originaria – alcuni petali bianchi erano piegati e scuriti, sembravano chiedere aiuto, fiaccati da una ferita invisibile.

« Vengo a trovarti tutti i giorni.» le fece notare, lasciando la sua mano, sentendosi stupido ed insignificante subito dopo aver finito di pronunciare quelle parole. Lei sorrise appena, battendo l’abito rosa, lasciando scivolare via i granelli di terra:

« Oggi è un giorno diverso.» sollevò gli occhi verso di lui « Mi devi dare una brutta notizia, vero?»

Tseng serrò le labbra, il fiato che gli si spegneva in gola. Aveva cercato in tutti i modi di trovare le giuste parole per comunicarle ciò che era successo, ma di colpo le vide volatilizzarsi, diventare polvere, lasciandolo bocconi e muto.

La reazione ed il silenzio di Tseng bastarono perché Aerith ottenesse le conferme che cercava – l’espressione le si spense, il sorriso che si affievoliva fino a svanire. Abbassò gli occhi, intrecciando le dita dietro la schiena:

« Non preoccuparti.» disse « Io…a volte mi rendo conto di ciò che succede al Pianeta. Riesco a sentire quando le persone tornano nel Flusso Vitale.» fece una pausa, fissando i propri stivali premuti contro il pavimento di legno « Quindi, insomma…» sorrise debolmente, quasi che fosse lui quello da confortare «…me lo aspettavo, un po’. Ero preparata.»

Tseng distolse lo sguardo, socchiudendo malinconicamente gli occhi:

« Mi dispiace.»

« No, no…» lei fece un cenno rapido con il capo, scuotendo una mano davanti al volto « Davvero. So che hai fatto tanto per lui, perciò, come dire…» era la prima volta che la vedeva così incerta, così instabile, così poco convinta di ciò che diceva «…sono sicura che lui te ne è grato, anche se…» fece una pausa, il tono che si sforzava ostinatamente di rimanere vivace «…ecco, io ti sono molto grata di tutto ciò che hai fatto.»

Cosa ho fatto?

Ho mai fatto qualcosa che potesse renderti felice, finora?

E le parole scivolarono via dalla bocca di Tseng senza che lui riuscisse a controllarle, gli ustionarono il palato e la lingua – avevano il sapore acido che lui conosceva fin troppo bene. Eppure furono le uniche che riuscì a dire, quelle che gli sembrarono le più adatte:

« Sono riuscito a dargli le tue lettere.»

Aerith spalancò gli occhi, interrompendosi nell’atto di dire qualcosa; rimase in silenzio per qualche istante, in bilico, sembrava tentare in tutti i modi di riordinare le idee. Quando infine parlò di nuovo, un barlume di speranza disegnava un increspatura tra le sopracciglia, sulla sua fronte liscia, un lusso che lei non si era mai concessa:

« Dici sul serio?»

Il Turk annuì piano, le mani che formicolavano, immobili lungo i fianchi. Non sapeva se lei ci avrebbe creduto o se si sarebbe accorta della sua menzogna, non aveva neppure la più pallida idea di quanto avrebbe potuto rincuorarla ciò che le stava dicendo. Tuttavia continuò con quella recita, sapendo di essere ormai troppo bravo a fingere perché lei potesse notare il leggero tremore che gli incrinava impercettibilmente la voce:

« Le ha lette tutte, fino all’ultima.» e aggiunse la frase più dolorosa di tutte, una pugnalata terribile che lo ferì in pieno petto « Mi ha detto di riferirti che…» indugiò appena «…anche lui ti ama.»

L’espressione di Aerith mutò velocemente, subendo dei cambiamenti rapidi, immediati. Batté le palpebre un paio di volte, con la bocca leggermente dischiusa, come in preda ad uno stupore sincero – poi la piega delle sue labbra curvò ed i suoi occhi divennero lucidi, mentre il suo volto così bello e sereno si scioglieva in un sorriso contenuto, a labbra strette; era silenzioso, era malinconicamente fantastico, era unico, sembrava raccontare una storia ed era in grado di rimpiazzare mille parole. Tristezza, angoscia, gentilezza, felicità, sollievo – un’ondata infinita di emozioni che si confondevano l’una nell’altra, combattendosi a vicenda, lasciando sospeso quel sorriso nel purgatorio dell’ambiguità.

E quel piccolo dono di gratitudine e dolore che sostituì le lacrime senza far alcun rumore, fu per Tseng l’ennesima sottile stilettata, l’ultima, la fatale, l’unica che grondando veleno dolcissimo gli trafisse il petto impedendo al cuore di continuare a battere.

Aerith lo raggiunse con passi lenti, fermandosi solo quando furono così vicini che lei fu costretta a sollevare lo sguardo per guardarlo negli occhi. E poi andò contro di lui, nascondendosi, insinuando le braccia sotto le sue per raggiungere la sua schiena ampia con le mani. Si aggrappò alla stoffa tesa sulle scapole, stringendolo forte, premendo il volto contro il suo petto – come se tutto ciò che gli chiedeva fosse solo di abbracciarla e di non andarsene, perché senza di lui non sarebbe riuscita a rimanere in piedi da sola.

« Grazie.» bisbigliò « Grazie per tutto ciò che hai fatto.» la sua voce sussurrata soffocò contro la stoffa della giacca blu « Sei la persona più gentile che io abbia mai conosciuto.»

Tseng trattenne il respiro, la sentì rabbrividire, ma lei non pianse mai. Ricambiò la sua stretta, dolcemente, le sue braccia che la avvolgevano completamente, una mano che le si insinuava appena tra i capelli tesi dietro l’orecchio. Poggiò la guancia contro la sua fronte tiepida, sentendo le ciocche castane che si mescolavano a quelle nere come la notte.

Rimasero l’una nelle braccia dell’altro a lungo, in silenzio, mentre le mani di Aerith tremavano contro le spalle del Turk, le unghie che gli pungevano appena la pelle. E Tseng la strinse, sebbene il sapore della menzogna lo tormentasse tanto da rovinare quell’istante che normalmente forse lo avrebbe reso felice.

Addio, Aerith.

Aveva lo strano sentore che alla fine di quell’abbraccio, ogni cosa sarebbe andata irrimediabilmente in frantumi; lei gli sarebbe sfuggita tra le dita e non ci sarebbe più stato modo di ritrovarla.

 

La verità si era rivelata una sera in maniera del tutto inaspettata, inattesa, scivolando via dalle labbra umide di alcol di Reno in un  bar fumoso e poco frequentato di Junon. Era passata inosservata come una qualsiasi sciocchezza inserita a caso in un discorso sconclusionato di fine giornata, si era dissolta e si era annidata in un angolo recondito della mente di Tseng senza riemergere fino a quella notte in cui si sedette davanti al fuoco, a bere in solitudine.

Aveva aperto il cassetto della sua scrivania, nel suo ufficio buio e silenzioso, senza fare caso alle luci bianche e fredde che si riflettevano attraverso il vetro sulle pareti ed i mobili, come piccole ed immobili lucciole di neon. Aveva riposto in quel nascondiglio una lettera dopo l’altra, piccole buste di carta colorata che si erano accumulate negli anni senza che lui trovasse modo di consegnarle nelle mani dell’uomo a cui erano state indirizzate – erano ancora lisce ed intonse, immacolate, non vi era scritta nessuna intestazione, non era indicato nessun mittente, si sentiva ancora lievemente l’aroma floreale di cui erano state  impregnate. Le aveva prese tra le dita, sentendole frusciare e scricchiolare, sentendosi inadatto ed indegno di toccare quei piccoli e fragili cimeli con cui lui, in fondo, non aveva mai avuto niente a che fare. Aveva cercato il proprio timbro ed aveva lasciato sciogliere la ceralacca nel fornello – aveva tirato il nastro blu che legava le missive, lasciando che si sparpagliassero disordinatamente sulla scrivania lucida. Aveva apposto il sigillo su ognuna di esse, ottantotto piccole buste mai aperte e che non sarebbero mai state lette da nessuno – e dopo averlo fatto, aveva richiuso il cassetto, le aveva nuovamente legate tra di loro, le aveva prese tra le dita ed aveva lasciato l’ufficio.

Si era chiuso nel suo appartamento e si era sfilato la giacca, ripiegandola accuratamente prima di poggiarla sullo schienale dritto di una sedia di mogano spesso. Aveva poggiato il piccolo mazzo di lettere sul tavolo, accostandosi subito dopo al vassoio su cui erano sistemati dei bicchieri di vetro ed una bottiglia di gin – versò il liquore fino all’orlo, aggiungendo distrattamente due cubetti di ghiaccio. Si era accostato alla libreria, ascoltando il leggero scoppiettare del fuoco nel caminetto acceso, mentre il riverbero intenso delle fiamme lasciava inquietanti spennellate sanguigne sul suo volto, sulle pareti, in ogni angolo del salone buio. Una rapida occhiata alle file ordinate di volumi era stata sufficiente: aveva sfilato il libro dalla copertina rigida, aprendo la prima pagina: il fiore bianco che Aerith gli aveva regalato era ancora lì, rinsecchito, ingiallito, sottile e fragile come un foglio di pergamena antica – lo aveva preso tra le dita rimuovendolo dal nascondiglio che lo aveva accolto e custodito per molti anni, sentendo in cuor suo che stava profanando un tesoro preziosissimo. Tornando al tavolo, aveva insinuato il gambo pressato del fiore di carta sotto il nastro blu che legava le lettere – sembrava tutto perfetto, ora, ottantotto meravigliose dichiarazioni d’amore che non sarebbero mai state lette ed un piccolo bocciolo che significava nulla e tutto, il simbolo rinsecchito di un amore che non sarebbe mai stato soddisfatto.

Si era accostato al camino, stringendo in una mano il bicchiere pieno d’alcol e nell’altra il paradossale connubio di due cuori traditi e follemente innamorati.

Tseng, tu credi nel destino?

Aveva fissato le fiamme a lungo, ingoiando lentamente piccoli sorsi di liquore, sentendolo sfrigolare sulla lingua e lungo la gola, un bruciore che lo infastidiva piacevolmente, facendogli dimenticare, anche se solo per brevi istanti, qualsiasi altra cosa.

E se fosse stato il destino a farci incontrare?

Era bastato un movimento rapido del braccio, come una condanna senza appello – le lettere si adagiarono tra le fiamme, sollevando piccoli lapilli ed una nuvola di cenere ardente. Il fiore bianco si dissolse immediatamente, in un battito di ciglia, venne divorato dal morso del fuoco e dopo un istante fu come se non fosse mai esistito.

Le bugie sono come una droga.

Seduto sulla poltrona, Tseng osservò l’esecuzione capitale di anni ed anni di speranze e promesse infondate, mentre il calore del fuoco e dell’alcol riuscivano ad estraniarlo dalla realtà – la sua espressione rimase immota, imperscrutabile, nei suoi occhi si rifletteva il bagliore amaranto del fuoco, cupe luci rosse che danzavano in un abisso d’oscurità. La ceralacca iniziò a colare, i timbri a disfarsi fino a diventare irriconoscibili.

L’ inconveniente è che dalla quarta in poi diventa impossibile tenere il conto.

Quanto tempo fa hai perso il conto?

Cos’era stata la sua vita fino a quel momento, se non un patetico susseguirsi di menzogne? Era mai riuscito a dire la verità, quando si era rivelato arduo affrontarla? Non aveva forse continuato a scappare fino a quando la realtà gli si era parata davanti, categorica ed immutabile, ferendolo con tanta violenza da distruggerlo definitivamente?

Il nastro di stoffa scura si sfilacciò, si accartocciò, divenne una piccola scultura di carbone, uno scherzo ritorto ed irregolare che cadde in pezzi e divenne cenere.

Ormai aveva senso continuare ad ingannarsi?

Credevi che le menzogne ti avrebbero aiutato a sentirti meglio?

Una voce femminile lo rimproverò in lontananza, un ricordo flebile che pensava di aver seppellito da tempo e che tuttavia ora tornava a biasimarlo, implacabile, spietato.

No.

Tseng portò il bicchiere alla bocca, premendo il vetro freddo contro le labbra bollenti. Ingoiò il liquore con una sorsata lunga.

Ho mentito solo perché lo ritenevo necessario ed inevitabile.

Tutto aveva avuto inizio con una bugia, e tutto sarebbe finito allo stesso modo.

Gli bastò chiudere gli occhi per vederla. Era lì, una ragazza bellissima dal volto luminoso che rifulgeva come una stella – indossava il suo grazioso vestito azzurro con i bordi di merletto, roteava su sé stessa, lo chiamava, sorrideva, gli chiedeva di raggiungerlo per vedere quanto erano diventati belli i fiori. I suoi occhi erano vivaci e accesi, due cristalli di Flusso Vitale in cui chiunque avrebbe solo trovato gentilezza, premure, una tranquillità assoluta. La raggiunse in un attimo, le carezzò una guancia con la mano, la sua pelle era tiepida e vellutata come era sempre stata, le sue gote erano leggermente arrossate, le sue labbra quel meraviglioso bocciolo di rosa umido di rugiada che lo aveva sempre fatto impazzire. La baciò tenendo il suo viso tra le mani, sentendo i suoi capelli che gli sfioravano le dita, sentendo la sua bocca contro la propria, sentendola morbida e perfetta, dolce come solo lei poteva essere. La baciò ancora e ancora, senza interrompersi neppure per respirare, sentendo la sua bocca che si adattava e a poco a poco lo ricambiava, sentendo il suo corpo sottile contro il proprio, il suo respiro corto sfiorargli le guance.

Ti amo.

Sentì il suo sapore sulla lingua senza stancarsene mai, mai, mai, fino a quando non fosse completamente impazzito. E quando poi fu costretto ad interrompere quel contatto per riempire i polmoni di aria – aria infuocata che lo consumava dall’interno – le braccia di lei erano strette intorno al suo collo, le loro fronti si toccavano e lei era sua, sua e di nessun altro. Vide il suo sguardo intenso colorarsi di una strana sfumatura, e la sua bocca ancora rossa e dischiusa che si incurvava in un sorriso tanto languido e tenero che si sentì morire. Perché anche lei lo amava.

Riaprì faticosamente gli occhi, il mondo reale che lentamente si sovrapponeva a qualsiasi altra cosa, cancellando tutto, lasciandolo nuovamente solo su quella poltrona di pelle nera. La stanza era silenziosa, era buia, era il rifugio ideale in cui abbandonarsi del tutto ad una resa incondizionata, senza che nessuno se ne accorgesse, come lui meritava. Le lettere non erano altro che cenere nelle fiamme, piccoli granelli grigi che non avevano più nessuna storia e sapevano solo di delusione e fallimenti. Un requiem tra le fiamme.

Tseng batté le palpebre, il danzare amorfo del fuoco che lo stregava e lo teneva fermamente legato alla cruda realtà.

Ti amo.

Quando richiuse gli occhi, vide solo un cupo bagliore rosso disegnarsi tristemente sulla parete interna delle palpebre abbassate. Lei era sparita definitivamente.

Non sarebbe più tornata.

Ti amo.

Ma non lo saprai mai.

 

Dopo lunga agonia

gli ultimi raggi tiepidi

morirono in silenzio,

il calore dell’ultimo sole che

giaceva nella sua tomba

di duro ghiaccio.

E dopo quel congedo,

ci fu solo inverno.



~ Fin

   
 
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