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Autore: Strekon    28/11/2005    17 recensioni
Se pensate che io non abbia sofferto, vi sbagliate. Vi ho visto raggomitolati e vi ho visto, senza forze, subire tutto il dolore del mondo. Se pensate che non farò nulla per smettere di vedere e sentire tutto ciò...vi sbagliate.
Genere: Dark, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: un po' tutti
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Perché un terzo capitolo della saga

Perché un terzo capitolo della saga? Già perché…Bè, principalmente per due ragioni. La prima è che con il secondo capitolo (Il tempo che cambia), purtroppo, non ho fatto un lavoro eccelso. Sì, lo so, a molti è piaciuto e in se non era male, ma mi era davvero sfuggito di mano in più occasioni (motivo per cui andava spesso a rilento). La seconda ragione è che, un tempo, Senza Tregua era una serie seguita da parecchie persone, che col tempo sono andate scemando, anche per la qualità della fanfiction stessa. Quello che mi ripropongo con questo terzo capitolo è di “risvegliare” il tono della serie e di darne una conclusione che ho lasciato volutamente in sospeso alla fine di Il tempo che cambia. Che altro dire? Spero che il mio lavoro non vada a perdersi e non sia invano. Con queste premesse vi auguro buona lettura!

 

Prologo

 

La stanza era illuminata da una luce spettrale. Non era la luce della luna. Quella sera le nubi invernali non permettevano alla luce di filtrare attraverso di esse. E la finestra piangeva lacrime di pioggia. Un lampo crepò le nuvole, timidamente. Poi un tuono in lontananza reclamò la sua paternità.

La luce brillò più intensa, per un attimo. Risplendendo in tutta la stanza. Era una figura ad essere illuminata. Una figura dall’aspetto umano, ma in qualche modo corrotta. Aveva, in sé, un’aura di malvagità che anche il più imbranato fra i maghi avrebbe potuto percepire.

“Insegnami ciò che sai”

La figura si voltò verso uno degli angoli più bui della stanza. La voce lo aveva svegliato da un torpore che durava da ormai troppi anni. Non sapeva chi fosse, ma non gli importò.

“Perché?” chiese rivolto all’angolo scuro. Le nubi si illuminarono di nuovo, dorate da un altro lampo fugace. I vetri tremarono per il tuono che ne seguì, molto forte e molto vicino.

“Per vendetta”

 

Capitolo 1

La Bella e la Bestia

 

 

“No one knows what its like
To be the bad man, to be the sad man
Behind blue eyes…”

 

                                   Behind Blue Eyes, Limp Bizkit

 

 

1.

 

Il professor Edward Dune chiuse l’ultima finestra aperta sul monitor del personal computer. Febbrilmente tamburellò le dita sulla scrivania. Neanche si era seduto, la fioca luce della lampada da scrivania illuminava a malapena la tastiera davanti a lui. Dalla finestra filtrava il basso pallore di un lampione danneggiato. Lampeggiava insicuro in mezzo al vicolo.

“Andiamo…sbrigati…” sussurrò più a stesso che al macchinario elettronico. Il ronzio si attutì d’un tratto e il lettore cd espulse il supporto.

Il professor Edward Dune recuperò il cd-rom e se lo infilò nella tasca interna del gilet di twill. Estrasse un vecchio accendino a benzina e lo passo un paio di volte sulla superficie del computer. Quello prese a fumare e in un attimo fu avvolto dalle fiamme. Gettò il resto della latta di benzina sulla scrivania. Istantaneamente prese fuoco.

Recuperò la giacca sulla sedia e uscì velocemente dall’appartamento. La serratura forzata tremò quando chiuse la porta. Un’ultima occhiata e una sistemata al pomello che pendeva storto. Poco male.

Percorse le scale, più illuminate, con la febbrile sensazione di sentire un eco minaccioso in corrispondenza di ogni suo passo. Si voltò un paio di volte a controllare, ma non vide nulla. O nessuno.

Si immerse nella notte londinese calpestando la pioggia che aveva inzuppato tutta la città per l’intero pomeriggio. Nonostante fosse ormai estate, un fresco venticello sbarazzino si faceva sentire. Si alzò il collo della giacca per proteggersi da quella brezza. Sfilò i guanti e se li infilò in tasca.

Attraversò la strada e un taxi si fermò per lasciarlo passare. Lui ringraziò con un gesto della mano. Superò una pozzanghera e prese a camminare lungo il vialetto. Gli alberi rigogliosi cantavano e ronzavano dei rumori dell’estate. Il professor Edward Dune ripensò a tutto quello che aveva fatto quel pomeriggio. A quello che aveva visto e sentito. Si tastò il volto. Lo zigomo destro gli faceva ancor un gran male.

Sbuffò, infreddolito dentro, e cominciò ad attraversare il parco, sua ultima meta. A quell’ora tarda non ci sarebbe dovuta essere troppa gente. O almeno era quello che sperava il professor Edward Dune.

Tastò ancora la tasca dove aveva infilato il cd-rom. Da quel disco dipendeva tutta la sua vita. Tutto quello che per lui contava nella vita.

Raggiunse la panchina alla seconda curva del sentiero ad est, come preventivato. I sentieri erano sgomberi in entrambe le direzioni. Da un  lato era coperto da un cespuglio, mentre dall’altro il campo visivo era libero fino all’uscita del parco.

Si guardò intorno sperando di vedere spuntare qualcuno. Cominciò a marciare insofferente avanti e indietro, di fronte alla panchina. Un dubbio gli attraversò la mente, trasportato dall’ennesima folata di vento fresco. E se avesse mentito? Se la avesse uccisa e basta?

Che dannato stupido! Lui stava facendo il suo gioco, stava facendo il lavoro sporco senza avere reali sicurezze. Non avrebbe dovuto portare le informazioni con se. Si accese una sigaretta facendo scintillare il vecchio zippo.

Tirò una boccata e si guardò ancora intorno. Niente. Nessuno da nessuna parte. Tranne quel rumore da dietro il cespuglio.

Si sfilò la sigaretta di bocca e mise una mano all’altezza del petto, proprio sopra la tasca del gilet. Il cespuglio tremò ancora. E un cane dal pelo nero vi spuntò, come sputato fuori dalla notte.

Il professor Edward Dune emise un lamento spaventato e sobbalzò all’indietro. La sigaretta gli cadde a terra.

“Buck? Ehi bello dove sei?” un uomo sulla cinquantina spuntò dal sentiero coperto dal cespuglio. Appena il cane sentì il richiamo si voltò verso il padrone e trotterellò in mezzo alle sue gambe. L’uomo lo accarezzò e gli allacciò la catena al collo.

“Non devi andare in giro da solo di sera, rischi di perderti” lo sgridò puntandogli il dito sul naso. Il cane si lamentò, senza ascoltarlo troppo e cacciò uno sbadiglio.

“Zuccone…” lo apostrofò ancora l’uomo prima di rimettersi in piedi ed avvicinarsi al professor Edward Dune.

“Salve, Buck l’ha spaventata?” chiese. Il professor Edward Dune si strinse la mano al petto di nuovo e fece un mezzo passo all’indietro. Che fosse uno di loro?

“No…cioè, avevo visto muovere…” fece un cenno al cespuglio “Credevo fosse qualcuno”

“Ah, sa a Buck piace dare la caccia ai topi. Se ne annidano molti nei parchi in città” ridacchiò l’uomo mentre Buck se ne stava seduto accanto a lui, ancora legato al guinzaglio. Forse fu solo un impressione, ma al professor Edward Dune parve che quel cane lo guardasse di nascosto, senza farsi notare. Sudò, impercettibilmente.

“Si sente bene?” chiese l’uomo avvicinandosi di un altro paio di passi. Passi che al professor Edward Dune parvero troppi. Ma non si mosse. Era pronto a reagire, ma avrebbe aspettato ancora.

“Sì, certo…perché me lo chiede?” rispose nervosamente il professor Edward Dune.

“Non ha una bella cera…” lo osservò l’uomo, appoggiandogli una mano sulla spalla “Sicuro di stare bene?”

“Come? Sì, certo….stavo” ma fu interrotto da un trillo proveniente dai suoi pantaloni. Il telefonino del professor Edward Dune prese a zigare sempre più forte.

“La lascio alla sua chiamata” lo salutò l’uomo. Fece un cenno al cane che prese a trotterellare al suo fianco e superò il professore, continuando per il sentiero.

Il professor Edward Dune li seguì con lo sguardo finché non sparirono oltre la curva. Il telefono continuava a squillare facendo eco in tutto il parco.

Come se si fosse risvegliato di colpo, estrasse il cellulare e lesse il nome sul display.

Sara. Sara lo chiamava. Era viva! Premette un tasto e si portò il telefonino all’orecchio.

“Sara, amore mio!” disse tutto d’un fiato facendo scomparire quella sensazione di pesantezza che aveva al petto. Ma la risposta si fece attendere qualche secondo di troppo.

“Professor Dune ha le informazioni?” parlò una voce femminile.

Era quella voce! Quella voce femminile, ma autoritaria. Dolce ed incredibilmente spietata. Il professor Edward Dune l’avrebbe riconosciuta fra mille. La voce che aveva sentito quella mattina, prima che Sara sparisse.

“Dov’è?”

“Ha le informazioni?”

“Dove cazzo è?” urlò Edward Dune al telefono. La voce al di là dell’apparecchio si fece muta per qualche secondo.

“Ha le informazioni? La avverto, se non mi risponde metto giù”

Edward Dune sospirò sconfitto “Le ho con me” si tastò la tasca interna come per assicurarsi che il cd-rom fosse ancora lì. Sentì il profilo circolare con la punta delle dita.

“Bene” disse la voce, e dopo di ciò interruppe la comunicazione.

“Pronto? Pronto? Maledizione!” pigiò un altro tasto e sbatté il telefono nella tasca della giacca. Il professor Edward Dune si girò di scatto deciso più che mai ad andarsene da lì. Non aveva sicurezze, si era fidato e lo avevano solo preso in giro. E soprattutto non sapeva come stesse Sara.

“Si calmi, professore” parlò di nuovo quella voce di donna tremendamente sensuale e letale. Il professor Edward Dune si voltò verso la panchina. Vide di nuovo quella donna seduta a gambe incrociate e coi gomiti appoggiati allo schienale. Lo osservava, divertita, o almeno così pareva. Sorrideva, sotto il rossetto scarlatto, in pieno contrasto con la sua carnagione chiara. Qualche ruga le contornava gli occhi, ma non dimostrava di certo l’età che aveva.

Una gran bella donna, avvolta da un aderente e sensuale abito nero che faceva risaltare ogni sua curva. Soltanto le spalle erano scoperte. Una piccola mantellina le cadeva sulla schiena e i lembi erano annodati ai polsi tramite dei delicati lacci, sempre in velluto nero. I capelli le danzavano perfettamente lisci e neri fra le scapole.

“Voglio vederla” disse il professore, senza muoversi. La donna smise di sorridere e parlò.

“Ed io voglio le informazioni. Me le dia, e io le dirò dov’è la sua ragazza, professore” sibilò sottile. Si alzò in piedi ed ancheggiò verso la sua vittima. Si sfiorava i fianchi con le unghie laccate di rosso.

“Perché vi interessa il lavoro di mio zio?” chiese il professor Edward Dune, facendo un passo indietro. La donna alzò gli occhi al cielo e sospirò.

“E a lei perché interessa? Mi dia quel codice e facciamola finita”

“Io non ho mai detto che mi zio lavorasse ad un codice”

La donna trattenne il respiro per un attimo. Poi sorrise di nuovo e fece ciondolare la testa, ad occhi appena socchiusi.

“Ma bravo, complimenti. Ho bisogno del codice che suo zio ha decodificato”

“Perché?” insistette il professore. Lei strinse le dita della mano destra, visibilmente seccata.

“Non è affar suo, professore” sillabo al limite della sopportazione “Me lo dia e basta” alzò troppo la voce e il professor Edward Dune tornò a ragionare con lucidità, almeno per un attimo.

“Chi mi dice che Sara stia bene? Non darò un bel niente senza vedere prima Sara” la letale donna fece scivolare una mano dietro i fianchi e la estrasse istantaneamente. Stringeva stretta fra le dita una lucida stecca di legno scuro.

“Ora conterò fino a tre, dopodiché che Sara sia viva o morta non le importerà più” alzò il legno in direzione del professor Dune.

“Uno…”

Il professor Edward Dune si guardò intorno, ma purtroppo non sembrava ci fosse nessuno nelle vicinanze. Neanche quel signore di poco prima.

“Due…”

Se l’avesse ascoltata sarebbe rimasto in vita, ma di Sara non avrebbe avuto notizie certe. Era su un baratro e non vedeva nessuna uscita. Chiuse gli occhi pregando quel Dio che non aveva mai ascoltato.

“E tr…”

“Buonasera Bellatrix” il conto alla rovescia della letale donna si interruppe ad un attimo dalla fine. Il professor Edward Dune riaprì gli occhi e vide davanti a se quell’uomo che poco prima lo aveva salutato. Quell’uomo che portava a spasso il cane. Gli dava le spalle e se ne stava a braccia intrecciate, dietro la schiena.

Bellatrix Lestrange abbassò la bacchetta e sorrise rassegnata.

“Remus, credevo fossi in giro ad ululare alla luna” lo prese in giro lei. Remus non si scompose, si limito a sorridere, sotto quel suo pizzetto curato.

“Ebbene no, stanotte è appena crescente, purtroppo. Purtroppo per te, naturalmente”

Il professor Edward Dune non capiva nulla del dialogo fra i due. Lentamente prese a muoversi all’indietro, facendo strisciare i piedi sulla sabbia del sentiero.

“Non si muova professore. Qui intorno è pieno di gentaglia…” lo ammonì Lupin. Il professor Edward Dune alzò gli occhi per guardare meglio attorno a se. Fra le pieghe delle ombre di alberi e lampioni, notò un paio di sagome a cui prima non aveva badato. Erano di forma umana, non c’era dubbio, ed erano straordinariamente mimetizzate con l’ambiente. Se non glielo avesse fatto notare quello strano individuo, probabilmente non lo avrebbe viste.

“A proposito di gentaglia, se tu sei qui ci deve essere anche il mio pulcioso cugino”

“Ciao Bella, sempre lieto…” Sirius Black spuntò dalle spalle di Bellatrix. Annodata al braccio destro aveva una catena molto simile a quella usata per i guinzagli dei cani. Bellatrix si voltò per guardarlo in faccia.

“Sarò lieta di sbattervi ad Azkaban per il resto dei vostri giorni. Siete fra i più ricercati in Inghilterra, lo sapete?”

Sirius le sorrise “Illusa”

“Sbruffone” lo rimbeccò lei.

“Sei sempre la mia dolce cugina” decretò Sirius. Dopodiché fece oscillare la catena, la fece vorticare velocemente attorno al braccio e ne lanciò un’estremità verso il cespuglio. La catena si artigliò stretta attorno a qualcosa. Si sentì un lamento, poi Sirius la recuperò con uno strattone. Trascinato dalla catena spuntò un individuo intabarrato che ruzzolò poco decorosamente a terra, ai piedi dello stesso Sirius.

“Dilettanti” dichiarò Sirius, aprendo le ostilità. Un paio di tizi nascosti fra le ombre scattarono insieme addosso a Sirius. Agitarono entrambi le bacchette pronunciando una veloce formula magica.

Stupeficium!” l’aria si increspò, ma i due incantesimi centrarono in pieno il suolo. Con sorpresa videro Sirius in volo sopra di loro. Concluse il balzo sulla testa di uno dei due, gli strappò la bacchetta di mano e la puntò contro l’altro.

Tremula!” un fiocco di luce rossa colpì la spalla dell’altro mago avvolto dal mantello. Ed improvvisamente si accorse di non poter più coordinare i movimenti. Le braccia gli tremavano, come anche le gambe e il collo, facendo ballonzolare la testa in ogni direzione. Tentò invano di reggersi in piedi, ma crollò, vibrante, al suolo.

Bellatrix, intanto, non era stata di certo ferma a guardare. Con passo deciso camminò verso Lupin, che non accennava a muoversi dalla sua posizione. Anzi rideva.

Bellatrix alzò la bacchetta verso la sua testa e la perforò con un incantesimo di fuoco. Le fiamme crepitarono come pazze e fecero tremare l’immagine di Lupin.

“Un illusione…” alzò la voce e si guardò intorno “Remus Lupin sei patetico” sogghignò e puntò la bacchetta verso il professor Edward. Quello si strinse le mani sulla tasca del gilet. E Bellatrix non poté fare a meno di notarlo. Sorrise soddisfatta.

Agitò la verga magica e il professore si ritrovò sospeso a mezz’aria, incapace di muoversi. Bellatrix gli strappò la tasca del gilet. Avvertì la forma del disco fra le sue dita.

“No!” gridò inutilmente il professore, ma Bellatrix lo ignorò e strinse nella mano il sottile dischetto di legno. Di legno?

“Sarà patetico” parlò Lupin, in piedi sulla panchina lì accanto “Ma è dannatamente funzionale” si rigirava fra le dita un sottile disco lucido e brillante come l’argento.

“Tu, mago da quattro soldi…” Bellatrix si voltò versò Lupin e sbatté a terra il ridicolo disco di legno. Il professor Edward cadde al suolo, libero dall’incantesimo.

La sensuale e letale maga camminò rapida, ma una scarica di fulmini interruppe il suo fiero percorso, lasciando una chiazza nera e bruciata davanti ai suoi piedi.

Sirius affiancò l’amico. Aveva ancora le mani coperte da piccoli fulmini lungo tutto il dorso.

“Non fare la cattiva, fai giocare tutti con il gingillo del professore” la canzonò Sirius, come se fossero ancora bambini. Bellatrix fece oscillare la bacchetta.

“Voi non avete idea…” disse, chiuse gli occhi e formulò un incantesimo che anche Lupin fece fatica ad identificare. Gli occhi le si fecero neri e opalescenti per un attimo. Dopodiché le ombre intorno presero a tremare.

“E’ un evocazione” disse piano Lupin estraendo, finalmente, la bacchetta.

“Bene, mentre tu fai ricerche io la pesto, ok?” con un balzo Sirius saltò vicino a Bellatrix, ma lei terminò l’incantesimo un attimo prima e scivolò lontano con un fluido movimento di gambe.

“Ormai è tardi, cugino…” sorrise lasciva. Sirius la guardò in cagnesco e stiracchiò i muscoli del collo.

Remus Lupin non era un uomo d’azione. Con l’età, poi, la sua già scarsa attitudine al combattimento era andata, via via, scemando. Eppure, quel basso ruggito che sentì alle sue spalle lo fece pentire di non essersi tenuto nemmeno un po’ in allenamento.

Lupin si voltò e vide un enorme bocca di ombra e notte spalancarsi e cercare di inghiottirlo. Con un poco elegante saltello scese dalla panchina ed evitò il morso del mostro.

“Sirius!” urlò “Un serpente d’ombra!”

Sirius si voltò e vide l’enorme biscione scivolare sopra la panchina e avvicinarsi a loro due. La massa del serpente era costituita per intero da ombre e buio, sembrava quasi non avere un vero corpo, soltanto una bozza di ciò che sarebbe potuto essere nella realtà. Un incubo dalla forma vaga.

“Ok come si affronta questa bestiaccia?” chiese Sirius scartando i movimenti del grosso rettile, preceduto dall’amico.

“Come si affronta? Che vuoi che ne sappia di come si affronta!”

“Sei stato professore di difesa contro le arti oscure ad Hogwarts e non sai come si affronta questo coso?!”

“Ehi, io insegnavo a dei ragazzi, mica a dei soldati!”

Un guizzo del serpente li sorprese e li costrinse a gettarsi alle estremità opposte. Remus rotolò vicino al professore babbano, che ancora non si era mosso da dove era caduto. Fortunatamente per Lupin, il grosso rettile preferì continuare a dare la caccia a Sirius.

Lupin aiutò il professor Dune ad alzarsi e quello, a metà fra lo sconvolto e l’incredulo, gli strappò di mano il disco d’argento.

“Questo è mio!”

“No, quello è mio” replicò sicura Bellatrix agitando la bacchetta verso la mano del professore. Quella si contorse e con un urlo il professor Dune lasciò la presa sull’oggetto che schizzò nella sua direzione.

Incendio!” il disco brillante scintillò per un momento, poi le fiamme crepitanti lo circondarono rendendolo incandescente. Nella mani di Bellatrix giunse solo un mucchio di cenere fumosa.

La maga si voltò verso Lupin che ancora aveva la bacchetta tesa a mezz’aria.

“Hai commesso la tua ultima impudenza, Remus Lupin” stridette Bellatrix inviperita “Non hai la minima idea di quello che hai appena distrutto” gli puntò contro la bacchetta con una voglia di morte dipinta sul volto. Una voglia che subito mutò in un sorriso sadico.

“Ma credo che vi lascerò alle cure del mio rettile, addio Remus” gli fece l’occhiolino e con un guizzo della bacchetta si smaterializzò.

 “Remus, che cazzo!” Lupin si voltò di scatto, e con lui il professore. Il serpente d’ombra sferrò un attacco, ma Sirius lo evitò con un balzò. Atterrò oltre i due, plastico e senza sbavature.

“Corra professore!” lo spintonò Lupin. Ma il terrore di quella creatura, incredibile e inconcepibile per la mente del professor Dune, gli annebbiò i sensi. E i riflessi. Troppo tardi si mosse scattando di lato. La bocca del mostro lo inghiottì a partire dal braccio destro.

Il professore Dune tentò di gridare, invano. Sentì una pungente sensazione di freddo penetrargli la carne dell’arto, fino alla spalla. Doveva liberarsi. Cercò di fare perno sul muso del mostro, ma scoprì solo in quel momento di non poterlo nemmeno toccare. Gli passò attraverso, come se fosse fatto di nulla.

In quel momento il professore vide la fine. Il mostro aprì di nuovo la bocca e affondò di nuovo i denti, questa volta inghiottendo tutto il busto dell’uomo, che ormai agitava le gambe a mezz’aria, impotente.

“Sirius! Hai una bacchetta?” strillò Lupin sollevandosi dalla polvere in cui si era gettato. Sirius fece un fluido movimento di mano e impugnò la bacchetta che aveva sottratto poco prima al tirapiedi di Bellatrix.

“Appena lancerò l’incantesimo, scatena il miglior Patronus che tu conosca!” Sirius annuì con un movimento rapido e si concentrò ad occhi chiusi. Si isolò, da solo con la sua mente e i suoi pensieri. Il pensiero migliore, il pensiero che lo rendeva la persona più felice. Mary Jane. Mary Jane e i suoi baci, le sue carezze. L’amore che gli dava e quello che riceveva. Gli scappò un sorriso, poi sentì la formula di Remus.

Penta Lumus!” pronunciò le parole con estrema lentezza. Sirius aprì gli occhi e puntò la bacchetta al centro delle cinque luci che presero a vorticare come pazze attorno al mostro.

Expecto Patronum!” la scia d’argento schizzò come un fulmine. Correva veloce, con le sue zampe pelose. Il grosso cane argentato si schiantò a bocca spalancata contro il serpente d’ombra e assieme a lui le cinque luci esplosero in una danza, fino ad avvolgerlo completamente. Con un muto grido il mostro si dissolse e con lui anche l’abbacinante bagliore che lo aveva distrutto.

Il corpo del professore crollò al suolo, fra la polvere del sentiero. La pelle era raggrinzita dove era stato morso, ed anche vagamente bluastra. Gli occhi erano ribaltati all’indietro e non dava molti segni di vita.

Sirius raggiunse l’amico, e lo aiutò a sorreggersi. Doveva essersi stirato una caviglia con l’ultimo salto che aveva fatto.

“Come…?” chiese Sirius senza finire la frase.

“Mi è venuto in mente come rimandarlo a casa…” si giustificò placidamente Lupin. Con un ultimo sforzo si rimise in piedi e si pulì dalla faccia un segno di terra con il dorso della mano.

“Adesso ti è venuto in mente?!” gridò “Pensavi di farmi fare ancora un po’ di jogging? …ma pensa te…”

“Sempre dietro a lamentarti” lo ammonì scherzosamente Lupin, per poi farsi più serio “Piuttosto…” fece un cenno al cadavere del professore.

“Credo che avremo qualche problema per la nostra indagine”

 

 

2.

 

L’accendino scintillò una volta, senza risultati. Con la seconda scintilla, finalmente, la fiamma si accese e la sigaretta brillò. Il fumo avvolse la sottile stecca di tabacco e carta, sbuffata fuori dalla bocca del giovane ragazzo.

I capelli lunghi, ma corti ai lati del capo, cadevano scompigliati sul guanciale. Teneva un braccio dietro la testa e si gustava la monotonia di quel soffitto, alternato ogni tanto ad un’aspirata di insalubre tabacco.

Lo scroscio di una doccia gli faceva di sottofondo e il sole del mattino gli baciava la pelle del petto e delle braccia, scolpiti da ore in palestra, probabilmente. Soltanto un lenzuolo, fin troppo pesante per quella stagione, lo copriva dal resto del mondo. Quello, e una moltitudine di indumenti, sparsi alla rinfusa sul giaciglio, sul pavimento e uno anche sul paralume della abat-jour. Sorrise nel vedere quel calzino penzolare.

Lo scroscio si interruppe, sostituito da un motivetto canticchiato a labbra serrate. Chiunque stesse cantando quella canzoncina era sicuramente di buon umore. Ed era sicuramente una ragazza. La stessa ragazza che entrò nella camera dove il ragazzo tirava l’ultimo fiato alla sigaretta.

La ragazza smise di canticchiare quando lo vide e con un balzo saltò sul letto, atterrando con le ginocchia. L’accappatoio celeste le avvolgeva il corpo snello mostrandone soltanto una bassa scollatura e le deliziose caviglie.

“Buongiorno dormiglione” lo salutò lei facendo scivolare le labbra su quelle di lui “Dormito bene?”

“Dormito poco” sorrise lui “Ma in quanto a bene…bè, sì, quello sì”

Lei si abbassò di nuovo a baciarlo e gli carezzo il petto con la mano. Lui le strinse la mano dolcemente e la allontanò da se.

“Perché…?” chiese lei attonita. Il ragazzo le sorrise sulle labbra.

“Non sono di pietra…rischi di eccitarmi ancora, sai?”

Lei sorrise perfida. Abbassò la mano fino a sfiorare il lenzuolo mentre con le labbra accarezzava il collo e le spalle del ragazzo.

“Davvero?” rispose ironica, appiccicata al suo collo. Lui tremò un momento, ad occhi chiusi. Poi allungò una mano e lentamente le sciolse il nodo che teneva chiuso l’accappatoio. Subito lei strinse i lembi di spugna e cercò di allontanarsi.

“No…dai, lasciami fare…” il ragazzo alzò lo sguardo e si appoggiò coi gomiti al cuscino sformato.

“Che ti succede?” le chiese, senza lasciare la mano che stringeva. Le baciò una spalla che si era inavvertitamente scoperta e ad occhi chiusi prese a salire verso il collo sottile. Adorava la sua pelle chiara, sapeva come di buono.

“Io…senti, sono ancora molto imbarazzata, e allora…”

“Imbarazzata?” lui si sollevò di scatto dalle sue coccole e la guardò negli occhi “Tua madre se ne è andata per un paio di giorni, c’è un ragazzo nudo nel tuo letto, tu sei praticamente svestita…adesso ti imbarazzi?” Lei gli sorrise e scostò lo sguardo, ma la mano di lui la ricondusse a guardarlo negli occhi.

“Dimmi cos’hai” la spronò. La ragazza sospirò e si accasciò, stesa sul petto del suo ragazzo. Incrociò le dita con le sue in un gioco tanto infantile quanto dolce. Lui attese, consapevole che presto avrebbe parlato. Era fatta così, le ci voleva un po’ di tempo per poterci pensare su, ma avrebbe detto cosa la turbava.

“Senti, come…” tossicchiò e prese un respiro, breve ma intenso “Come mi hai…cioè,…come è andata?”

“Come è andata?”

“Sì, come è andata?” Il ragazzo sbatté gli occhi perplesso.

“Intendi il sesso?”

“Per Merlino…sì! Cos’altro? L’esame di trasfigurazione?” replicò seccata. Lui trattenne a stento un risolino. Non bisognava mai ridere in certe occasioni. Questa era una di quelle.

“Direi bene, cioè…a te è piaciuto?” chiese di rimando lui, mantenendosi astutamente sul vago.

“Certo!” rispose subito la ragazza, con fin troppa irruenza. Se ne accorse e subito si corresse “Voglio dire, sì, perché non avrebbe dovuto? Se escludiamo soltanto la parte iniziale…”

“Parte iniziale?” tremò la voce di lui “In…in che senso?”

“Intendo la prima volta” rettificò subito lei, sentendo il tremolio nella sua voce “Essendo la prima volta…bè, un po’ di fastidio ha dato”

“Molto?”

“Giusto un po’? A te ha dato fastidio?”

“No…oddio, no. Anzi è stato…fantastico” tentò di dire lui.

“Davvero? Allora sono stata…diciamo “brava”?”

“Brava?” ripeté incredulo lui “Tesoro mio, a letto sei una bomba!”

La ragazza si voltò di scatto e lui dovette interrompere, con molto disappunto, la sensuale catena di morsetti che le stava dando alla base del collo.

“Davvero?” chiese lei con un sorriso mezzo stampato in faccia.

“Cosa?”

“La cosa della bomba…davvero non sono una schiappa?”

“Bè, non che la mia esperienza sia enorme…però, ragazzi, non me la scorderò tanto facilmente!” la baciò mentre ancora lei sorrideva alle sue parole. Lei gli passò una mano fra i capelli, scompigliandoli oltre il possibile. Sciolse il bacio e lo buttò di peso sul materasso. In un attimo gli fu sopra.

“Mi piace quando sei così dolce” gli disse, poi si chinò a baciarlo ancora “E mi piace quando sei una bestia!” gli sorrise leccandogli sensualmente il labbro inferiore. Glielo morse, leggermente, scaricando un brivido lungo alla schiena al deliziato torturato.

“Bestia?” chiese con una punta di orgoglio virile nella voce.

“Se io sono una bomba…” si giustificò la ragazza. Poi si buttò in un bacio a capofitto su di lui, che rispose con altrettanto vigore, quasi non avessero mai più potuto sfiorarsi dopo quell’ultimo gesto.

Le allentò lentamente l’accappatoio e la avvolse con il lenzuolo abbondante, annodato per tutto il letto. Lui ridacchio scostando le labbra dalle sue.

“Che c’è?” chiese lei, col sorriso sulla bocca.

“Niente” la baciò di nuovo “Proprio niente” e la baciò ancora.

 

 

3.

 

“Vin, si gentile, apri tu la porta” Ginny reggeva due imponenti buste cariche di verdure uova e altre leccornie.

“Ok, ok” un ragazzino, forse un po’ troppo basso per la sua età, la anticipò e infilò le chiavi nella toppa. Portava i capelli corti, rossi come il fuoco. Il largo giubbotto gli ballava sul fisico magrolino.

“Prego madame” fece un mezzo inchino e aprì la porta. Ginny rise.

“Grazie messere” entrò in casa e appoggiò le buste sul ripiano all’ingresso. Vincent prese subito una delle due buste e la portò in cucina.

“Eve è in casa?”

“Credo di sì” rispose lui dalla cucina “Ieri sera ha detto che non usciva”

“Eve?” chiamò a gran voce Ginny, passando vicino alle scale. Ma non ottenne risposta. Vincent intanto portò l’altra busta in cucina.

“Mamma, forse è uscita stamattina”

“Va a vedere se è ancora a letto. Dille di svegliarsi che pranziamo” Vincent annuì col capo e fece i gradini due a due. Si tolse la giacca e la gettò sul letto di camera sua, passandoci davanti.

“Sveglia!” gridò aprendo di scatto la porta della sua camera.

“Ma non si bussa!” strillò Eve coprendosi alla ben e meglio con l’accappatoio celeste.

“Scusa, scusa…dormivi ancora?” indagò Vin dando un’occhiata in giro per la camera. C’era una gran confusione e Eve sembrava stranamente imbarazzata. Stranamente perché Vincent non aveva mai visto sua sorella imbarazzarsi per così poco. Stava nascondendo qualcosa. Qualcosa oltre se stessa. Guardò meglio per la stanza intanto che Eve alzava le coperte. E lo vide.

“C’è Tom?”

“Eh? Perchè? Come fai a dirlo?” scattò con troppa irruenza Eve. Poi vide dove era puntato lo sguardo di suo fratello. Il cappello da baseball. Quello era di Tom. Gettò via la maschera e ne indossò subito un'altra.

“Sì, certo è…è giù che ripara la mia bici”

“La tua bici non è rotta”

“Sì la ruota è bucata” urlò Eve, a voce stranamente alta. Vin alzò un sopracciglio. Non gliela contava giusta.

“D’accordo, vestiti che è pronto fra poco” la lasciò sola e scattò giù per le scale.

Eve aspettò un attimo per essere sicura che si fosse allontanato. Con passi felpati recuperò la camicia a scacchi blu e i jeans e si avvicinò alla finestra.

Tre metri più in basso Tom era accucciato in un angolo, coperto dalla siepe troppo alta. In mutande e con soltanto le scarpe addosso.

“Ehi, tieni” gli gettò la sua roba e Tom la prese al volo.

“Fai finta di riparare la bici”

“La bici? Perché la bici?” chiese Tom infilandosi i jeans che non ricordava così stretti.

“Tu fallo è basta, è una copertura”

“Ma su tu lo dicessi e basta?”

“Sì certo. Mamma, io e Tom stiamo insieme. Ah, stanotte abbiamo fatto sesso. Geniale…” commentò sarcastica. Tom si infilò la camicia e scattò verso il garage di casa Malfoy.

“Buca una gomma!” gli urlò ancora Eve, a bassa voce. Tom annuì con la testa e come un gatto raggiunse la siepe. La saltò facendosi perno su di essa, graffiandosi le mani. Rotolò davanti alla porta di ingresso e si rimise in piedi proprio davanti al garage. Sollevò la porta di alluminio e nello stesso istante la porta di ingresso si aprì.

“Tom!”

“Ginny!” rispose lui girandosi di scatto e dissimulando il fiatone.

“Non ti ho visto prima, sei qui da molto?” Ginny infilò il sacco della spazzatura nella pattumiera davanti casa. Tom sospirò vago.

“No, non molto, Eve aveva la bici rotta, così…”

“Sei sempre gentile con Eve. Ti ha offerto almeno qualcosa?”

Ginny non poteva rendersi conto di quanto la domanda, carica di doppi sensi, avesse messo in una paresi da imbarazzo il povero Tom.

“Ehm…sì, sì sì, sono apposto, grazie! Ora…la bici…sai…”si infilò nel garage salutando Ginny con un gesto della mano forse un po’ troppo meccanico. Sperò di cuore che non avesse scoperto o sospettato di nulla.

Prese la bici della ragazza e si piegò per dissimulare la ruota bucata.

“Non sforzarti” la voce di Vin alle sue spalle lo fece rialzare di scatto sull’attenti. Si voltò, di nuovo.

“Ehilà, come va? Tutto bene?”

“Alla grande, tu?”

Tom bofonchiò qualcosa cercando disperatamente di staccare la gomma dalla camera d’aria.

“Bei pantaloni”

“Grazie…” rispose Tom senza staccare gli occhi da quella dannata ruota anteriore.

“Hai sentito Chris ultimamente?”

“No è…è in giro con suo padre…non ho ben capito…”

“Ah, già…già già…Senti…”

“Cosa?” Tom ormai non sapeva più cosa inventarsi per toglierselo di torno. Quegli occhi azzurri lo scrutavano come se volesse leggergli nella mente.

“Non dovresti fare così con Eve”

“Cioè?”

“Voglio dire” precisò Vin “Fare tutto quello che dice…che ci ricavi?”

Eh, che ci ricavo…credo sia abbastanza quel che ricavo!

“Ma tanto a me fa piacere, siamo amici e…e niente, basta così”

“Mi fa piacere, anche se si vede che tu sbavi per lei”

“Io non sbavo!” replicò secco Tom dimenticandosi d’un tratto della bici e della ruota.

“Eddai, un po’ sì!”

“Senti, che ci posso fare? Tua sorella mi piace, ok?”

“La ami?”

“Cos…?” la domanda lo colse di sorpresa. Si grattò la testa con indifferenza.

“Fatti i fatti tuoi, nano!” replicò subito dandogli le spalle.

“Lo considero un sì…” sorrise Vin alle sue spalle. Tom sbatté il pugno sul bancone da lavoro lì accanto.

“Consideralo come ti pare, ma ti sarei grato se ti facessi i fatti tuoi, ok?” sillabò le parole, al limite della sopportazione. Doveva essere un atteggiamento minaccioso, ma a Vincent Malfoy non impressionò molto quella pagliacciata. Aveva visto e subito ben di peggio. Sorrise vago e, finalmente, si rimise in piedi.

“Ok, ok come ti pare. Solo…”

“Solo cosa?” quasi urlò Tom.

“Solo, se fossi in te, io mi cambierei i pantaloni”

“I pantaloni?” Tom abbandonò quell’aria arrabbiata per lasciare spazio ad una molto perplessa. Si guardò le gambe e i fianchi dei jeans, fin dove poteva. In effetti quei pantaloni gli sembravano strani.

“Sono quelli di mia sorella. Hai “DEVIL” in rilievo sulle chiappe” Vin ridacchiò e tornò in casa dalla porta di servizio.

Il commentino è gradito sia dagli amici vecchi che da quelli nuovi ^__-

 

 

See you again!!!

   
 
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