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Autore: La neve di aprile    13/12/2010    3 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
#13 THE ONE THAT GOT AWAY/BABY PLEASE COME HOME



PARLA IZZY:
Ogni tanto mi ritrovo a pensare che di te avevo capito ben poco, in tutti gli anni che abbiamo passato assieme.
Ti vedevo come una delle persone migliori che avessi mai conosciuto, eri la ragazza con cui avrei voluto passare il resto della vita e poi l'eternità, per te avrei rinunciato ad ogni cosa pur di metterti un anello al dito e saperti mia in ogni istante.
Avrei venduto l'anima al diavolo per poter vedere un tuo sorriso, ero convinto che la pace dell'anima potesse esistere solo nel momento in cui ero seduto sul tuo vecchio divano sfondato, la chitarra tra le braccia e la tua voce che arrivava fioca dalla cucina, coperta dallo sfrigolare di qualche piatto precotto.
Quell’appartamento.
Ho sempre fatto fatica a capire perché ti ostinassi a voler rimanere a vivere in quel buco arroccato in un enorme palazzone fatiscente, quando invece avremmo potuto trasferirci in una casa molto più grande e molto più bella, sulle colline soleggiate di Holliwood.
Ricordo che addirittura rifiutavi di affrontare l’argomento, trincerandoti dietro risposte brevi e velenose che, alla lunga, mi facevano passare la voglia di discutere.
Ora, invece, forse riesco a capire.
Al di sotto della tua facciata di giovane donna indipendente, dietro lo spirito libero, dietro la Roxanne che era scappata di casa alla prima occasione e si era costruita una vita con le sue mani, che non lasciava al destino il tempo di decidere per lei ma si prendeva ciò che voleva, c’era ancora la bambina che eri stata.
Sepolto sotto strati di coscienza tanto fitti da ingannare persino il più severo dei tuoi giudici, persino te stessa, il tuo io di bambina aveva un disperato bisogno di punti fissi che non se ne sarebbero mai andati, un rifugio dove tutto fosse sempre a posto, dove sbarrare la porta sui demoni e i fantasmi che cercavano di sfondarla.
C’è stato un tempo in cui credevo di essere io, il tuo punto fisso, ma la verità è che tu non hai mai dimenticato che l’uomo è fondamentalmente una creatura stronza e profondamente egoista e già sapevi che ti avrei abbandonata.

 


So now you feel rusty
You're bored and bemused
You wanna do someone else
So you should be by yourself.

 

Skunk Anansie, Secretly.



NEW YORK,  marzo 1991
Izzy aggrottò la fronte, guardando la chitarra che teneva tra le braccia come se la vedesse per la prima volta.
Era da un paio d’ore che tentava di trovare una melodia per una nuova canzone, ma tutto quello che era riuscito a tirar fuori non era altro che un ammasso informe di accordi e stecche, disposti in rapida successione sino a formare una cacofonia dissonante di suoni inascoltabile e piuttosto sgradevole.
Qualcosa, decisamente, non stava funzionando come avrebbe invece dovuto.
Qualcuno bussò delicatamente alla porta della stanza, interrompendo le sue considerazioni già sul punto di arrivare ad un punto morto e il chitarrista accolse l’interruzione con un sorriso.
“Avanti”.
I riccioli neri di Slash fecero capolino in un sottile spiraglio, seguiti da un’immancabile sigaretta e da un sorriso irriverente.
“Interrompo?” domandò il nuovo venuto, richiudendosi la porta alle spalle e poggiandovi sopra la schiena.
Izzy scosse il capo, passandosi una mano tra lunghi capelli neri in un tintinnare di braccialetti metallici.
“No,” rispose, “stavo provando a scriver qualcosa, ma non c’è verso che questa merda funzioni”.
“Stradlin, è perché non sei nel mood giusto,” lo prese in giro l’amico, attraversando rapidamente la stanza per lasciarsi cadere a terra, al suo fianco.
“Oh, per l’amor del cielo!” roteò gli occhi al cielo “Questo mood ha proprio rotto il cazzo”.
"Izzy Stradlin, non ti permettere di sfottere la filosofia di vita del grande capo!" lo ammonì scherzosamente Slash, aggrottando le sopracciglia in una smorfia indignata.
"Guarda che se ti venisse a sentire ci sono ottime possibilità che ti sbatta fuori senza possibilità di appello".

"Ha del miracoloso che non lo abbia già fatto," fu la replica, per niente ironica, del primo.
L'altro schioccò la lingua, chinandosi verso il blocco che stava tra di loro, studiando attentamente quello che Izzy vi aveva scritto sopra.

"Non è male..." commentò dopo aver canticchiato brevemente gli accordi, "ma hai ragione, ancora non funziona. Hai provato a farla in una chiave diversa?" l'occhiata che ricevette in risposta non ebbe bisogno di essere commentata, così riprese a parlare.
"Mh. Se vuoi possiamo lavorarci tutti assieme più tardi. Magari Duff riesce a tirar fuori qualcosa di decente e Matt ha una qualche idea."

"Tanto puoi star certo che qualsiasi cosa venga fuori Axl dirà che è una merda e che non siamo nel mood giusto".
"Probabile," convenne Slash, "ma tentar non nuoce. Non buttarti così giù, Stradlin," abbozzò un sorriso, rialzandosi in piedi, "potrei pensare che tu stia pensando di mollare e sai, vero, che non puoi farci una cosa del genere?"
"Si, lo so".
"Bene," il chitarrista gli scompigliò i capelli affettuosamente, soffiando fuori una generosa boccata di fumo, "guarda che ti aspetto di là, più tardi!" lo ammonì, prima di varcare nuovamente la soglia e sparire dietro quattro centimetri di legno scuro, silenziosamente chiuso.
Vide la maniglia risollevarsi, nell'attimo in cui Slash la lasciò andare, e sospirò.
Odiava mentire a quel ragazzo che, nel suo silenzio e nella sua stravaganza, aveva capito così tanto di lui, ma proprio non riusciva a dare una forma a quel pensiero che ormai da tanto tempo gli ronzava per la testa suggerendogli di fare qualcosa che avrebbe cambiato tutto quanto, inevitabilmente, e per sempre.
Lasciare i Guns.
La sola idea gli faceva accapponare la pelle e suonava come qualcosa di blasfemo, una bestemmia della peggior specie per lui che della chitarra aveva fatto la sua ragione di vita.
I Guns 'N Roses erano la Mecca pagana di tutti gli amanti dello strumento e lui e Slash si erano meritati, con gli anni, il titolo di Sacerdoti; come poteva anche solo azzardarsi a pensare una cosa del genere?
Migliaia di persone avrebbe ucciso per prendere il suo posto e sapeva perfettamente che al minimo errore Axl avrebbe schioccato le dita e qualcun altro si sarebbe trovato ad occupare la sua posizione.
E poi amava troppo la loro musica per poterla tradire così.
Però.
Tu non sei uno qualunque, gli aveva detto Roxanne, tu sei Izzy Stradlin.
E aveva ragione.
Lui era quel nome e tutto quello che comportava, era qualcuno da cui aspettarsi sempre il meglio, era un'icona, uno dei chitarristi più noti sulla scena musicale, ma non solo, perché prima di essere questo era anche una persona, un uomo con un passato, un presente e presumibilmente pure un futuro.
E davvero voleva che il suo futuro fosse una copia speculare del suo presente?
Un ammasso di ore perse a cercare di comporre qualcosa che lui sentiva come suo ma che poi, senza possibilità di appello, veniva scartato da Axl?
Non ne era affatto sicuro.

 


No
I don't know why you bother.
Nothing's ever good enough for you.

 

Radiohead, A Punchup at a Wedding.


Esattamente con Slash aveva predetto, Axl storse il naso e le labbra in una smorfia di disappunto quando Izzy gli fece sentire quello su cui aveva lavorato l'intera mattinata.
Scosse il capo, facendo danzare i capelli rossi nella penombra dello studio e decretò il verdetto.
"No."
Non aggiunse altro, lasciò la sillaba libera di riecheggiare nell'improvviso silenzio piombato nella stanza, dove altre quattro persone guardavano con il fiato sospeso tra volute lente di fumo di sigarette strette tra dita magre.
Duff sospirò, Slash chinò il capo nascondendosi nell'ombra della tesa del suo eterno cilindro.
Matt corrugò la fronte, perplesso.
Izzy, invece, non disse nulla.
Si limitò a fissare il volto di quello che un tempo era stato il suo migliore amico, senza riuscire a riconoscerlo.
Non c'è nulla in quei lineamenti induriti dall'età, dalla fama e dagli stravizi che gli ricordasse il ragazzino magro e spigoloso che con lui bigiava le lezioni per fumare e bere vicino ai binari della ferrovia, sognando il giorno in cui anche loro sarebbero saliti su quei treni che correvano via, verso un mondo nuovo.
Ripensò al giorno in cui si erano reincontrati, a L.A., tanti anni prima. Ripensò alla colossale sbronza di vodka e whisky che si erano presi per festeggiare l'evento, ripensò a un sacco di cose che adesso non avevano più alcun valore.
L'amarezza gli riempì la bocca di un sapore acido, tanto che dovette infilare una mano in tasca e prendere un'ennesima sigaretta, in modo che il fumo lo coprisse almeno in parte.
"Perché?" chiese il batterista, alla fine, con il tono più indifferente che gli riuscisse di tirar fuori.
Era nuovo, le dinamiche tra quei quattro amici erano qualcosa che sfuggiva ancora alla sua compresione e in particolar modo il rapporto tra Axl e Izzy.
Sapeva che erano stati grandi amici, glielo aveva raccontato Duff una sera, sapeva che si conoscevano da una vita e sapeva che qualcosa si era incrinato -anche se per questo bastava semplicemente guardarli. Eppure non riusciva a capire.
Nessuno di loro ci riusciva, era da troppo tempo che continuavano a proporre nuovi pezzi ad Axl e ogni volta lui li rifiutava, senza mai dare una spiegazione, senza mai dire niente di più di un no secco, senza possibilità di appello.
I perché non appartenevano al cantante che, evidentemente, aveva deciso di arrogarsi il diritto di decidere senza più coinvolgere nessuno, limitandosi a dire che
"I Guns sono una mia creazione e questa canzone non è adatta."
Appunto, si disse Izzy, sbuffando una nuvola di fumo acre.
Il copione rimaneva invariato, senza cambiare di una sola virgola.
Questa volta, però, non aveva nessuna intenzione di lasciare che Axel rovinava quanto di più caro avesse il mondo: si alzo in piedi e, senza dire una parola, raccolse la chitarra che aveva posato contro il muro, raggiungendo la porta.
"Dove vai?" cercò di fermarlo Duff, sollevando stancamente il viso smagrito e rovinato. Gli occhi verdastri erano cerchiati da due aloni violacei e gli zigomi premevano contro la pelle, facendo somigliare ad un teschio il volto del bassista.
Il chitarrista rimase in silenzio un attimo, mentre la consapevolezza di faceva largo dentro di lui, liberandolo dai veli del dubbio e del timore che lo avevano costretto a subire in silenzio per così tanto tempo.
Era tutto così chiaro, realizzò mentre fissava l'amico con compassione.
Non era obbligato a rimanere.
Non era obbligato a subire, era ancora padrone della sua vita. La sua musica era ancora sua, fin tanto che la chitarra avesse avuto corde e il suo cuore fosse stato in grado di pompare sangue, lui avrebbe potuto scrivere e comporre.
Fino alla nausea, fino alla morte, senza che nessuno gli dicesse che no, non andava bene, non era abbastanza.
Sorrise, sentendosi leggero come non gli capitava da molto tempo.
"Me ne vado".

 


I hear the ticking of the clock
I'm lying here the room's pitch dark
I wonder where you are tonight
No answer on the telephone.

 

Heart, Alone.



LOS ANGELES, marzo 1991
Roxanne non si sentiva tranquilla.
Erano giorni che non riusciva a mettersi in contatto con Izzy e la cosa non le piaceva.
Certo, non era nemmeno la prima volta che succedeva - essere la ragazza di un chitarrista famoso aveva dei lati negativi insospettabili, come il non potergli telefonare tutte le volte che aveva semplicemente voglia di sentire la sua voce - ma questa volta non riusciva proprio a controllare quel nodo che le bloccava la gola e le impediva di mangiare anche solo un boccone del piatto che aveva davanti.
Spinse lontano da sé la bistecca che aveva bruciacchiato accidentalmente, distratta dai troppi pensieri, affondando il viso tra le braccia incrociate sulla tavola.
Sovrapensiero, iniziò a tracciare cerchi sconnessi con la punta delle dita sulla plastica del tavolo, cercando di ricordare in quale punto d'America potesse trovarsi il suo ragazzo, quale città ci fosse sotto il cielo che abbracciava la Città degli Angeli in un azzurro talmente nitido da sembrare di smalto, quanto tempo mancasse al momento in cui i suoi passi lo avrebbero portato a varcare la porta di casa e le sue braccia l'avrebbero stretta forte, fino a farle mancare il respiro.
L'incendio che le esplodeva dentro, torcendole le viscere in una morsa dolcemente dolorosa.
Le sue mani sottili, le dita nervose che indugiavano brevemente sull'orlo di una maglietta scolorita e poi si perdevano tra i suoi capelli, affondando nei riccioli scuri come cioccolata, tirandole il capo all'indietro per farle scoprire il collo, docile come un cucciolo, e rubarle quel primo, unico, bacio.
Sospirò, mordendosi le labbra.
Non potevano essere a Boston, erano stati la settimana scorsa, non aveva dubbi a riguardo.
E nemmeno a Chicago, Duff l'aveva chiamata per raccontarle del tempo perso davanti al grosso fagiolo nero, enorme e lucido, correndo avanti e indietro e fermandosi lì davanti giusto il tempo necessario a vedere le loro facce deformarsi, ridendo come bambini in un negozio di caramelle.
New York?
Forse, non ne era sicura.
Non sono mai sicura di nulla, realizzò in un attimo di terrore cieco, raddrizzando la schiena e soffiando via una ciocca di capelli finitale davanti agli occhi.
La superficie lucida di un mobiletto di metallo da quattro soldi le restituì il suo sguardo atterrito.
Era cambiata, negli ultimi quattro anni.
Il suo corpo si era fatto pieno, nelle curve morbide della giovane donna che era diventata.
I suoi occhi erano sempre due pozze d'oscurità, ma erano incorniciate dalle prime, sottile, rughe d'espressione che avevano fatto la comparsa gradualmente, senza che potesse nemmeno accorgersene: il suo sguardo, però, aveva perso parte della durezza ostinata dell'adolescente sfumata via e si era fatto distante a tratti, congelato dalle prove che la vita le aveva presentato davanti giorno dopo giorno, senza mai risparmiarle nulla.
Aveva le stesse mani sottili di un tempo, sulle dita continuava a portare lo stesso numero spropositato di anelli, ma i polpastrelli iniziavano ad ingiallire per il troppo fumo e l'odore di albicocca dei suoi capelli si era perso nelle brume di un'infanzia strappata, sostituito dall'amore intenso del tabacco e quello più dolce della sua crema idratante, dal vago sapore di frutta e fiori di campo.
Quando sorrideva, riusciva a percepire una malinconia latente affiorare in superficie, viscosa come miele e altrettanto insidiosa per le mosche delle emozioni che non sapere ancora tenere a bada.
A tratti si sentiva una bambina perduta, a tratti aveva l'impressione di aver vissute sette vite di fila senza mai prendere il fiato tra una e l'altra.
“Probabilmente sono solo paranoica all'idea di invecchiare,” si disse, alzandosi in piedi e recuperando il piatto per posarlo accanto al lavadino ricolmo di pentole in attesa di essere lavate.
Senza nemmeno prendere in considerazione l'idea di pulire o riordinare, agguantò il pacchetto di sigarette e dopo il click dell'accendino inspirò a fondo la prima boccata avida di fumo, lanciando un'occhiata distratta all'orologio appeso sopra il frigo colorato di calamite.
C'erano souvenir che arrivavano da ogni parte degli Stati Uniti, sul quel bianco sporco di ditate, una mappa che ricostruiva tutte gli attimi in cui non erano stati assieme in quegli anni, un disegno così fitti che solo il vederlo le stringeva il cuore in una morsa tenace, lasciandola incredula a chiedersi come avessero fatto a resistere per così tanto, vedendosi così poco.
Ma era tardi per indugiare su pensieri troppi pericolosi, doveva andare al lavoro e negli anni Alec aveva cambiato quasi tutte le cameriere tranne lei, ma non la sua politica di gestione dei ritardi.

 

Qualche ora più tardi, stringeva tra le mani il manico di un boccale di birra ed era assorta al punto da non accorgersi della schiuma che le colava giù da un polso, gocciolando copiosamente sul bancone di mogano scuro del locale.
“Cristo santo, Roxy, che diavolo stai facendo?” la rimproverò Alec, passandole accanto con gli occhi fuori dalle orbite.
L'immancabile dragone tatuato sul suo braccio aveva perso il vigore della gioventù quando i muscoli si erano ammorbiditi in grasso e i colori erano sbiaditi in macchie confuse dentro contorni non più nerissimi.
“Vedi di darti una regola, oggi fai più danni che altro,” proseguì imperterrito il vecchio, strappandole il boccale di mano in malo modo, “tremo al pensiero di mandarti a sistemare le apparecchiature per il gruppo di stasera”.
“Stasera?” cadde letteralmente dalle nuvole “Cazzo, non dirmi che c'è serata oggi!”
“Come ogni mercoledì sera,” le venne fatto presente.
Alex posò un secondo boccale sul bancone, si asciugò le mani su uno straccio dal colore indefinito e si voltò a guardarla, con aria preoccupata.
“Tesoro, cosa sta succedendo?” le chiese, tirando rumorosamente su con il naso.
“Non lo so,” scrollò le spalle lei, “ho la testa tra le nuvole”.
“E' più di una settimana che hai la testa tra le nuvole,” la corresse l'uomo, strizzando gli occhi chiarissimi in due fessure penetranti.
Aveva uno sguardo talmente azzurro che a Roxanne faceva male guardarlo, aveva come l'impressione che potesse andare oltre tutte le sue difese per arrivare al buco silenzioso dove nascondeva i suoi pensieri più segreti, quelli che non aveva il coraggio di bisbigliare nemmeno a se stessa.
“Mh,” borbottò il proprietario dell'Underpass, “vedi di darti una svegliata o la prossima settimana sarò costretto a chiederti di non presentarti proprio.”
Eccola lì, il classicissimo preludio di un benservito che generalmente si presentava puntuale il lunedì della settimana dopo, restituendo alle strade di Los Angeles un'ennesima aspirante stellina del cinema barra modella barra qualsiasi altra cosa fosse dovuto al miraggio di una fama facile e veloce, accompagnata da un uragano di soldi.
Roxy l'avrebbe preso persino sul serio, se non fosse stato che conosceva Alec da quasi metà della sua vita e che l'uomo, nel superarla per servire personalmente al tavolo i due boccali di birra, non le avesse stretto con fare paterno una mano grassoccia sull'avambraccio, bonficchiando qualcosa tra i baffi sempre più bianchi e sempre più folti.
Sapeva, per contro, che se mai avesse voluto smettere di fare la cameriera lì dentro, avrebbe dovuto andarsene via con le sue gambe, dando prova di non essere più la ragazzina spaventata che prendeva meticolosamente nota di tutte le ordinazioni diffidando persino della propria memoria, lo scricciolo magrolino che doveva controllare la propria voce quando parlava con i clienti, per non farla tremare troppo.
Eppure era ancora lì, con un grembiule più moderno in vita e una confusione in testa come non ne aveva da anni, da quando era - per l'appunto - la cosetta timorata del mondo che ancora non aveva mai fumato una sigaretta.
Sapeva persino quale fosse la causa di tanti timori, ma non riusciva a capacitarsi del perché.
Non era la prima volta che succedeva, era capitato che restassero separati per molto più tempo.
Altre volte non si erano proprio parlati di proposito.
Non c'era nulla di strano, nulla che potesse giustificare uno stato d'allarme simile, si disse mentre la porta del magazzino - una fatiscente stanzetta dimenticata da dio che non aveva nulla a che vedere con gli ampi spazi che la parola evocava - cigolava e si apriva docilmente sotto la spinta della sua mano.
Si fece largo tra scatoloni imballati alla meno peggio e pile precarie di lattine di coca-cola per arrivare sul fondo, dove su una serie di scaffali religiosamente ordinati facevano bella mostra di sé cavi arrotolati su se stessi, un sintetizzatore, un paio di amplificatori e i tamburi di una vecchia batteria.
Non è proprio il caso di perdere la ragione o la calma, continuò a ripetersi caricandosi su una spalla il primo amplificatore e una bobina di cavi neri.
Tutto quello che doveva fare era prendere un grosso respiro, rinchiudere Izzy dentro un cassettino e concentrarsi su quello che aveva da fare per evitare che l'intero quartiere finisse in un black-out totale a causa di un suo errore nel collegare le apparecchiature della band ospite.
“Roxy, telefono!”
La voce di Annabeth, aspirante soubrette dal fisico notevole e il quoziente intellettivo di un cucchiaino, le fecero balzare il cuore in gola: rischiando di inciampare su una cassetta di bottiglie di liquore corse fuori dal magazzino e, senza fiato, si fiondò sulla cornetta che l'indubbiamente carina ragazza le porgeva con aria annoiata.
“Un tale dal nome impronunciabile,” annunciò la biondina, masticando rumorosamente una gomma.
Roxanne non la guardò nemmeno, strappandole il telefono di mano e scacciandola con un cenno brusco della mano, incurante delle proteste neanche tanto silenziose che le veniva rivolte.
“Pronto?” esclamò, quasi soffocandosi nelle sue stesse parole.
"Roxy.." la voce di Slash le fece curvare le spalle sotto il peso della delusione.
“Oh, sei tu,” si lasciò scappare, senza nessun entusiasmo, appoggiandosi contro la parete alle sue spalle.
Per un attimo, un attimo soltanto, aveva davvero creduto di sentire il tono roco e sottile di Izzy, si era immaginata il sorriso che avrebbe sentito nelle sue parole e il sollievo era stato tale che la realtà, manifestandosi in tutta la sua crudeltà, si era rivelata insostenibile, una stilettata letale che l'aveva lacerata a metà.
"Merda." fu la risposta del tutto inaspettata del chitarrista, l'ultima che avrebbe voluto sentire.
Si tirò su con uno scatto violento, facendo tintinnare in protesta le bottiglie sistemate in doppia fila sugli scaffali alla sua destra e guadagnandosi un'occhiataccia pericolosa da parte di Alec.
Quasi non si rese conto, però, di come l'espressione dell'uomo cambiò all'istante nell'incrociare il suo sguardo: limitandosi a qualche mugolio stentato, tutto il suo mondo sembrava ridursi unicamente alle parole che Slash continuava a ripetere, una dopo l'altra, con un tatto che - anni dopo, ripensandoci - era una premura che non aveva mai riservato per nessuno, una delicatezza così importante da riempirle gli occhi di lacrime di commozione.
Non seppe mai per quanto tempo rimase al telefono, il tempo era qualcosa di così assolutamente irrilevante che nel momento in cui riuscì a biascicare un ciao stentato potevano benissimo essere passate ore così come solo una manciata di minuti.
Si scosse solo nel momento in cui Alec le venne vicino e le posò un braccio sulle spalle, costringendola a seguirlo via dal bancone, dagli sguardi  stupiti e incuriositi dei pochi clienti del tardi pomeriggio, verso l'ombra e il silenzio della piccola stanza in cui poco prima di pranzo si era cambiata, appena arrivata, puntuale come sempre.
Lì, seduta su una vecchia sedia sgangherata, riuscì finalmente a guardare il suo vecchio amico e bisbigliare con il respiro che già si affannava.
“Se ne è andato, Alec, Izzy se ne è andato.”



PARLA IZZY:
La verità è che non lo so perché me ne andai così, senza dire una parola.
Lasciare i Guns era stato difficile, ma riuscivo a scorgere una certa logica dietro quell'abbandono improvviso.
Lasciare te, invece, non aveva alcun senso.
Sul momento non me ne resi conto, mi dissi che sarei tornata da te quando sarei stato in grado di spiegarti a parole il sollievo che mi riempiva il petto, la sensazione di assoluta libertà che mi faceva sentire come se -dopo anni- fossi di nuovo in grado di essere semplicemente me stesso.
Libero di comporre la mia musica, libero di scrivere senza che sentire sul collo il fiato di giudizio che sapevo sarebbe stato negativo a priori, libero di fare quello che volevo.
Mi sembrava di essere dio e per una volta era così bello abbandonarsi all'arroganza e credere di essere padrone della mia vita al punto da non aver più bisogno di nessuno.
Nemmeno di te.
Non avevo il coraggio di ammetterlo, ma volevo sentirmi libero per un po'.
Per questo me ne andai senza dirti nulla, senza cercarti: credevo che non ci fosse nulla di sbagliato nell'inseguire il capriccio del momento.
Ero così egoista da non rendermi conto che tutta la mia vita si basava su capricci del momento, che non sapevo cosa significasse alzarsi al mattino alle sette e andare al lavoro per dodici ore.
Non avevo mai avuto il problema della mancanza di soldi a fine mese, tutto quello che avevo sempre voluto lo avevo sempre ottenuto senza il minimo sforzo e gli anni in cui davvero era stato difficile, prima di sfondare, erano stati compensati da un periodo d'oro che sembrava destinato a non finire mai.
Mi presi il tempo che credevo di non aver mai avuto e quando finalmente mi sentii pronto a tornare da te era troppo tardi.
Era stato stupido da parte mia credere che mi avresti aspettata, che avresti messo in pausa la tua vita in attesa del mio ritorno e che mi avresti accolto con il tuo sorriso più luminoso, come se nulla fosse.
Fui così arrogante da credere che l'amore avrebbe vinto su tutto, che avrebbe messo a tacere la tua dignità e il tuo orgoglio, che avrebbe zittito ogni cosa.
Fu per questo che quando tornai da te, quasi un anno più tardi, e venni a bussare alla porta del nostro vecchio appartamento trovandomi davanti ad una anziana signora che non conosceva neppure il tuo nome, mi resi conto del mio errore e non trovai più il coraggio di venire a cercarti.
Fino ad oggi.


 

   
 
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