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Autore: Maggie_Lullaby    09/03/2011    7 recensioni
«Il cantante Joseph Jonas è scomparso da quattro giorni. Le autorità sono alla ricerca del ragazzo, che pare essere scappato dopo l'incidente che l'ha coinvolto giorni fa. La famiglia si sta mobilitando in ogni modo per riportarlo a casa e gli chiedono, nel caso stia ascoltando questo messaggio, di tornare dal loro il prima possibile. L'incidente, causa della sua scomparsa, è avvenuto diciassette giorni fa, conseguito con il decesso di...».
[...] Si spettinò i capelli con una mano mentre entrava nel bar dalle luci soffuse, tenendo il capo chino. Gesto inutile, nessuno in un bar lungo un'anonima superstrada del Nevada l'avrebbe mai riconosciuto come Joe Jonas, il ragazzo scomparso.
Correzione: scappato.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Joe Jonas, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Kiss From A Rose


Capitolo 1.

 


Certe notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei.

Certe notti la strada non conta, quello che conta è sentire che vai.

Certe notti la radio che passa sembra aver capito chi sei.

[…] I locali a cui dai del tu.

[…] Non si può restare soli, certe notti.

{Certe Notti; Ligabue}


«Il cantante Joseph Jonas è scomparso da quattro giorni. Le autorità sono alla ricerca del ragazzo, che pare essere scappato dopo l'incidente che l'ha coinvolto giorni fa. La famiglia si sta mobilitando in ogni modo per riportarlo a casa e gli chiedono, nel caso stia ascoltando questo messaggio, di tornare dal loro il prima possibile. L'incidente, causa della sua scomparsa, è avvenuto diciassette giorni fa, conseguito con il decesso di...». Joe spense il televisore e lanciò il telecomando dall'altra parte della stanza, dove cadde sul tappeto con un tonfo sordo.

Si nascose la testa tra le mani, dondolandosi in avanti e indietro sul letto a una piazza, nella piccola stanza del motel in cui stava alloggiando.

«È colpa mia, è colpa mia...», continuò a ripetersi, in un sussurro fioco appena percepibile. Alzò un poco lo sguardo sull'unica finestra della camera, affacciata nel parcheggio semi vuoto del motel, illuminato da qualche auto e dal bar dall'altra parte della strada, da dove proveniva una musica alta, chiacchiericci e risa divertite.

Si alzò, come un automa, e afferrò il giubbotto di jeans, l'unico che si era portato dietro da casa, e uscì sbattendosi la porta alle spalle, senza preoccuparsi di chiuderla o meno a chiave; se anche fosse entrato qualcuno per rubargli qualcosa non gli sarebbe importato, l'unica cosa che davvero gli importava la teneva nella tasca del giubbotto, appoggiata sul cuore. Lì dove doveva stare.

Si spettinò i capelli con una mano mentre entrava nel bar dalle luci soffuse, tenendo il capo chino. Gesto inutile, nessuno in un bar lungo un'anonima superstrada del Nevada l'avrebbe mai riconosciuto come Joe Jonas, il ragazzo scomparso.

Correzione: scappato.

Si sedette su uno sgabello, guardando con la coda dell'occhio gli altri clienti, per lo più interessati al tavolo da biliardo, dove stavano facendo varie scommesse su chi avrebbe vinto e con quanto margine di vantaggio.

«Cosa ti porto?», gli domandò una cameriera dai corti capelli tinti di biondo e un sorriso esausto sul volto giovane, un grembiule nero stretto intorno alla vita.

«Una vodka, senza ghiaccio», rispose Joe, senza guardarla negli occhi e mantenendo la sua attenzione sulla fila di alcolici dietro di lei.

La cameriera annuì e sparì per qualche istante nel retro, tornando con un grosso bicchiere e una bottiglia di vetro vuota a metà.

Non gli domandò i documenti, forse perché davvero dimostrava ventun anni finalmente, o forse perché dalla sua espressione aveva capito che ne aveva davvero bisogno. Magari se nera solo dimenticata, o non le importava, chissà.

Joe guardò il liquido scivolare nel bicchiere, con desiderio, e ne tracannò un sorso non appena la ragazza si fu allontanata. Doveva avere una ventina d'anni, non molti di più.

Si pulì la bocca con il dorso della mano e continuò a bere piano, sentendo il liquido bruciargli la gola. Non era abituato a bere così tanto, aveva cominciato da qualche giorno, non appena era uscito dall'ospedale.

Grugnì quando il bicchiere fu vuoto e fece cenno alla cameriera di riempirglielo di nuovo. Lei ubbidì e tornò a parlare con un gruppo di motociclisti appena arrivato, ridendo; evidentemente li conosceva, non doveva essere la prima volta che si fermavano da quelle parti.

Finì di bere in pochi secondi. La terra aveva già preso a girare intorno a lui, ma sapeva che avrebbe dovuto bere ancora molto prima di riuscire a smettere di pensare.

Smettere di pensare alle grida di quella sera, alle urla di dolore di suo fratello, alle sue, i gemiti di paura, le richieste di un aiuto che tardava ad arrivare. Smettere di pensare alle sue mani imbrattate di sangue, suo fratello che aveva smesso di gridare, lei che non parlava più. Smettere di pensare, poi, alla corsa in ospedale con l'elicottero, il buio, il silenzio, il dolore, le iniezioni e di nuovo il buio. Smettere di pensare alla notizia.

Ed era stata colpa tutta di Joe. Tutta sua, come continuava a ripetersi, sua che non aveva visto quello stupido cane in mezzo alla strada. Era colpa sua se non c'era più.

Trattenne il fiato mentre una morsa gli artigliava le viscere e sentiva il respiro venirgli meno.

La ragazza, che stava ripassando lì davanti, interpretò quel verso come una richiesta di altra vodka e gli prese il bicchiere, versando altro liquido chiaro.

Joe non la ringraziò e bevve mentre le immagini di quel giorno gli affollavano la mente come un filmino in cui non si poteva premere il tasto stop o, peggio, cancel.

«Lasciatelo dire, amico, hai proprio una brutta cera», commentò una voce alla sua sinistra.

Il ventunenne alzò il capo e volto la testa verso la ragazza che stava parlando al suo fianco, con una smorfia sorpresa e perplessa.

La ragazza doveva avere al massimo venticinque anni, dai capelli corti e mori, gli occhi grandi e di un castano particolare, come miele fuso. Era alta e dal fisico esile.

Joe non rispose a quelle parole.

«So che starai pensando», continuò la sconosciuta. «Chi è 'sta pazza, e che vuole dalla mia vita?! Beh, scusa se ti importuno, ma è una serata particolarmente noiosa e non c'è nessuno di interessante con cui parlare. Tu non mi pari un matto maniaco pervertito quindi mi sono detta, perchè no? Comunque, piacere, io sono Matilde», gli porse la mano, senza aspettarsi davvero che lui la stringesse.

Joe annuì ma ignorò la mano, come da copione.

Matilde lo guardò a lungo, annuendo piano.

«Sai, a questo punto dovresti presentarti anche tu», lo informò, con un sorrisetto divertito sul viso affilato.

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo prima di posarli nei suoi, irritato.

«Scusami, Matilde, ma non sono in vena di far chiacchiere. Non sono la persona adatta per passare un'allegra serata in compagnia», riferì nervosamente, bevendo un altro sorso di vodka.

La ragazza incrociò le braccia al petto e continuò a fissarlo, con gli occhi fastidiosamente puntati sul suo viso.

Joe la guardò di sottecchi e si sentì imprecare.

«Che cosa vuoi?!», sbottò.

«Parlare, ti ho detto. Scusa se ti disturbo, ma cinque minuti non ti uccideranno di certo», commentò, sedendoglisi accanto, «anzi, potrebbero addirittura farti bene!».

Il ragazzo sbottò un'imprecazione, guardandola storta.

«Sei il ritratto della simpatia!», rise Matilde, ordinando una birra alla cameriera che, esausta, continuava a fare avanti e indietro.

«E tu della timidezza», fece Joe, inarcando un sopracciglio. Sentiva l'alcool iniziare ad andare in circolo nel suo corpo, mentre il suo mondo iniziava ad essere a colori.

Matilde annuì.

«Dai, solo cinque minuti», lo supplicò ancora, sbattendo gli occhi grandi e montando sul viso un'espressione da cucciolo bastonato che lo fece sorridere appena. «Da noi in Italia c'è un cantante che dice: “non si può restare soli, certe notti”

«Solo cinque», cedette Joe, a quelle parole. Matilde batté le mani contenta. «Dunque, sei italiana», cominciò, incerto. Non sapeva cosa dire, era come se avesse smesso di sapere come si chiacchierava con la gente.

Matilde annuì, scostandosi i capelli dal viso diafano e struccato.

«Di Torino», specificò, vedendolo in difficoltà. «E tu?».

«Los Angeles», rispose automaticamente, pentendosene subito e mordendosi il labbro inferiore con forza, quasi fino a farlo sanguinare.

«Wow, Los Angeles, la Città degli Angeli! Cosa sei, un attore? Un cantante?», scherzò la ragazza, bevendo un sorso di birra.

«Niente del genere», mentì il ragazzo, prontamente. Non voleva che lei sapesse della sua vita, della sua vecchia vita. Sospirò amareggiato e chinò il capo sul bancone lucido, sentendo gli occhi appannarsi, e non era per l'alcool.

Matilde non se ne accorse, o per lo meno finse saggiamente di non averlo visto, continuando a parlare a vanvera.

Joe si passò una mano sugli occhi, asciugandoseli e la fissò. Non riusciva a credere che una persona potesse parlare tanto, doveva essere ubriaca, o aver assunto qualche strana sostanza stupefacente.

«Tu sei tutta matta», mormorò quando Matilde iniziò a parlare di alieni e di vampiri.

Lei corrucciò il viso e fece il labbruccio, incrociando le braccia al petto.

«Mi ritengo offesa. Te ne sei accorto solo ora?». Scoppiò a ridere, cristallina.

E per un attimo Joseph la invidiò per la sua capacità di riuscire a ridere anche dopo ciò che a lui era successo, anche se probabilmente lei nemmeno lo immaginava, o forse lo sapeva ma non le importava.

Lui accennò un piccolo sorriso, come per scusarsi, senza sapere che altro aggiungere.

«Cosa ci fai qui da Torino?», domandò Joe, dopo minuti di silenzio duranti i quali Matilde finì di bere la sua birra e lui guardava la cameriera fare avanti e indietro, indeciso se chiederle altra vodka.

La ragazza scrollò le spalle, alzando le sopracciglia.

«Tra tre mesi mi sposo», spiegò, tranquilla, senza nascondere un sorriso felice.

«E?».

«E questa è il mio addio al nubilato, tre settimane in vacanza on the road in giro per tutti gli Stati Uniti, solo io, la strada, e la mia macchina. Il mio sogno». Nei suoi occhi Joe riuscì a cogliere un debole barlume di felicità.

Quelle parole lo colsero di sorpresa. Quella strana ragazza era in partenza per tutti gli Stati Uniti, solo con la macchina, ciò significava che non doveva mostrare documenti e passaporti all'aeroporto per andarsene o altro. Era completamente libera. E a lui quella libertà serviva.

Quando era scappato dell'ospedale si era portato dietro soltanto i soldi che erano nel suo portafoglio, senza contare le carte di credito. Aveva ritirato tutto quello che poteva al primo bancomat disponibile ma ormai gli restavano un paio di centinaia di dollari, troppo pochi per affrontare un viaggio e rifarsi una vita. E se avesse prelevato altro denaro avrebbero potuto capire dove si trovava. Maledì la tecnologia per l'ennesima volta.

«Interessante», ammise. «E dove sei diretta, ora?».

Matilde parve felice che fosse finalmente lui a fare le domande, e non dovesse essere lei a incitarlo.

«Idaho», rispose, contenta. Guardò l'orologio che aveva al polso. «Anzi, è meglio che vada».

«...Come?», esclamò lui, sorpreso vedendola alzarsi e abbandonare cinque dollari sul bancone, prontamente presi dalla cameriera. «Te ne vai?».

«Sì», annuì la mora. «Preferisco muovermi la notte, c'è meno traffico ed è tutto...», sospirò, «tutto più tranquillo, più calmo. Posso andare alla velocità che voglio!». Rise ancora.

Joe la fissò ad occhi sgranati, mentre la mascella gli cadeva.

«Che c'è?», domandò lei, perplessa vedendolo con quell'espressione e corrugò la fronte, mentre una ruga di concentrazione le rigava il viso.

Il ventunenne lanciò un'occhiata a lei e al bicchiere di vodka, a Matilde ed infine alla porta del bar.

«Posso venire con te?», domandò infine, alzandosi anche lui dallo sgabello.

«Come?!», fece Matilde, gli occhi spalancati dalla sorpresa. «Non mi conosci nemmeno...».

«Non mi importa, hai una macchina e te ne stai andando, è ciò che mi interessa. Posso pagarti, ho circa duecento dollari, spero ti possano bastare», spiegò lui a raffica, determinato come non lo era da troppo tempo.

Matilde lo guardò, muovendo la testa in diagonale, come per osservarlo meglio; guardò la luce nuova che si era impadronita dei suoi occhi, i pugni serrati e le nocche bianche, l'espressione determinata.

E, prima che lui potesse aggiungere altro, annuì piano.

«Non mi interessano i soldi», chiarì immediatamente, «ma sarà un viaggio ancora più avventuroso di quanto mi aspettassi! La ragazza fuori di testa che raccatta un tipo tenebroso e misterioso in un bar su un'autostrada e cominciano un viaggio pieno di insidie», rise. «Devo almeno sapere il tuo nome, Signor Sconosciuto».

Joe annuì, mentre un sorriso di soddisfazione gli solcava il viso.

«Joseph», rispose.

Matilde non si aspettava di sapere anche il suo cognome e sorrise quando scoprì che aveva ragione.

«Bene, Joey...», iniziò.

«Joe», la corresse il ragazzo, mentre il cuore cominciava a battere all'impazzata. «Per favore, chiamami Joe».

La mora alzò le sopracciglia, stupita da quella strana richiesta, e annuì scrollando le spalle.

«Joe, allora. Vai a prendere la tua roba, ti aspetto nel parcheggio» e con quella parole uscì dal locale, con una camminata felina, silenziosa.

Il ventunenne lasciò dieci dollari alla cameriera, sempre più stanca, e corse fuori dal bar il più velocemente possibile, spaventato che quella strana ragazza se ne potesse andare lasciandolo lì.

Per arrivare sino al Nevada aveva utilizzato la moto che gli avevano regalato per i diciannove anni, che utilizzava raramente, ma ora che tutti lo stavano cercando qualcuno avrebbe potuto riconoscere la targa. Non gli importava di lasciarla a prendere polvere in un parcheggio, ormai non gli importava più di niente.

Entrò con la forza di un uragano nella sua stanza e recuperò lo zaino in cui aveva le sue – poche – cose, si assicurò di avere il portafogli in tasca e restò qualche istante a guardare il suo iPhone appoggiato sul comodino. I suoi genitori non facevano che chiamarlo, mandargli messaggi, lasciargli suppliche di tornare a casa sulla segreteria, ma lui non rispondeva mai. Ormai lo teneva spento, eppure lo considerava come l'unico oggetto che lo poteva tenere in contatto con la sua famiglia. Lo afferrò e se lo infilò in tasca, uscendo sbattendosi la porta alle spalle.

Matilde lo aspettava con le braccia incrociate, uno zaino a tracolla colorato e un paio di chiavi in mano, appoggiata a un auto scura.

«Pronto?», fece, dondolando davanti ai suoi occhi le chiavi dell'auto.

Joe annuì, lanciando un'ultima occhiata alla sua moto.

Matilde capì ma non disse nulla. Era del parere che se avesse voluto parlarle di lui l'avrebbe fatto, altrimenti sarebbe riuscita a vivere tranquillamente anche senza simili informazioni.

«Joe, lei è la mia piccola», sorrise la ragazza, indicando la macchina su cui si era appoggiata.

Joe la osservò, era una macchina vecchia, nera, ma ben tenuta. Non riconosceva la marca.

«Aah, la mia Impala, Chevreolet del '67», sospirò armoniosa. «Mi è costata un occhio della testa quindi non osare rovinarmela, va bene? Sei avvertito che non la potrai mai guidare». Bensì il suo tono fosse scherzoso Joe percepì la minaccia.

Alzò le mani, in segno di resa.

«Sissignora», ubbidì.

Matilde sorrise e ed entrò in auto, accarezzando il volante.

Joseph fece un sospiro profondo; non avrebbe guidato comunque, non dopo quello che aveva combinato... e dopo quello che era successo.

Scosse il capo e si sedette accanto a Matilde, osservando l'interno della macchina.

«Ami il rock degli anni '70, vero?», gli domandò lei, infilandosi una felpa a patchwork.

Joe annuì.

«Bene, perché ascolto solo quello», spiegò, sorridente. Infilò le chiavi nel quadro e le girò. Un rombo come di fusa partì da sotto di loro, facendo ridere Matilde.

«Sei sicuro, Joseph?», chiese per un'ultima volta, questa volta seria.

Joe la guardò, e non aveva dubbi nella sua mente.

«Parti», le ordinò.

La ragazza fece un respiro profondo, guardò lo specchietto e ingranò la marcia.


Continua...


Prima che possiate dire qualsiasi cosa, sì, sono tornata. Sono scomparsa da questo fandom da mesi, me ne rendo conto, ma l'ispirazione per I'm Only Me When I'm With You è andata a farsi benedire; a dire il vero tre o quattro capitoli pronti li avrei, ma vorrei scriverne un altro paio prima di ricominciare a postare regolarmente. Se va tutto bene, dovrei postare tra due settimane il dodicesimo capitolo, ma non prometto nulla.

Questa è una mini-long, avrà quattro capitoli che ho già concluso, poiché l'ho iniziata a scrivere la scorsa estate, ma forse la allungherò a cinque. È una storia drammatica, siete avvertite.

Il settimo capitolo di Olive & An Arrow non l'ho nemmeno cominciato a scrivere, ma credo approfitterò delle vacanze di Carnevale nei prossimi giorni per buttare giù qualcosa, sempre che l'Ispirazione mi assista. *guarda il cielo e lo supplica*

Nel frattempo, posterò questa fanfiction, una volta alla settimana, tutti i mercoledì.

Spero mi facciate sapere ciò che pensate di questa fic, commenti sia negativi che positivi sono ben accetti.

Il personaggio di Joe Jonas e relativi familiari non mi appartengono. Tutti gli altri personaggi, invece, sono una mia invenzione e mi appartengono in quanto tale. Questa storia non è stata scritta a fini di lucro.

  
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