Isabella
Swan raccolse lo zaino rosso da terra, e lo
issò sulle spalle.
Guardò
la sua figura riflessa nello specchio per qualche istante, e poi decise che
poteva anche scendere. Quella mattina aveva indossato un paio di jeans bianchi
- rigorosamente regalati dalla sua migliore amica Alice, della marca più
costosa e all’ultima moda -, insieme ad un maglioncino marrone.
Sua
madre Renée la stava aspettando
sull’uscio della porta di casa, nella mano destra teneva le chiavi della
macchina, e nella sinistra stringeva il manico della valigia.
Già,
Isabella sarebbe partita proprio quella mattina, per Londra.
I
soliti scambi culturali che
organizzava
“Allora? Hai preso tutto?” La ragazza sorrise,
scuotendo la testa.
“Sì, ho preso tutto. Possiamo anche andare.” Richiuse la porta
dietro di sé, e lasciò casa Swan alle
sue spalle.
Una
volta salite sul Pick up rosso, con un rombo degno di
quell’autovettura Renée riuscì a
metterla in moto.
“Ricordati di chiamarmi ogni singolo giorno. E non ascoltare tutte le bravate che vorrà
fare Alice, lo sai com’è. Ah, in aeroporto chiama tuo
padre.” Queste erano tutte le raccomandazioni che una madre faceva a sua
figlia, prima che lei partisse per un’intera settimana.
Isabella
sbuffò, quasi infastidita.
Erano
più di due mesi che la donna non faceva altro che preoccuparsi per
quella gita.
“Già,
papà.” Commentò la ragazza, pensando a Charlie Swan.
Il
capo della Polizia di Forks quel giorno aveva il
turno di mattina, e quindi non aveva avuto modo di salutare la sua unica
figlia.
Nonché
preferita, servita e riverita.
“Cerca
di non pesare troppo sulla famiglia in cui andrai, okay?”
“Mamma! Di certo non sarò un peso! Lì vedrò a malapena
per cena o per pranzo. Il resto del tempo staremo in giro per la città.
Lo sai com’è il professor Banner. Musei, Chiese, Musei e ancora
Chiese.” Isabella fece riferimento alla gita che avevano fatto
l’anno prima, dove – appunto -, gli aveva accompagnati Mr Banner, il suo insegnante di Biologia. Non avevano fatto
altro che entrare in un Museo, per uscire da una Chiesa. La sera uscire era
off-limits.
“Allora,
parlami del ragazzo che prenderà il tuo posto per una settimana.”
Isabella trasalì.
“Non
farlo avvicinare hai miei libri. Per nessuna causa al Mondo! Tutte le mie cose
sono intoccabili, chiaro?”
Renée sorrise, notando che sua figlia era proprio come lei.
Gelosa
delle sue cose, fino alle radice dei capelli.
“Va
bene. Allora, com’è?”
“Non
lo so. Dalla foto non sembrava poi tanto male. Trattalo
bene!”
“Oh,
sono sicura che a Forks si divertirà
molto!”
Isabella
roteò gli occhi verso il cielo.
“So
che a Forks non c’è molto da visitare, e
forse anche lui starà hai domiciliari
per colpa dei suoi insegnanti.” Commentò, sistemandosi una ciocca
di capelli dietro l’orecchio. “Ma ciò non toglie che deve
ficcanasare nelle mie cose!”
La
signora Swan rise di gusto, questa volta.
“Tesoro,
non ti preoccupare! Oh, guarda là! Ashley!”
Erano
finalmente arrivate a Port Angeles, dove fuori all’aeroporto
c’erano i primi alunni, accompagnati dai genitori.
E
ovviamente non poteva mancare Mr Banner, con gli
occhiali posati sul naso ed un foglio in mano, che contava le presenze.
Renée indicò con l’indice la signora Brandon,
mamma di Alice.
Le
due donne erano amiche da quando avevano segnato le loro figlie allo stesso
asilo. Poi alle elementari, medie e scuole superiori.
Insomma,
anche Alice ed Isabella si conoscevano da sempre.
“Niente
commenti imbarazzanti, ti prego!” Implorò Isabella, adottando lo
sguardo dolce verso sua madre.
“Oh,
non ti preoccupare. Scendo con te!”
“No!
Mamma, dai! Cosa ti cambia? Ti saluto qui, va bene? E poi il Banner ti ha
chiarito tutto alla riunione, giusto? Quindi ti prego, vai.”
Sua
madre sbuffò, scoccandole un’occhiata eloquente. “Non ti
preoccupare. Starò benissimo. Ti chiamerò appena metterò
piede in Inghilterra!”
Lo
sguardo da cane bastonato non aveva lasciato il piccolo viso di Isabella,
finché Renée Swan
fece un cenno affermativo con la testa.
Sua
figlia l’abbracciò si slancio, schioccandole un bacio al centro
della guancia.
“Va bene. Ci sentiamo dopo!” La ragazza annuì,
prendendo la valigia e lo zaino, e uscendo dal Pick
up.
La
signora Swan salutò con la mano destra Ashley Brandon, che ricambiò con un sorriso.
Intanto
Isabella era stata travolta dall’abbraccio della sua migliore amica, che
era lì da tre quarti d’ora.
“Perché
sei già qui?”
“Oh,
non sono riuscita a dormire per tutta la notte! Non ne potevo più di
stare a casa! Così mi sono
fatta accompagnare da mia madre!” Bella lanciò un’occhiata
ad Ashley, che rispose con un’alzata di spalle e un sospiro.
Alice
era talmente eccitata, che non faceva altro che girare in largo e tondo per
tutto l’aeroporto, lanciando sorrisini anche al signor Banner, che ogni
tanto rilasciava un sospiro d’esasperazione.
La
sua migliore amica avrebbe fatto diventare quella gita un supplizio, per quel
povero docente.
Verso
le otto e trenta – orario stabilito per
l’incontro in aeroporto con tutti gli studenti -, Mr
Banner chiamò tutti all’appello.
Ovviamente
tutti presenti, visto che appena c’era un’occasione per andarsene
da Forks, erano tutti con la mano alzata.
“Allora ragazzi, spegnete tutti i cellulari. Chiamerete i vostri genitori quando atterreremo,
per informarli che torneremo Domenica sera alle venti.”
Guardò tutti, soffermando il suo sguardo sulla figura esile di Mike
Newton, che stava sicuramente parlando al telefono con la sua fidanzata Jessica
Stanley.
Erano
diventati praticamente inseparabili da quando si erano fidanzati, soltanto che
Jessica frequentava il quarto anno. Visto che Mike era stato rimandato.
Con
un’occhiata ammonitrice Banner fece chiudere la chiamata a Newton
immediatamente, mentre la fronte del ragazzo iniziava a imperlarsi di sudore.
Succedeva sempre così, quando era agitato. “Il
numero dei vostri posti è scritto sui biglietti. Vedete di non
perdervi.” Con un cenno della mano Banner invitò tutti i ragazzi a
seguirlo, per fare il check-in. Il volo era previsto per le
nove e trenta, dato la mandria di studenti che si stagliavano dietro a
quel professore cinquantenne, e che avrebbe dovuto tenerli d’occhio tutti
quanti, per un’intera settimana.
Ovviamente
Isabella ed Alice avevano due posti attaccati, vicino ad un altro ragazzo:
Jasper Whitlock.
Anche
Jasper conosceva Bella dalle elementari, se è per questo anche Alice,
soltanto che lei non l’aveva mai degnato di un’occhiata.
E
lui aveva una cotta madornale per Alice, dalle scuole medie.
“Jazz!”
Isabella lo salutò, con un sorriso, accompagnato da un cenno del capo.
Alice
non l’aveva nemmeno guardato in faccia. Troppo impegnata a riuscire ad
infilare il beauty case in alto, alzandosi fino alla punta dei piedi.
Una
volta compiuta la sua missione, - con i capelli più scompigliati di prima -, si sedette vicino alla sua amica.
Il
volo durò relativamente poco.
Alice aveva sfogliato ben sette riviste di moda, leggendole pagina per pagina.
Anche
Jasper stava leggendo, ma al contrario della sua cotta madornale, un buon libro.
Isabella
aveva dormito per tutto il viaggio, con le cuffiette del suo i-Pod piantate saldamente nelle orecchie.
Atterrati,
e sotto la supervisione di Mr Banner, uscirono
dall’aeroporto.
Soltanto
nel momento in cui Bella mise piede sulla strada, si rese conto che era a
Londra. Non era rintanata in quella piccola cittadina in cui viveva da diciassette
anni, ma era in Inghilterra!
“Ascoltate!
Vedete tutte quelle persone vicino a quel pullman verde? Bene, loro sono le
famiglie che vi ospiteranno. Una famiglia per ogni alunno. Forza, prendete il
cartellino che vi ho distribuito a scuola, e mettetelo ben in evidenza!”
Il ‘cartellino che
vi ho distribuito’ a scuola consisteva in un foglietto striminzito,
dove sopra c’era scritto il nome della famiglia.
Così
da riconoscersi reciprocamente.
Isabella
tirò fuori il suo dallo zaino, e lo mise davanti al suo petto,
imbarazzata.
Non
come Alice, che aveva iniziato a sventolare quel foglietto in alto,
finché una donna bionda e con un sorriso dolce le si avvicinò.
Bene,
Alice aveva trovato la sua famiglia
per quella settimana.
Isabella
tirò un po’ più su quel foglietto, in mezzo a tutta la
confusione che si era creata.
Finché
una donna si avvicinò anche lei, con i capelli color caramello e gli
occhi color nocciola.
Un
sorriso da far invidia a quello che aveva riservato poco prima la finta mamma di Alice.
“Isabella,
giusto?” Chiese, mentre la ragazza annuiva distrattamente.
“Io
sono Esme.” Sorrise ancora, quasi raggiante.
“Esme Cullen.”
Sospirò
sollevata.
Aveva trovato la sua famiglia per quella settimana.
La famiglia Cullen.
Esme
Cullen era una donna simpatica, educata e guidava bene.
Sì,
guidava bene. Perché Renée Swan non guidava bene. E Isabella non poté fare a
meno di notare quel particolare.
Il
viaggio in macchina durò poco più di mezz’ora, con qualche
domanda qua e là.
Casa
Cullen non era poi tanto male.
Una
villetta modesta, con due piani e tre bagni.
Insomma,
un po’ più grande di casa Swan.
“Mio
marito tornerà verso le nove.” Esordì Esme,
dopo aver mostrato ad Isabella la sua stanza temporanea. “Questa sera
saremo io e te a cena. Se vuoi puoi farti una doccia.
Quello è il bagno di mio figlio.” Indicò una porta che
stava all’interno della stanza. “Sarà tua per tutta la
settimana.”
“Oh,
grazie. Grazie per tutto, Esme.”
“Non
ti preoccupare, tesoro. Puoi farti una doccia, ti
chiamerò quando è pronta la cena.”
Isabella annuì, chiudendo la porta dietro di sé dopo che la
signora Cullen aveva finito di scendere le scale.
Avevano
parlato poco di suo figlio.
Sapeva
che era un fanatico del Basket. Nonché capitano della squadra della sua
scuola. Ma si poteva intuire benissimo anche da tutti i poster che contornavano
la sua cameretta, con un canestro pitturato su una parete blu.
Cuscini
disparsi su tutto il letto, rigorosamente matrimoniale.
E
si chiamava Edward.
Una fanatico
del Basket, che si chiama Edward e forse è anche spocchioso, pensò Isabella. I suoi a Forks avrebbero avuto molto da fare.
Entrò
nel bagno, e aprì l’acqua calda. Aspettò un po’, e
poi diede inizio ad una doccia infinita. Passò per due volte lo shampoo
nei capelli, mentre l’acqua bollente scorreva sul suo corpo, rilassandole
tutti i muscoli.
Uscì
dopo una decina di minuti, asciugandosi con l’accappatoio che si era
portata da casa. Sapeva benissimo che tutti gli asciugamani che stavano in quel
bagno erano rigorosamente puliti e profumati, ma non si separava mai dal suo
accappatoio. Come dalla sua copertina rossa di pile.
Indossò
il pigiama, - composto da una maglia extra large di Charlie, e da un paio di fuseaux neri -, e
appena finì di indossarli, Esme la
chiamò dal piano inferiore.
Decise
di scendere con i capelli umidi, ci avrebbe pensato dopo.
Quando
sentì l’odore che proveniva dalle scale, un certo languore si
impossessò di lei. E si rese conto che non mangiava da quella mattina,
prima della sua partenza.
“Non
sapevo cosa cucinare”, disse Esme, passandosi
una mano sui capelli. Isabella posò lo sguardo sulla tavola
apparecchiata, dove c’erano prelibatezze di ogni genere.
Pollo,
carne, patate, insalata e quant’altro. “Allora mi sono permessa di
cucinare un po’ di tutto. Poi mi dirai cosa ti piace, e lo
cucinerò domani.”
“Oh, Esme, non
dovevi preoccuparti. Mangio di
tutto.” Disse la ragazza, sedendosi dinnanzi alla signora Cullen.
“Isabella,
mio figlio mangia tutto.”
Spiegò Esme, con sguardo eloquente. Per poi
iniziare a mangiare. Anche la ragazza si servì un po’ di carne,
insieme a dell’insalata.
“Allora,
parlami un po’ di Forks!”
“Non
c’è molto da dire. Cittadina piccola, fredda e piove sempre.”
La
donna sorrise.
“Beh,
almeno sei abituata al freddo.”
“Già.”
La
cena continuò in religioso silenzio, mentre Isabella assaggiava un
po’ di tutto, complimentandosi sempre di più con Esme.
“Dopo dovrò chiamare Edward. Sicuramente anche lui sarà arrivato. E i tuoi genitori che lavoro fanno?” Si ricordò in
quel momento che lei non aveva chiamato Renée.
Che l’aveva raccomandata all’infinito.
“Oh,
anch’io dovrei chiamare mia madre.” Disse, dando voce hai suoi
pensieri. “Allora, mio padre è lo Sceriffo di Forks.
Mia mamma lavora in un negozio, a Port
Angeles. Dista poco da Forks. In macchina ci vuole
una mezz’ora.”
“Capo della Polizia! Spero che Edward si comporti
bene!” Isabella sorrise, pensando già alla strage di cuori che
avrebbe fatto quel ragazzo in quella piccola cittadina.
Non
aveva mai visto Edward, ma da come si
descriveva, era un tipo da strapazzo. Capitano della squadra di Basket, combina
guai perennemente… insomma, Bella si era già fatta un’idea.
“Esme, tutto quello
che hai cucinato era squisito. Ma forse ora dovrei andare a chiamare mia madre, sai
com’è…” Apprensiva,
ripetitiva, rompi palle e molte altre cose, avrebbe voluto aggiungere Bella.
“Certo, cara. Non ti preoccupare. Anch’io chiamerò
Edward, ora. Se ti serve qualcosa, scendi. Quella è la mia camera.”
Con un dito indicò una porta a destra, proprio vicino all’entrata.
“Resterò qui fino all’arrivo di Carlisle.”
Concluse, alzandosi anche lei.
“Allora
ci vediamo domani.”
“Ti
sveglierò alle sette! Buonanotte, Isabella.”
“Buonanotte,
Esme. Grazie ancora.”
“Cos’è
che non hai capito nella frase ‘Chiamami appena arrivi?’” Renée Swan non era
arrabbiata, ma completamente furiosa.
“Mamma,
scusa! Ho chiacchierato con Esme, mi sono fatta una
doccia e poi abbiamo cenato insieme. Scusa.”
Un
sospiro, dall’altro capo del telefono.
“Okay. Insomma, com’è lì?”
Isabella sorrise.
“Tutto
perfetto. La signora Cullen è molto gentile.
Non ho ancora conosciuto il signor Cullen, è a
lavoro. Invece lì?”
Dopo
qualche minuto di silenzio, sua madre rispose.
“Edward
non ha fatto altro che curiosare nelle tue cose. Io gli ho detto di non toccare
i tuoi libri, ma-”
“Ma cosa, mamma? Dio, quante volte te l’ho ripetuto,
è? Oh, Dio!” Quasi urlò, presa da
una rabbia ceca.
“Stupida.
Ho chiesto gentilmente a Edward di non ficcanasare nelle tue cose. E’
proprio un bel ragazzo. E’ stato gentile e educato per tutto il tempo, ed
ora è insieme a tuo padre sul divano, e stanno urlando per una partita
di Basket.”
La
ragazza sgranò gli occhi, dall’altro capo del telefono.
“Cosa?”
“Già. Hanno fatto subito amicizia, ed è iniziato
tutto quando Edward ha ammesso di essere il capitano della squadra di Basket.
Nemmeno voglio dirti com’è andata la cena. Non
hanno fatto altro che parlare di Basket, Football e tutti gli sport che ci sono
al Mondo!” Renée era esasperata, ed
avrebbe dovuto sorbire tutto quello sport per un’intera settimana.
Charlie
amava lo sport, ed ora che aveva un appoggio maschile l’avrebbe sfruttato
al meglio.
Isabella
nascose una risata soffocata.
Poi
un signor sbadigliò le fece lacrimare gli occhi.
“Vai
a dormire, tesoro. Ci sentiamo
domani, va bene?”
Non
le diede il tempo di replicare. “Non ti scomodare. Ti chiamerò
io.”
“Va
bene, mamma. Buonanotte.”
“Buonanotte.”
Chiuse
la chiamata, sdraiandosi sul letto. Le coperte erano calde e profumate.
Così
li chiuse, cadendo tra le braccia di Morfeo.
Non
si accorse di quanto tempo era passato, - forse cinque minuti, o forse erano
già le sette, quando il suo cellulare iniziò a squillare.
Aveva
freddo.
Per
la stanchezza non si era messa sotto le coperte, non aveva messo la sveglia e
nemmeno spento il cellulare.
Appunto, il cellulare.
Lo
prese, convinta che fosse sua madre. Non guardò l’ora, e nemmeno
chi era.
“Pronto?”
“Pronto?”
Una voce maschile, dall’altro capo del telefono.
Si
stropicciò gli occhi, girandosi sul lato destro. “Chi sei?”
Chiese, ancora.
“Chi
sei, tu?” Domandò Bella, sbadigliando sonoramente.
“Edward.”
Questa volta, la ragazza sbarrò gli occhi.
“Cullen?”
“Mi
conosci?”
“Oh,
Dio. Ti sei fatto dare il numero da mia madre?”
“Io
non conosc… Oh… Oh! Tu devi essere
Isabella. Quella bella ragazza dagli
occhi come i cerbiatti, e i capelli che le ricadono in onde morbide sulla
schiena.”
“Come,
scusa?”
“Tuo
padre stasera mi ha descritto una radiografia dettagliata sul tuo viso, i tuoi
capelli, i tuoi occhi, le tue labbra e il tuo corpo. E dalle foto devo dire che
non sei niente male.”
Isabella
pensò che quello fosse un incubo. Dormire nella camera di quel ragazzo
non era affatto salutare.
“Ripeto:
chi ti ha dato il mio numero?”
“L’ho
trovato nella tua camera. Su un foglietto.”
Bella
sbuffò. “Quel foglietto era diretto a mia madre!”
“Io
credevo che fosse diretto a me. Un ragazzo si stabilisce a casa tua,
così tu gli hai lasciato il tuo numero su un foglietto, per far si che
il tutto diventi sempre più intrigante.”
“Smettila.
Aspetta… che ore sono?”
“A
Forks le due di notte.”
“E
tu alle due di notte telefoni a una perfetta sconosciuta?”
“Dormo
nella tua camera, quindi non sei una perfetta sconosciuta.”
“Ti
prego!”
“Dimmi
pure!”
Faceva
uso di sostanze stupefacenti? Droga, sonniferi o medicinali
scaduti?
“Facciamo
una cosa. Questa telefonata non è mai avvenuta, è solo frutto di
un mio sogno. Un incubo. Ora tu vai a dormire, okay?”
“Okay,
mamma.”
“Ciao
Edward.”
“Aspetta,
aspetta!”
“Che
c’è?” Domandò Isabella, mentre gli occhi non ne
volevano saperne più niente di richiudersi.
“Salutami
mia mamma.”
“Addio,
Edward.” Così mise definitivamente fine alla comunicazione.
*
NOTE:
Chi non muore si rivede!
Ero convinta che non
sarei più tornata qui. Insomma, dopo le ultime fanfictions che ho scritto le idee sono evaporate, come la
voglia di scrivere.
Questa fanfiction
è nata per caso, e nemmeno so come andrà a finire. Però vi
assicuro che tra un impegno a l’altro,
riuscirò a mettere la parola Fine.
Vi lascio alle vostre supposizioni da primo capitolo, e poi
spiegherò tutto man a mano che la storia andrà avanti.
CAPITOLO:
- Non so quanto dista Forks da Londra. Non so nemmeno se c’è il fuso
orario. Quindi, mi scuso anticipatamente per la mia ignoranza.
- Come avrete capito da voi, Isabella
è a Londra (a casa di Edward), e Edward è a Forks
(a casa di Bella.)
Vi lascio. Al prossimo capitolo!