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Autore: KH4    11/05/2011    4 recensioni
Il mio sogno è trovare un sogno. Cercarlo significa vivere? Non lo so perchè io non so se ho il diritto di questa mia vita o di questo mio desiderio. Non so cosa sia un sogno ma lo desidero così tanto perchè forse può darmi la felicità che non ho. Anche se cammino, respiro, osservo...sto forse vivendo come dovrei fare? Non lo so.Ho paura a trovare la risposta.Ho paura a guardare indietro. Ho paura di quello che sono. Ma io....chi sono?(prologo del cap.14).
La vita di Ace prima ancora che entri a far parte della ciurma di Barbabianca e durante la permanenza sulla nave di quest'ultimo, accompagnato da un dolce ragazza dal passato oscuro e ingiusto. Buona lettura a tutti!(introduzione modificata)
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Barba bianca, Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ben ritrovati! Questo sarà il mio ultimo aggiornamento, giusto un capitolo che trovavo saggio mettere data la situazione e per chiudere in bellezza questa mia prima long fiction. Beh, cosa posso dire….godetevi il mio ultimo capitolo, ragazzi ^^!

 UTADA HIKARU: SIMPLE AND CLEAN.


Una volta all’anno cadeva una ricorrenza speciale, dove una o più persone stavano al centro dell’attenzione, venendo riempite di festeggiamenti e doni come fossero dei principi o dei re di ritorno da una grande battaglia vittoriosa. Quel giorno era tutto per loro non perché si celebravano onori o imprese, ma semplicemente perché si nasceva una sola volta nella vita e di conseguenza, di compleanno ce n’era uno solo.
Forse per la gente comune quel particolare momento dell’anno rappresentava un validissimo motivo per essere più allegri del solito, ma per Ace Pugno di Fuoco, quel giorno non era nulla per cui valesse la pena di sorridere. Ciò lo incupiva e la sua indifferenza col passare del tempo si era tanto affilata e indurita da rinchiudercelo dentro come fosse una bara indistruttibile, più dura e splendente del diamante, ma grigia quanto la cenere. Spessa fino all’inverosimile, quella sorta di protezione – se la si poteva chiamare tale - per lui era il rifugio dentro cui rimanere fino alla venuta del nuovo giorno, una specie di fortino costruito sopra l’albero più alto del bosco, la cui unica debolezza era l’essere vulnerabile al gelo del primo dell’anno.

Si, Portuguese D. Ace era nato il primo Gennaio, giorno dove tutti incondizionatamente festeggiavano tradizioni di cui forse solo gli più anziani ne ricordavano l’origine.

In quel periodo l’inverno era all’apice della sua venuta, nessuna forma di verde poteva fare a meno di afflosciarsi e spogliarsi della propria chioma. Perfino le foglie secche cadute in autunno ne risentivano: bastava un semplice tocco e subito si distruggevano in tanti pezzettini la cui importanza non avrebbe mai toccato l’animo di una persona.
Faceva freddo in quella stagione, incredibilmente freddo: la natura era letteralmente morta, il vento, tagliente quanto le lame di un rasoio, la neve tanto alta da arrivare fino alle ginocchia, ma se mai avesse potuto, Ace si sarebbe lasciato volentieri sotterrare dalla soffice coltre bianca che arrivava anche a sciogliere l’azzurro del cielo, fino a non sentire più il proprio corpo. Tutta la sua esistenza si ammassava lì e per forza di cose ci aveva a che fare nonostante preferisse di gran lunga andare oltre, ma poiché sapeva, proprio perché era cosciente della ragione per la quale quel giorno lo riguardava così tanto, che non poteva scappare. Proprio perché era consapevole, che i ricordi in quella data si ribellavano al suo controllo e lo tartassavano fino a fargli affondare la testa nelle mani. I sentimenti a cui era incapace di dare un nome si amalgamavano fra di loro, dentro di lui, ripetendo lo stesso meccanismo fino a farlo sembrare nauseante: non si era mai aspettato di vederci qualcosa che ispirasse felicità, dall’apice di quella spirale ripetitiva finiva sempre per sgorgare una freddezza così pungente da fargli ripudiare perfino quella poca simpatia nei confronti della bianca e ingenua neve.

In quell’occasione, quasi fosse inevitabile,  Ace si lasciava trascinare senza fatica, senza opporre resistenza, venendo sballottato qua è la come fosse una pezza di nessun conto. Si parlava della sua anima in quel caso: esternamente lui stava ad osservare un punto indistinto dell’oceano, su una rupe che gli evitasse di udire il vociare del villaggio vicino. A quel suono tanto fastidioso preferiva il fruscio del vento e il silenzioso eco delle onde, vitali toccasana per il suo spirito.
Non c’era specialità nel giorno del suo compleanno, solo un’immagine sfocata dove grossi petali di ibisco cadevano a terra uno dopo l’altro fino a far rimanere il gambo verde completamente nudo. Troppo amare erano le voci e le memorie che tornavano a galla e il solo modo che Ace aveva per combattere quelle ore era provare così tanta indifferenza nei confronti di tutto ciò che lo circondava, da arrivare ad allontanarsi anche da chi si preoccupava per lui.
 



Primo Gennaio.
Isola di Mairene, nuovo mondo. Ore 22.45.

Meno di due ore. Meno di due ore e quel giorno sarebbe finalmente finito.
Tra tutti i possibili momenti, il tempo aveva deciso di prendersela comoda proprio quel giorno, nemmeno avesse fatto le valigie e fosse andato in vacanza. E dire che quando ci si divertiva solitamente questo tendeva proprio a scivolare via, mentre quando si era nel bel mezzo di un tempesta o di una qualunque altra situazione per cui si sarebbe benvoluto essere da tutt’altra parte, non si faceva manco vedere o sentire.
In vent’anni, anzi, vent’uno, Ace non aveva mai capito come accidenti funzionasse questo benedetto tempo ne perché quei suoi pochi e conosciuti meccanismi collegati alla vita fossero tanto enigmatici da far girare le scatole ai uomini.

Chissà se fra i tanti scienziati della Marina ce n’era qualcuno che si occupasse di studiarlo assieme alle sue peculiarità…..

Ok, sto decisamente diventando pazzo. Decretò Pugno di Fuoco mentalmente.

Ci mancava solo che immaginasse un gruppetto di scienziati con camice bianco e grossi occhiali tondi, ben fermi davanti a una grossa lavagna nel mentre cercavano di confutare ipotesi incomprensibili.

La Moby Dick era approdata su quell’isola temperata circa una settimana e mezza fa, giusto in tempo per vedere gli abitanti impegnati nei preparativi per l’ultimo dell’anno. Essendo quello un territorio del Re dei Mari, la Marina non ci pensava minimamente a rompere le scatole, specie durante le feste, ma anche se fossero arrivati i marziani a invadere il mondo, l’umore di Ace non sarebbe mutato. Con cadenza regolare, l’uno Gennaio era arrivato e di conseguenza, Pugno di Fuoco aveva fatto eclissare sotto il bel cappello arancione il suo sorriso sghembo dai tratti tipicamente furbeschi ma anche se quella tanto odiata data era agli sgoccioli, il parassita del malessere non se ne era ancora andato: continuava a mangiarlo interiormente, di gusto, con una lentezza  esasperante e anche in quel caso, il pirata dalle guance lentigginose, sapeva il perché.

Aveva vuotato il sacco coi suoi fratelli, aveva confessato chi fosse il suo padre biologico.
Con tutta la ciurma riunita nella sala grande, proprio la sera antecedente al loro attracco a Mairene, aveva dato voce a quella ragione per cui provava una colpa tanto grande da risultare inspiegabile ai suoi compagni.
L’aveva detto, senza troppi giri di parole o fronzoli. L’aveva detto per poi andare nella sua stanza come se si fosse lasciato alle spalle una voragine dalle dimensioni sproporzionate.
Il ripensarci l’avrebbe dovuto istigare a prendere quel bicchierino pieno di liquore ambrato per lanciarlo contro il muro o a ingoiarlo tutto d’un fiato ma, come per i tentativi precedenti, questo si dissolse nell’oblio, lasciando che il semplice e vacuo osservare di lui continuasse ad essere l’attività di fine serata.

Da una rupe isolata dal resto del mondo era passato a una locanda con tanto di bar sfollato nella periferia del minuscolo paesino.
La folla stava ancora festeggiando in piazza il primo dell’anno e gli unici passanti che si intravvedevano dalle ante dell’entrata andavano verso il centro eccitati come bambini. Con fuori i lampioni accesi e dentro un oste baffuto piuttosto in là coi anni che riassettava le bottiglie di alcolici, Ace se ne stava seduto al bancone con gli avambracci incrociati e la testa appena china, coi occhi neri che guardavano i riflessi luccicanti del rhum non ancora toccato. Si trovava a terra da diversi giorni e non aveva dato sue notizie ai compagni, salvo un biglietto sui cui aveva scritto di non preoccuparsi e che sarebbe tornato prima della partenza. Ma il problema stava proprio nel tornare. Era fuggito dalle loro espressioni senza neppure vederle e non avrebbe biasimato la rabbia di alcuni dei alleati di Barbabianca se questi avessero deciso di affrontarlo pesantemente; non era certo un segreto che molti si fossero visti costretti a rinunciare al primo posto poiché già preso dal suo genitore e qualcuno si era così fatto assalire dalla sconfitta da non uscire più dal tunnel della vergogna. Benchè fosse stato cosciente di come le cose sarebbero andate non appena avesse rivelato quel particolare della sua vita che solo lui, il vecchio, Rufy, Sayuri, il suo capitano e gli alti esponenti della Marina conoscevano, Pugno di Fuoco aveva deciso di dire la verità una volta per tutte.

Non a tutti veniva destinato il patibolo di Marineford e dopo il suo soggiorno a Impel Down, seguito dal suo salvataggio, aveva avuto molto tempo per riflettere sul suo ruolo all’interno della ciurma di Barbabianca, scoprendo che quella parte di sé, accuratamente seppellita sotto interi di strati di felicità, non sarebbe mai scomparsa del tutto.

“Come mai quella faccia truce, ragazzo?” gli domandò l’oste guardandolo con la coda dell’occhio “Non dovresti essere a festeggiare coi tuoi amici?"

Nel suo sistemare ogni tanto aveva posato più volte lo sguardo su quell’unico e giovane cliente a cui aveva affittato una camera e che ancora non si era accinto a bere nemmeno un goccio di quello che aveva ordinato, trovando il suo comportamento alquanto inusuale considerata l’aria di festa che aleggiava nell’aria.

“Diciamo che per questa volta preferisco passare” gli rispose il moro laconico senza interrompere il suo osservare nel bicchiere.

In verità, aveva lasciato passare per tutti gli anni della sua vita, almeno quelli che ricordava e avrebbe continuato a farlo.
Dall’alto della sua età, l’oste della locanda era un tipo che con le sue esperienze poteva essere definito abbastanza saggio da non doversi stupire se un ragazzo, per dimenticare i problemi attuali, sceglieva di ubriacarsi con quello che c’era di più forte a portata di mano, tuttavia la natura delle angustie del suo cliente straniero parevano essere molto più profonde, totalmente al di fuori della sua portata e forse il consiglio sbagliato non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Poteva stare zitto, finirla lì e lasciare che il ragazzo continuasse a fare la bella statuina sullo sgabello…oppure poteva cercare di rompere quel suo silenzio emotivo prima che non riuscisse più ad uscirne, visto che pareva non essere in grado di trovare la via da sé.

“Se hai un problema non penso che quello ti faccia bene” gli disse indicando il rhum “Finisci solo per vomitare, avere il mal di testa e una nausea coi controfiocchi”
“E’ vero, ma è bravissimo a far dimenticare le brutte giornate” mormorò Ace inclinando la testa per vedere i minuscoli riflessi liquidi e dorati cambiare angolazione.
A me ne servirebbe come minimo un bastimento intero…..

Sarebbe stato disposto anche a sopportare tutti i dolori del mondo, perfino quelli femminili purchè la sua mente non gli facesse ricordare quanto c’era di marcio nel suo sangue.

“Meglio che tu non ci faccia troppo affidamento. Troppo fa male alla salute e non sarebbe bello che un giovane come te, a meno di trent’anni, si giocasse il fegato così stupidamente” tornò l’uomo.
“Allora lei dovrebbe cambiare mestiere visto quel che vende” replicò il moro, abbozzando un minuscolo cenno di sorriso senza però staccare gli occhi socchiusi dal bicchiere.
“Non ci penso manco morto: guadagno decisamente bene e quelli che vengono qui non hanno nulla da perdere al contrario di te”

Ace non aveva chiaro il perché stesse parlando con quell’uomo, ma il non provare ostilità o fastidio per l’essere stato interrotto nel bel mezzo della sua personale contemplazione rivolta al bicchiere, gli fece finalmente alzare le iridi nere su quell’individuo che stava al di là del bancone, avente qualche striscia biancastra solcante la capigliatura scura.
 
“Che le fa credere che io abbia qualcosa?”
“La tua stessa cupezza” gli rispose come se stesse aspettando proprio quella domanda “Uno non va mica in giro con la faccia da morto stampata in faccia per niente. Se fossi vuoto come il portafoglio di qualche furbastro di mia conoscenza, mi avresti già svuotato l’intera credenza” si fermò un attimo per squadrarlo con la testa inclinata su di un lato “Anche se tu non mi sembri avere l’aria di un accanito bevitore” aggiunse poi.

In un qual modo l’uomo ci aveva azzeccato: Ace non era certamente il tipo di persona che sdegnava un bel boccale di birra ma i liquori forti non lo avevano mai attirato particolarmente. Certo, il loro profumo era irresistibile, ipnotico, creato appositamente perché deliziasse i nasi sopraffini, ma in tutta franchezza il moro, fino a quel momento, non aveva avvertito alcuna attrazione per questi. Se da una parte poteva preservare la salute fisica - e di questo ne era contento - dall’altra non poteva fare a meno di chiedersi se quel senso inebriante che racchiudeva le mille fragranza con cui l’alcolico era stato prodotto, fosse così dolce e amaro allo stesso tempo, da arrivare a cancellare anche le memorie più ostiche. Gli sarebbe bastato anche un misero effetto temporaneo, giusto per guadagnare qualche ora di sano sonno e per allontanare di un altro po’ il tanto temuto ritorno alla nave. Se ci fosse stato un secondo Ace lì affianco a lui, quello dei altri trecentosessantaquattro giorni dell’anno, che proprio non degnava attenzione al primo Gennaio, come minimo gli avrebbe dato del codardo e del vile per l’essere scappato così vigliaccamente dai problemi. Le questioni erano fatte per essere risolte e lui, conosciutissimo per la sua testardaggine nel portare a termine quanto iniziato, davanti a quell’oste era tutto fuorché il comandante della seconda flotta di Barbabianca. Già era un miracolo che non si fosse verificata una pioggia di banane o pomodori, ma Ace sapeva che anche se quella giornata sarebbe passata, tra un altro anno l’avrebbe dovuta riaffrontare.

E inoltre…ora la sua identità non era più un segreto…..

Non sarà più come prima. Si ritrovò a pensare chiudendo gli occhi.

Era una consapevolezza che si era fatta strada di sua spontanea volontà, di cui lui aveva preso pienamente coscienza nel momento in cui si era alzato da tavola per dire quella cosa tanto importante. Ora non c’erano più misteri sulla sua figura, non c’era nient’altro, ma quel poco nascosto era sufficiente perché sulla Moby Dick gli sguardi cambiassero angolatura o espressione nei suoi confronti. E lui aveva paura di quei cambiamenti più della morte stessa. Non voleva che tutto ciò che lo circondava cambiasse, ma non era altrettanto giusto continuare a far finita di niente. La verità, per quanto giusta, aveva sempre un caro prezzo da pagare e Ace aveva messo in palio molto di quanto teneva; non poteva tornare indietro, ne tanto meno andare dai suoi compagni e dire che aveva scherzato solo per il gusto di vedere le loro facce shoccate. Come si era detto prima di accettare di essere un membro della ciurma del Re dei Mari, si poteva solo andare avanti.

Peccato, che il farlo in certi momenti fosse veramente difficile….

“Ragazzo” lo richiamò l’oste, fattosi più vicino “Non ho idea di che cosa ti ronzi in testa, ma se ci pensi troppo finisce solo che ti fai male con le tue stesse mani. Le risposte sono fatte per venire quando meno te lo aspetti. Rimuginare non serve a nulla, te lo dico io” gli consigliò lui.

Se si pensava troppo a una cosa e contemporaneamente alla sua soluzione si finiva con ritrovarsi le mani vuote. La gente poteva mettersi comoda, guardare il soffitto e scervellarsi quanto voleva ma anche se alla fine della lunga meditazione avesse trovato una plausibile spiegazione che colmasse la sua lacuna, dopo pochi minuti si sarebbe resa conto che invece avrebbe potuto rispondere in tutt’altra maniera. Quando si smette di pensare a qualcosa la mente tende a vagare un po’ per conto suo e senza nemmeno rendersene conto, ecco che la risposta compare, con le corte braccina svolazzanti prese a richiamare l’attenzione.
Sarebbe stato tutto molto logico se soltanto Ace, anziché intestardirsi sull’argomento, avesse provato a credere nell’esistenza di quella risposta che lui già era convinto di possedere. Forse la situazione sarebbe stata meno spigolosa e ostica, più visibile e accettabile.

“Spiacente capo, ma non devo aspettare che le risposte mi piovano dal cielo: io ce le ho già” gli disse alzandosi in piedi e calandosi meglio il cappello in testa.

Detto ciò, si diresse con le mani affondate nelle tasche verso le scale, sparendo dalla visuale del padrone di casa nel mentre si grattava la nuca mezza pelata.

Che tipo. Con quella faccia non mi stupirei affatto se fosse stato mollato dalla donna della sua vita. Pensò.

E se ne tornò a sistemare le ultime bottiglie di rhum rimaste fuori posto.




Salito al primo piano, andò dritto nella sua stanza e una volta dentro, chiuse la porta con la schiena, poggiando la nuca contro d’essa sospirando.

Meno di due ore. Meno di due ore e poi basta per un altro anno. Almeno così una parte di quel peso non l’avrebbe più sentita. Il pensiero di ciò gli fece stropicciare il viso con la mano.

La camera datagli era piccola, con solo una sedia, un tavolo schiacciato contro la parete di sinistra e un letto dalla parte opposta, affiancato da una finestra con le tende tirate che dava sulla strada.
I lampioni fuori emanavano così tanta luce che Ace non ebbe bisogno di accendere il candelabro: avvolto dal semibuio appena accennato da qualche riflesso opaco giallastro proveniente da di fuori, poggiò il cappello e la collana di perle rosse sul tavolo, dove vi era anche lo zaino riposto giorni prima. Velocemente si sfilò gli stivaletti e, abbandonandoli disordinatamente sul pavimento, sparì sotto le vaporose coperte fino ad acciambellarvisi come un gatto nel bel mezzo delle fusa. Non temeva di soffocare anche se teneva sotto la testa, la mancanza d’aria era l’ultimo dei suoi problemi: voleva dormire, chiudere gli occhi e cadere in uno di quei bei sonni dentro cui inconsapevolmente cascava quando veniva colpito da un attacco di narcolessia. Serrò le palpebre sperando che questo arrivasse, stringendo i pugni e allontanando tutto quello che tentava di infarcirgli la mente più del dovuto. I primi giorni li aveva passati ad allenarsi strenuamente senza utilizzare il fuoco: niente tecniche con le abilità derivanti dal frutto Foco Foco, solo sano esercizio fisico includente corse, flessioni, addominali e tutta una sessione di allenamenti straordinari che nemmeno duecento reclute della Marina avrebbero potuto sostenere. D’altro canto, quel vecchio pazzo del nonno aveva sempre voluto che lui e Rufy diventassero dei marine, motivo più che valido  - secondo i suoi sensati ragionamenti - per massacrarli fino allo sfinimento.

Aveva sentito l’impellente bisogno di impegnare il suo corpo in qualcosa che gli permettesse di scaricare la tensione, per questo si era rintanato nella zona selvaggia del territorio: una volta gettatosi anima e corpo in quell’allenamento spartano più del solito, riuscendo a sfogarsi adeguatamente, era sceso a Mairene prima che i festeggiamenti iniziassero e, senza porre un singolo sguardo ai balocchi che addobbavano le strade, si era nascosto nella locanda, in attesa dell’alba. Prima o poi sarebbe venuta, era inevitabile, ma per lui era sufficiente che scoccasse la mezzanotte; benché il clima lì fosse mite, il ragazzo percepì  il freddo dell’inverno atrofizzargli le giunture e le ossa, pungendogli i muscoli come tanti piccoli aghi. A Mairene non c’era traccia della neve ma Ace la sentì ugualmente dentro di sé ed era più fredda che mai, tanto che neppure l’aumentare la propria temperatura corporea riuscì a dissipare il gelo di cui era padrona.

Per quel genere di freddo, i cui brividi erano un crescente lento e fine quanto un requiem, occorreva qualcosa che non poteva essere forgiato da mani qualunque: occorreva calore, un speciale ed effimero calore che neppure le più soffici e morbide coperte del mondo sapevano sprigionare…..

Screek!

La porta venne aperta lentamente, con un leggero scricchiolio da parte dei cardini non oliati. Se fosse stato un ladro Ace se ne sarebbe accorto, così come se fosse stato l’oste della locanda. Ma quei passi silenziosi, che cercavano di fare il più piano possibile appositamente per non disturbarlo, disfattisti addirittura delle calzature, lui li conosceva bene e pertanto non gli fornirono un motivo per cui allarmarsi.

Sayuri, dopo aver chiuso la porta, si avvicinò al rigonfiamento umano che vedeva sbucare dal letto, immaginando senza alcuno sforzo chi ci fosse sotto e in quale condizione emotiva si trovasse. Lo aveva cercato senza alcuna fretta o preoccupazione e alla fine lo aveva trovato, guidata un po’ dal suo intuito e un po’ da quei fatti personali che le avevano permesso di conoscere il suo ragazzo in tutti i suoi aspetti.

“Ace?” lo chiamò piano lei “Ace, sei….?”

Non potè neppure finire di formulare la domanda, che un braccio di lui sbucò fuori dalle coperte, le afferrò il polso e la trascinò sotto la coltre di stoffe, come se il peso restante del corpo fosse identico a quello di un piumino. In meno di un istante si ritrovò stretta in un abbraccio molto forte, con le gambe attorcigliate a quelle di Ace e le sue braccia che premevano sulla schiena.

“Ace, che….?”

Momentaneamente sbigottita, sentì il viso di lui nascondersi nel suo petto e nel percepire quel lievissimo tremito, fece svanire ogni forma di sorpresa emersa: ricambiò subito l’abbraccio, portando una delle mani dietro la nuca corvina di lui e cercando di far sua una parte del malessere che avvertiva con tanto vigore toccarle la pelle.

“Oh, Ace…”
“Dicono che la verità faccia sentire meglio la gente, se detta al momento giusto. Io devo essere l’eccezione che conferma la regola perché mi sento un vero schifo” mormorò lui.

Schifo. Quelle era la parola più adatta che potesse meglio descrivere il suo stato d’animo: una sacca di melma putrefatta avrebbe avuto un aspetto decisamente migliore del suo io interiore e lui non voleva farsi vedere da nessuno conciato in quella maniera. Della sua Sayuri si fidava perché lei non lo avrebbe mai giudicato con freddezza; per tale ragione, sapeva che nel suo abbraccio avrebbe trovato la forza per esprimere i pensieri trattenuti dentro di sé fino a quell’istante.

“E’ perfettamente normale quando ci si mostra al mondo per quello che si è” gli disse lei “Per questo è più facile tenere per sé i propri segreti e continuare a ignorare che questi non esistano”

Lei lo sapeva bene, oh se lo sapeva bene.
Per molti anni aveva pensato di vivere ma invece aveva solo tirato avanti, cercando di godersi il dono ricevuto come meglio le era possibile, ricordandosi le belle parole del nonno. Aveva sempre saputo che il suo passato stava dietro l’angolo ma si era fatta forte apposta per difendersi, sicura di poterlo gestire. Ne era stata convinta, veramente, ma questo l’aveva colpita a tradimento con così tanta cattiveria da frantumare il vetro del suo specchio interiore, portandola a cadere in mille pezzi. E a raccoglierne i pezzi, a rimetterli insieme, era stato proprio Ace, la cui gentilezza e solarità le avevano permesso di scoprire lati di sé e sentimenti così profondi da farla sentire strana.

Aveva iniziato a cambiare, a vedere il ragazzo diversamente e a temere che il suo passato lo potesse allontanare da lei. Una paura molto diversa dalla morte si era fatta strada in lei e nuovamente sconvolta dai fatti, aveva finito per lasciarsi andare, liberando il male che racchiudeva dentro di sé e sperando che il ragazzo non la odiasse o cacciasse via. Ma lui non l’aveva odiata o cacciata via per l’aver aspettato così a lungo a dirgli la verità, affatto: nello scorgere più volte quell’anomalo riflesso blu guizzare nei suoi occhi color cioccolato, aveva realizzato che nel profondo quella ragazza nascondeva qualcosa la cui sola ombra sembrava abbastanza grande e inquietante da bloccarla ogni qualvolta fosse sul punto di compiere o di prendere una determinata decisione.
Non si aspettava che parlasse subito o che addirittura riuscisse a rivelargli tutto, in fondo il moro non lo avrebbe mai fatto, ma lei……..quella notte lo aveva colto di sorpresa: con le sue lacrime, la sua confessione……da lì in poi, si erano scoperti molto più simili di quanto entrambi cercassero di dare a vedere.

Avevano condiviso i loro più importanti segreti e ciascuno d’essi aveva finito per essere testimone di una seconda verità che per il bene dell’altro non avrebbe mai dovuto essere rivelata. Si capivano Ace e Sayuri, perché loro avevano scampato il patibolo che li attendeva fin dalla nascita.
Si assomigliavano, per questo Pugno di Fuoco non temeva sorprese da lei. Fra i tanti volti familiari aveva sperato un pochettino che fosse il suo a venirlo a trovare, perché era sicuro che le sue parole avrebbero ammansito il parassita del malessere per poi riuscire a districarlo da dove si era annidato.

“E’ comprensibile che tu sia indeciso se sentirti pentito o meno” continuò lei dolcemente nell’accarezzargli alcune ciocche nere “E’ come fare un salto nel vuoto: non sai quando arriverai, dove o in che modo….sai solo che non puoi più tornare indietro”
“Ma io non sono pentito, non così tanto almeno” replicò lui “E’ solo che odio questo giorno”
“Questo giorno..o te stesso?”
“Ah….” gli sfuggì un risolino quasi divertito “Chissà…”

Non aveva ricordi di quel periodo, era troppo piccolo perché la sua mente e i suoi occhi arrivassero a realizzare ciò che lo circondava, ma il sapere che sua madre aveva dato ogni singola energia per proteggerlo e che era morta per lo sfinimento durante il parto lo faceva sentire in colpa, perché non avrebbe mai potuto saldare quel debito, non avrebbe mai potuto dirle grazie di persona. Tenere da conto quell’unica vita che gli era stata donata con tanto amore in quel giorno pareva non essere sufficiente per Ace e Sayuri lo aveva capito, altrimenti non gli avrebbe rivolto la sua stessa domanda contro.

Teneva affondato il viso lentigginoso nel petto di lei, percependo il tempore del suo corpo arrivare a scaldarlo dove nessun’altro poteva arrivare. I battiti del suo cuore possedevano un che di rilassante e nell’accoccolarsi, Ace desiderò poter prolungare quell’istante a più non posso. Il sentirla ricambiare poi con amore quella dolce stretta gli permise di abbandonarsi ancor di più, inibendo buona parte del freddo insinuatosi dentro di lui. L’abbracciava tanto forte da farla scomparire, quasi non volesse farla vedere a nessun’altro ma in realtà era lui quello che non voleva mostrarsi: la debolezza di per sé era qualcosa che mal sopportava quanto la sconfitta e farsi sorprendere nel bel mezzo di essa era abbastanza umiliante da fargli pesare ogni suo errore commesso, perfino il più stupido. Non voleva essere così ma quel lato faceva parte del suo carattere e non se poteva liberare come fosse un oggetto rotto, rappresentava la rabbia mai scomparsa da lui. Una rabbia rivolta a tantissimi volti, il suo compreso.

Non intendeva far vedere tutto questo a nessuno: non voleva che si scoprisse quanto fosse maledettamente vulnerabile, debole…era già insopportabile doverci avere a che fare per resto della vita. Era per questo che nel sentire Sayuri entrare nella sua stanza e avvicinarsi al letto, l’aveva stretta a sé per poi non mollare più la presa. Non si trattava del fatto che fosse venuta a conoscenza del suo segreto prima dei altri, ma solo della pura e semplice dimostrazione che entrambi si prendevano cura l’uno dell’altra.

“Anche tu puoi venire da me: ti ascolterò ogni qualvolta tu ne abbia bisogno e ti sosterrò quando non saprai dove andare, te lo prometto”

Se quella notte di tanto tempo addietro era stata lei ad aver bisogno di lui, ora era proprio quel ragazzo tanto orgoglioso a necessitare di un forte appoggio che rendesse quell’ultima ora del primo Gennaio la meno dolente possibile. Anche se nel corso dei anni era maturato sia fisicamente che mentalmente, quel bambino carico di rabbia che picchiava coloro che sparlavano dell’ex Re dei Pirati, che non capiva se fosse giusto per lui stare lì, c’era ancora; viveva in Ace, era il suo spettro, lo stesso che ora stava trovando rifugio nelle braccia di una persona dolce e gentile quale era la castana.
Non avrebbe mai immaginato di innamorarsi di qualcosa che non fosse la bandiera nera ma era successo e la felicità scaturita lo stava spingendo ad aggrapparvisi con disperazione.

“Non devi essere così severo nei tuoi confronti” gli disse lei chiudendo gli occhi “Tu meriti di vivere, Ace. Ami troppo quello che hai conquistato per gettarlo via e so che lo rimpiangeresti per tutta la vita se scoprissi di non poter recuperare quanto ora ti appartiene. Lo dissi anche a me, ricordi?” gli domandò dolcemente “Mi dicesti che merito di vivere più di molte persone che non sanno cosa sia la comprensione. Questo discorso non è valido soltanto per me ma anche per te, non siamo diversi”

Il silenzio di lui valse come una tacita replica che lasciò intendere il dubbio su quell’ultima frase detta da lei. Lo avevano già affrontato quell’argomento ma la situazione era cambiata ed Ace, nel dire la verità a tutti i suoi compagni, si sentiva in una posizione ancor più lontana e angustiante rispetto a qualunque altro figlio di pirata. La sola cosa, anzi, persona, che ancora riusciva a non farlo isolare del tutto era Sayuri, la cui vicinanza era diventata peggio di una droga. Non poteva farne a meno, non quando rabbia e orgoglio si mischiavano a tal punto da creare una miscela così esplosiva da sfuggire al suo controllo: lui, che poteva diventare così aggressivo da ridurre in cenere ogni cosa anche col più piccolo gesto della mano non era in grado, si rifiutava categoricamente, di alzare le mani sulla sola persona che valesse la pena di proteggere oltre a Rufy.
Per il capitano il concetto era un po’ diverso: certo, era importante che in quanto suo sottoposto difendesse il suo onore, così come aiutasse i suoi compagni e li soccorresse in caso di bisogno, ma Rufy e Sayuri erano……..diversi.

Se in una battaglia qualunque Ace dava sempre e comunque il 100%, per loro due non avrebbe esitato a dare la vita.
Si sarebbe lanciato contro il nemico anche se fosse stato legato pur di fare qualcosa, ma in quel momento la battaglia scatenatasi dentro di lui era pressoché che muta: attendeva un epilogo o una continuazione di quanto interrotto e purtroppo il ragazzo, nel suo silenzio, non era in grado di fornire nessuna delle due possibilità.

Fu allora che lei si mosse: si spostò quanto bastava perché lo potesse vedere in viso o, quanto meno, ne scorgesse i lineamenti e nel farlo le loro labbra arrivarono involontariamente a sfiorarsi ed Ace a quel contatto ancor più ravvicinato fremette. Se l’era appena detto che Sayuri era peggio di una droga e quando si sollevò giusto quanto serviva a sovrastarla, per poi chinarsi e baciarla nel mentre tornava a stringerla, si ridiede un ulteriore conferma di quanto pensato. L’audacia e il coraggio che mostrava in battaglia non era mai presente in lei quando riusciva a metterla con le spalle al muro e ad Ace piaceva saperla nelle sue mani, perché gli permetteva di percepire il suo candore con più intensità, fino a farlo suo.

Godutosi il bacio e l’insieme di piacevolezze che da esso derivavano, si distaccò lentamente per poterla lasciar respirare, con le guance appena accaldate.

 “Ace….” mormorò lei “Tu ti fidi di me, vero?” gli domandò.
“Certo”
“E quindi ti andrebbe di venire con me in un posto?”

Se per posto intendeva la Moby Dick, non era certo di poterla accontentare e a quanto pareva, l’oscurità calata nella stanza non fu sufficiente a nascondere la sua cupezza: non lasciandosi sfuggire quell’incertezza da parte del ragazzo, la castana la castana alzò il braccio quanto serviva perché le dita delle sue mani toccassero i curiosi puntini neri che gli tempestavano la faccia.

“Ti prometto che andrà tutto bene” lo rassicurò “Permettimi di avvicinarmi a quel che ti fa star più male, permettimi di aiutarti come tu hai fatto con me. Non cadrai”
Stavolta sarò io a sostenerti.

Poteva murarsi vivo, sprofondare sotto quella stessa neve che percepiva scuotersi in lui ogni volta che quel giorno cadeva, isolarsi, devastare un intero continente con la forza degli incendi se lo desiderava, ma anche se fosse riuscito a rinchiudersi nella più impenetrabile delle fortezze, la voce della ragazza avrebbe sempre trovato un piccolo spiraglio dentro cui far breccia, sarebbe sempre riuscita a raggiungerlo per tendergli la mano. Poteva far finta di non sentirla, distogliere la testa per non incrociarne lo sguardo ma davanti all’unica persona che capiva e comprendeva le sue ragioni, non era certo di poter mantenere bel alzato il muro dell’indifferenza. Lei non aveva fretta, lo avrebbe aspettato di sua spontanea iniziativa se serviva ad aiutarlo, gli sarebbe venuto incontro in tutti i modi ma non lo avrebbe lasciato solo, come lui non aveva mai lasciata sola lei.

E lui, forse rassicurato dalla sua presenza, avrebbe allentato poco a poco la sua rigidità per poi afferrare quella mano tesa con tanta gentilezza.




Eccola là….

Il grande e scuro profilo della Moby Dick era più che visibile nonostante lui e Sayuri fossero ancora discretamente lontani dalla spiaggia. Pugno di Fuoco camminava di fianco alla ragazza, tenendole la mano. Non aveva mai avuto dubbi sul dove volesse portarlo e non appena erano usciti dalla locanda per imboccare il sentiero principale, il solo pensiero di quello che lo attendeva lo riluttò quanto bastava da rendere ogni suo passo dolente e terribilmente pesante.

Non era pronto, non si sentiva affatto preparato ad affrontare quanto già si stava prefigurando mentalmente e avrebbe voluto tornare indietro, chiudersi in quella stanza di periferia se solo la fiducia riposta in lei non fosse stata tanto candida e sincera da respingere anche il più piccolo dei ripensamenti.
La tentazione c’era da qualche parte ma la mano di Sayuri lo teneva lì, senza creare alcun senso di disagio, senza appesantire quanto Ace stesse già provando: a dire la verità il semplice contatto fra la sua mano e quella di lei lo stava facendo sentire un po’ più leggero e questo già di per sé era un sollievo.

Non appena la passerella gli si parò davanti ai occhi avvertì un buco allo stomaco, come se questa in realtà fosse la rampa di scale per il patibolo, con in alto il portone che l’avrebbe portato alla piattaforma giudiziaria: non vedere cosa ci fosse al di là di essa bastò per ottenebrare i suoi occhi. Parallelamente a quello strano buco formatosi, percepì le dita della castana risaldare la presa che esercitava sulla sua mano, sorridendogli come per dirgli di non preoccuparsi. La Moby Dick era completamente addormentata: le luci erano tutte spente, le vele ammainate e il ponte completamente deserto.

Saranno tutti a terra a festeggiare. Ipotizzò mentalmente lui nell’attraversarlo.

L’uno Gennaio non era ancora passato e siccome era festa per tutti, anche i pirati avevano il diritto di divertirsi fino a non sentire più i muscoli. Non c’era pericolo che venissero attaccati di sorpresa, Mairene era fin troppo sicura e la gente li nutriva un altissimo rispetto per Barbabianca. Andando sottocoperta, camminarono lungo uno dei molteplici corridoi che avevano imparato a percorrere memonicamente anche al buio, come in quel caso. Come all’esterno, non vi era alcun lumino che facesse da punto di riferimento ma la ragazza non ne aveva alcun bisogno: sapeva bene dove doversi fermare.

“Ecco, siamo arrivati” gli disse voltandosi verso di lui “Puoi aprire la porta se vuoi”

Avendo scordato temporaneamente su quale stanza quella desse, Ace non si premurò di chiederlo alla ragazza, indietreggiata di qualche passo. Spingendo coi palmi, apri le due grandi ante ma come alzò la testa, fu costretto a coprirsi gli occhi per la forte luce che lo investì.

“Ma che diav…?!”

POP! POP! POP!

Una serie a catene di coriandoli e stelle filanti vennero fatti esplodere nel momento in cui Ace aveva aperto la porta. Velocemente abituatosi alla luce, il ragazzo si ritrovò ricoperto di carta colorata dalla testa ai piedi e con tutti i suoi compagni che lo guardavano sorridenti.

“Sorpresa!”
“Ben arrivato, Ace!”
“Cominciavamo a credere che fossi finito addormentato in chissà quale buca!”
“Magari ci è finito sul serio. Fortuna che abbiamo mandato sorella Yu-chan a recuperarlo”

Ok, stava sognando.
Stava sicuramente sognando e la cosa l’aveva paralizzato a tal punto da non sapere se quel che vedeva gli piacesse oppure no. Realizzò solo dopo pochi secondi che tutto quello era vero e che tutta la ciurma era riunita lì, nella sala grande: scorse i tavoli stracolmi di cibi, barili pieni di birra e così tanta roba che come minimo i cuochi dovevano aver sfaticato per più di due giorni di fila.

“Guraguragura!! Non stare sul ciglio della porta, Ace!” esclamò Barbabianca con già in mano la sua immancabile bisaccia “Avanti, entra!!”

Da allibito si trasformò in un essere cosciente e con la ritrovata padronanza di sé stesso, finì per comprendere il perché di tutti quei addobbi. Riaffiorarono troppe cose, così tante da ammucchiarsi e bloccarsi malamente in un punto indistinto della sua mente, senza più scorrere. Temette la stessa sorte per il suo cuore, perché non riuscì a sentirne più i battiti frattanto che risuonavano parole maligne nei suoi confronti. Tutto questo stava dentro di lui e c’era abbastanza materiale che gli avrebbe fatto muovere i piedi verso l’uscita senza neppure guardarsi indietro: lui lo odiava il suo compleanno e per quanto quei addobbi fossero coloratissimi e i suoi compagni ridessero, come a voler testimoniare la non importanza di quei fatti da lui confessati, Ace sentì nuovamente la gelida morsa della neve infilzargli la carne.

“Sentite, ragazzi: vi ringrazio, ma…” tentò di dire.
“Ti prego: sei stai per dire una scemata, taci. Farai un piacere sia a noi che a te” lo bloccò Don togliendogli il cappello.

Interdetto, Ace si zittì seduta stante.

“Sai che ore sono?” gli domandò poi Marco.

Nel scuotere la testa, Vista sfilò dal suo taschino un orologio dorato con catenella e, aprendolo, lo mise davanti al viso di Ace perché potesse leggere l’ora.

“E’ mezzanotte” mormorò lui.
“Sbagliato. E’ mezzanotte e tre minuti” lo corresse il medico-cecchino sbuffando “Il che significa che non è più l’uno Gennaio ma il due e che quindi puoi smettere di tormentarti come una vedova appena lasciata dal marito”

Era vero.
Nel guardare meglio, notò che la lancetta più lunga era appena spostata di qualche millimetro rispetto la più piccola. L’uno Gennaio…era veramente finito.

“Avete aspettato fino adesso…per festeggiare?” mormorò.
“Si e no” gli rispose la Fenice avanzando verso di lui “Diciamo solo che non sarebbe stato giusto festeggiare un compleanno senza il festeggiato e visto che tu non ti accingevi a tornare, abbiamo mandato Sayuri a prenderti”

Compleanno? Festeggiato?

Anche se si spremette le meningi, Ace non riuscì a capire il filo del discorso e la sua faccia ebete diede mostra della sua grande e apparentemente incolmabile lacuna.

“Non credo di capire….”
“E ci credo, col cervello che ti ritrovi....” sbuffò nuovamente Don “Ok, testa vuota, te lo dirò nella maniera più semplice e concisa” e alzò l’indice della mano destra per poi piantarlo davanti agli occhi del moro “Noi non conosciamo il figlio del Re dei Pirati: non sappiamo chi sia, cosa faccia, che faccia abbia, sei sia vivo, bla bla bla…. Quello che ci interessa, ed è la ragione per cui siamo tutti riuniti qua, è che vogliamo festeggiare il ventunesimo compleanno del nostro comandante in seconda, che saresti tu, Portuguese D. Ace, Pugno di Fuoco, quindi vedi di far sparire quella faccia da rincretinito seduta stante se non vuoi che prenda quella tua testa bacata e la ficchi dentro un barile di birra fino a farti affogare”

Forse avrebbe dovuto veramente immergere la testa nella birra, almeno così avrebbe considerato tutto ciò come un’allucinazione dovuta per il troppo alcool ingerito, ma il sentirsi tirato in avanti, spinto in mezzo a quella folla che subito iniziò a prendergli la testa sotto le braccia per scompigliargli i capelli con le nocche, bastò per fargli comprendere che tutto quello era vero, che tutta quell’allegria e quell’enorme torta che arrivava quasi a toccare il soffitto era stata preparata unicamente per lui.

Gol D. Ace sulla Moby Dick non esisteva. I suoi compagni non avevano idea di chi fosse. A nessuno di loro premeva di sapere tutti i dettagli di questo fantomatico personaggio mai visto in faccia. A loro interessava di Portuguese D. Ace, del loro fratellino e volevano che capisse che quanto aveva detto quel giorno, per quanto fosse stato sconvolgente, non avrebbe comunque cambiato o mutato nemmeno di una virgola il loro legame. Quei secondi che erano succeduti alla sua confessione avevano permesso a tutti quanti loro di modellare a loro piacere quelle parole e di arrivare a comprendere quale peso quella verità rappresentasse per il moro. In sostanza, il peso di Ace era più grande del loro ma tutto si poteva risolvere se si era sulla nave di Barbabianca: tutti lì erano uguali, tutti lì erano figli di quel grande uomo che adesso rideva col cuore in mano.
Ace dovette solo ricordare questo, dovette solo ricordare quella semplice e piccola nozione di vita per riuscire finalmente a sorridere nel mentre tornava a nascondere gli occhi lucidi sotto il cappello recuperato.

Grazie, ragazzi….

Non avrebbe potuto dire o pensare altro.

“Ok, si è ufficialmente commosso!” esclamò Vista ai più lontani.
“Se si mette a piangere, giuro che do le dimissioni e lascio la seconda flotta” sentenziò Don.
“Sii accondiscendente per questa sera” gli disse il comandante adamantino con le enormi braccia incrociate “E’ il suo compleanno”
“Ma è proprio questo il problema, Jozu: lui non è proprio nato per essere accondiscendente” si aggiunse Maya “Se ci tieni tanto a dare le dimissioni, puoi sempre farlo. L’uscita è da quella parte” e indicò la porta.
“Nessuno ha chiesto la tua opinione, donna” replicò il medico-cecchino rispondendo alle scintille elettriche della capo infermiera con altre di uguale intensità.
“Su, su, non litigate” cercò di dividerli Bonz “Almeno stasera fate i bravi”

Vedere tutti quanti loro comportarsi come sempre diede al moro l’ulteriore prova che ci voleva ben altro che essere il figlio del Re dei Pirati per far cambiare di punto in bianco l’opinione di più persone nei propri riguardi. Odiare qualcuno significava odiare anche una parte di sé stessi ed Ace nel rivolgere il suo disprezzo al padre biologico, aveva finito per ripudiare una parte di sé, cosa che ai suoi compagni e al suo capitano era sembrata stupida e ingiusta.

Si, le sue reali origini non si sarebbero dissolte nel nulla o scomparse con quella notte di divertimento, ma perlomeno sarebbero state sostituite con delle nuove, con quelle che lui riconosceva effettivamente come sue: su quella nave e in tutto il mondo, lui sarebbe sempre stato conosciuto come Portuguese D. Ace alias Pugno di Fuoco, il comandante della seconda flotta di Barbabianca.

“Va bene, ragazzi” Marco fece passare il suo braccio intorno al collo del moro per tirarselo più vicino “Chi vuole essere il primo a tirare le orecchie al nostro festeggiato?”




Alla fine l’alba era arrivata e la Moby Dick era ridotta peggio di tre campi di battaglia messi assieme.
La sala grande era tutta un coro di ronfate e corpi addormentati nelle posizioni più disparate, con tanto di tavoli rovesciati e sedie rotte: i pirati di Barbabianca si erano scatenati con la stessa foga che mettevano nei combattimenti e i festeggiamenti si erano esauriti soltanto qualche minuto antecedente alla venuta del sole. Il cibo era stato trangugiato, le botti di birra svuotate fino all’ultima goccia e le risate consumate a tal punto da far finire a terra anche i più resistenti: vedere Jozu steso a terra con le braccia spalancate, la bocca aperta e con sopra al torace almeno cinque persone ammucchiate a mò di piramide era una visione tanto incredibile quanto tenera nel vedere Marco seduto al suo fianco con la piccola Akiko in braccio, che dormiva placidamente rannicchiata contro il suo petto. Seguivano altri esempi, tra cui di più semplici, come il capitano addormentato sulla sua poltrona, ma niente poteva superare l’insultarsi nel sonno di Don e Maya: e dire che con tutto il rhum che si erano scolati per vedere chi dei due crollava per primo, avrebbero dovuto dormire come angioletti anziché borbottare parole sconclusionate nel sonno. Ogni tanto era saltato fuori un “Adesso ti ammazzo sul serio” ma non c’era stata ragione di preoccuparsi più di tanto: prima di arrivare a brandire una qualunque arma quei due avrebbero dovuto come minimo impegnarsi a stare in piedi.

Ci avevano dato dentro come non mai e per fortuna i vari espedienti tirati fuori per animare quella notte non avevano implicato l’ausilio del ponte principale, anche se ad un certo punto qualcuno aveva optato per combinare qualcosa implicante l’esplosione dell’albero maestro. Grazie al cielo era stato risparmiato ed Ace ne era grato perché dopo tutto quel grandioso trambusto organizzato per lui, cinque minuti di silenzio accompagnati da una sana e fresca brezza mattutina erano assolutamente d’obbligo.
L’adrenalina in corpo gli impediva di andare a dormire, era ancora troppo eccitato per crollare a terra come un sacco di patate: avrebbe potuto spendere un po’ di quell’ ”Euforia ormonale” con qualche piegamento, ma prima di arrivare al ponte per riempirsi i polmoni del buon vecchio e sano ossigeno, il suo cammino si incrociò con la sola persona – escluso lui – che ancora non si era abbandonata al sonno.

“Com’è che sei ancora sveglia, Sayuri?”

La ragazza era seduta su una panca del corridoio, visibilmente assonnata, con le palpebre che sbattevano ripetutamente per esortare gli occhi a rimanere aperti e la schiena appoggiata al muro insieme alla nuca.

“Ero sicura che fossi ancora sveglio e così mi sono messa qua ad aspettarti” gli rispose lei sorridendogli con l’innata dolcezza di sempre.

Ace le si avvicinò fino ad arrivare a sedersi di fianco a lei. Strano ma vero, per tutta la serata era stato circondato dai suoi amici ma lei l’aveva vista poco più di tre volte.

“E come mai mi aspettavi?” domandò col sorriso sghembo e incuriosito.
“Eh eh, volevo darti il mio regalo. Non sono riuscita a dartelo durante la festa, così ho preferito attendere un momento più tranquillo, come questo”

Detto ciò, sfilò dalla tasca della gonna qualcosa che Ace non vide fino a quando non se lo ritrovò legato allo stesso polso su cui portava il log pose.
Rimase basito: era un braccialetto fatto di fili rossi e bianchi, come quello che lei stessa gli aveva regalato per la sua promozione e che disgraziatamente aveva perduto nello scontrarsi con Teach.

“Ho utilizzato dei fili più grossi e resistenti questa volta: l’effetto dovrebbe essere maggiore rispetto al precedente, spero possa proteggerti adeguatamente. Buon compleanno, Ace”

Pugno di Fuoco restò per qualche secondo a contemplare apertamente il regalo fattogli: tra gli accessori che si portava sempre dietro, il bracciale rosso e bianco era l’unico che fosse mancato all’appello. Doveva essersi strappato o bruciato, purtroppo non lo sapeva con certezza ma fatto stava, che quando si era accorto di non averlo più, aveva provato un forte dispiacere poiché quello era uno speciale portafortuna fatto e datogli dalla ragazza. Averne un secondo, più potente, lo avrebbe esortato a non commettere gli stessi errori del passato, a comportarsi con più attenzione nei riguardi non solo dei oggetti in suo possesso, ma anche di chi gli stava attorno.

“Grazie, Sayuri. Questo lo terrò più da conto” le disse.
“Figurati. Non nego che mi sarebbe piaciuto tirarti le orecchie, ma penso che tu ne abbia avuto a sufficienza per oggi” ridacchiò sommessamente lei.

Essere tirato per le orecchie da mille e passa uomini, di cui alcuni grossi quanto Barbabianca era stata un’esperienza che aveva sfiorato il rischio di lasciarlo senza padiglioni auricolari per il resto della vita. Le orecchie di Ace erano rosse e pulsanti, decisamente intolleranti ad un’altra tirata.

“Si, i miei lobi stanno chiedendo pietà” concordò “Però..” e si sporse un po’ avanti, verso di lei “Possiamo apportare una piccola modifica alla tradizione”

Riconoscendo quel sorriso tipicamente furbesco di lui, la castana percepì le proprie guance tingersi di un appena accentuato rosso nel mentre avvertiva tutta sé stessa con le spalle al muro.

“E..che genere di modifica vorresti apportare, se posso chiedere?” domandò lei guardandolo dritto nei occhi.
“Beh…è il mio compleanno, no?” chiese retoricamente nel scortarle dalla guancia un ciuffo “Quindi, mi è concesso di fare e chiedere ciò che voglio”

Avvicinatosi con molta gradualità baciò la ragazza senza che lei replicasse. Si beò in tutta tranquillità di quel contatto voluto dalla sua capricciosità ma non se ne vergognò minimamente e la strinse a sé tenendo alto quel suo sorriso da canaglia, alto come la bandiera che sventolava sul pennone. Era maledettamente felice, rinato da capo a piede e leggero come una nuvola: il fuoco scorreva di nuovo in lui, potente a tal punto da infiammare quanto fino a quel momento era rimasto assopito.
Lasciandola respirare, si trovarono coi volti vicini: il suo, sorridente e soddisfatto e quello di lei, arrossato e un po’ spaesato, ma profondamente rasserenato nel vedere il suo ragazzo finalmente tranquillo. Quella dolcezza premurosa arrivò da Ace come un fulmine a ciel sereno e non ci volle molto perché il suo voler salire sul ponte venisse rimandato a più tardi. Tutto ciò che gli occorreva l’aveva lì e non voleva stare da nessun’altra parte.

“Bene, uno è andato. Ne mancano venti” le soffiò sulle labbra.
“Immagino di non poter respingere la tua richiesta” mormorò lei sorridendo imbarazzata.
“Esatto” le disse chinandosi appena un po’ più in avanti “Li voglio tutti quanti, fino all’ultimo”

Trovatasi ad annegare in quelle pozze nere, Sayuri arrossì ancor di più, arrivando a far risplendere i suoi occhi di quella lucidità tipica di quando il viso reagisce ad emozioni intense. Poteva rifiutarsi, ma era come se l’essere capriccioso di Ace le tappasse la volontà di replicare e anche se questa fosse stata libera di dar voce alle sue opinione, sarebbe stata lei stessa a zittirla. Persa nei occhi del moro, finì per annuire senza rendersene conto e in un batter d’occhio, si trovò in braccio al ragazzo, in procinto di andare verso un’ala specifica della Moby Dick.

“A-Ace, che cosa fai? Mettimi giù”
“Uhm...no”
“Ma…ma Ace, posso camminare per conto mio” tentò di dire “Per favore, mettimi giù”
“Mi devi ancora venti baci, ricordi?” e la guardò con quel suo fare giocoso che la immobilizzò emotivamente “Quindi è escluso che ti lasci andare prima di essermi preso quanto richiesto”

Non ci fu modo per spuntarla: lei stessa aveva annuito e Ace da bravo giocatore quale era, aveva preso la palla al balzo ma andava bene così: vedere il suo ragazzo di buonumore compensava le mancate parole occultate dal suo arrossire perenne e quanto a lui, per quanto capriccioso o egoistico che fosse, non avrebbe mai fatto qualcosa che avrebbe potuto arrecarle dolore.
A dispetto dei pregi, dei difetti, del carattere e di tutti gli elementi che lo contraddistinguevano dai altri, Ace sarebbe sempre rimasto il ragazzo di cui lei si era innamorata e questo non sarebbe mai cambiato. Mai.
  
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