VI.
Experiment.
“Non
ha senso!” sbottò, camminando su e giù
per il salotto.
Holmes ancora parlava del caso, ma io avevo smesso di seguirlo almeno
un’ora e
quindici minuti prima. Almeno, avevo smesso di seguirlo nelle sue
spiegazioni
perché fisicamente, invece, lo seguivo davvero. Per tutta la
stanza, cercando
di fermarlo e portarlo a letto ma credo non avesse sentito una parola
di tutte
le preoccupazioni che avevo espresso per la sua salute.
“Holmes, vada a dormire, è malato-”
“Allora” iniziò, fermandosi
improvvisamente in mezzo alla stanza, causando uno
scontro tra me e la sua schiena, di cui lui comunque non
sembrò accorgersi,
rimanendo immobile com’era prima della collisione. Era come
andare contro un
muro ad alta velocità; l’unico che si fa male sei
tu, mentre il muro ti
sbeffeggia con la sua impassibilità. Mi stava totalmente
ignorando. Parlava ad
alta voce solo per ragionare meglio, lo avrebbe fatto, anche se non ci
fossi
stato. “Un uomo, marinaio con le scarpe a punta quadrata
irrompe nella stanza
da letto della Regina dopo cena, in modo da non rischiare di avere
incontri
spiacevoli. Appena entra la minaccia con la pistola, fermandosi sulla
porta –
le impronte con il vapore erano più definite sulla porta e
vicino allo
scrittoio, per evitare un qualunque richiamo d’aiuto. La
minaccia con la
pistola da una distanza tanto ravvicinata da far cadere della polvere
da sparo
dalla canna al foglio, imponendole di scrivere una lettera
d’addio in modo che
sembri che si tratti di suicidio. Si procura la corda dalla stanza per
non far
credere che sia arrivato un oggetto dall’esterno, ma la
Regina non è capace di
fare un nodo scorsoio, non essendosi mai spostata se non per il
tragitto
Buckingham Palace – Wight, quindi annoda il cordone e la
spinge a impiccarsi.
Adesso” disse, andando a sedersi sulla poltrona.
“Cosa c’entra il ragazzo? O,
meglio: il rapporto di... intima
amicizia che sembra avere con la Principessa Alice c’entra
qualcosa con la
morte della Regina? Non può mirare al trono, non
è Alice l’erede ma Edoardo, e
se avesse voluto uccidere anche lui, l’avrebbe fatto prima
che scoppiasse lo
scandalo, una persona che s’ingegna tanto per far passare un
omicidio per
suicidio non sarebbe tanto stupida da commettere un secondo delitto
quando
l’intero corpo di polizia ha messo le tende a Palazzo e senza
dubbio non le
toglierà fino all’elezione dell’erede.
Però… però, anche se non ha intrapreso
la carriera in marina, suo padre sì e senza dubbio un padre
d’indole militare,
qualunque sia il campo specifico, tende sempre a crescere i propri
figli nello
stesso modo in cui lui stesso è cresciuto. Potrebbe
inconsciamente aver
insegnato al figlio qualcosa che avrebbe potuto aiutarlo
nell’omicidio, ma non
capisco il nesso…”
Per un attimo fui tentato di chiedergli chi fosse il ragazzo, ma
cancellai
immediatamente questa idea dalla mia testa. Chiunque fosse, le
spiegazioni a
riguardo avrebbero potuto benissimo attendere la carrozza del giorno
dopo
quando saremmo tornati a Buckingham. Ciò che mi premeva di
più, al momento, era
assicurarmi che Holmes andasse a riposare e, ovviamente, tenerlo
lontano dall’astuccio
in marocchino.
“Qualche teoria, Watson?” mi chiese, rialzando per
la prima volta lo sguardo su
di me in tutta la serata.
“Le mie teorie sarebbero talmente ridicole e
sbagliate-”
“Come il solito” m’interruppe.
Presi un profondo respiro, stringendo i pugni, e ripresi.
“-sarebbero talmente
ridicole e sbagliate che sarebbe meglio che riposasse prima di subire
un tale
shock per la sua intelligenza. Per l’amor di Dio, Holmes, lei
è umano! Se nelle
sue già pessime condizioni di salute aggiunge tutto lo
stress che si sta
caricando sulle spalle, collasserà prima di domani! Vada a
dormire, si riposi
un po’!” esclamai, esasperato.
“Se fossi stato in grado di riposarmi in un momento simile lo
avrei già fatto,
non crede?” chiese di rimando.
“Lei è perfettamente in grado di riposarsi come
qualunque altro essere umano
malato e sotto stress, solo che se lo impedisce!”
“Non so se l’ha notato, Watson, ma in questo
momento il destino del regno
britannico dipende da me. Lei ha combattuto per
l’Inghilterra, sa quanto sia importante”
“Lo so, ma mi dispiace informarla che tengo più
alla salute del mio migliore
amico che al futuro di un gruppo di funzionari soprappagati che restano
seduti
tutto il giorno all’interno di una stanza!”
Lo zittii. Per la prima volta, da quando lo conoscevo.
Molto probabilmente non si aspettava di sentirmi dire che lo ritenevo
più
importante della nostra Inghilterra, per cui avevo rischiato la vita.
Dunque, quando mi avvicinai alla sua poltrona, lui si alzò
senza una parola.
Gli posai una mano sulla spalla e lo condussi verso la sua camera.
Fu davvero un’impresa epica riuscire ad arrivare al suo letto
senza calpestare
niente sul pavimento. Ancora mi chiedo come faccia a vivere bene in
quelle
condizioni. In guerra, nei nostri accampamenti di fortuna, eravamo
più
ordinati.
Appena si sdraiò sul letto ancora disfatto dalla mattina,
presi la sedia alla
sua scrivania e la avvicinai.
“Sappia che non ho alcuna intenzione di andarmene fino a che
non si sarà
addormentato” annunciai.
Non disse niente ancora una volta, nonostante dovessi essere io a
coprirlo,
altrimenti lui non lo avrebbe fatto.
Contraddicendosi da solo, si addormentò nel giro di pochi
minuti.
Non me ne andai, comunque. Rimasi seduto accanto al suo letto ad
osservare le
sue guance leggermente imporporate e il suo respiro regolare. Almeno
finché lì,
su quella sedia, il sonno vinse anche me.
Quando mi svegliai, non ero sulla sedia, ma avvolto dal calore delle
coperte.
Non capii subito, quando mi misi seduto, perché fossi
immerso nel caos della
camera di Holmes, ma poi ricordai di averlo obbligato ad andare a
dormire,
seppur non sapessi come fossi arrivato nel letto.
Mi voltai dall’altro lato del letto, trovandolo vuoto. Mi
resi conto, allora,
che, come il solito, a svegliarmi erano state le note del violino che
venivano
dal salotto. Guardai l’orologio: le tre in punto.
Si era svegliato, mi aveva messo a letto, e si era alzato. Non riusciva
proprio
a dormire.
Caddi di nuovo con la testa nel cuscino prima di riuscire ad alzarmi.
Il fatto
era che quella stanza era lui; il caos, la stranezza degli oggetti,
persino il
suo profumo, impregnato nelle coperte in cui mi stavo crogiolando come
un
cucciolo in cerca di coccole.
Prima di rendermi conto di cosa stavo facendo, mi ritrovai ad
abbracciare il
suo cuscino. Quando me ne accorsi, me ne allontanai come se mi fossi
scottato,
guardandomi circospetto intorno sperando che non mi avesse visto.
Ma lui era ancora in soggiorno, sentivo ancora le note
nell’aria.
Mi alzai, cercando di uscire dalla fase di stordimento immediata dopo
un sonno
profondo, e mi diressi verso il soggiorno.
Quando lo vidi, mi strappò un sorriso. Era a testa in
giù sulla poltrona, gli
occhi chiusi e, seppure in una posizione molto scomoda, continuava
imperterrito
a suonare quella melodia che lo avevo sentito suonare spesso anche
quando non
avrei dovuto essere a Baker Street, durante il matrimonio, che
interrompeva
ogni volta che si rendeva conto della mia presenza. Una delle mie
preferite.
La musica si fermò quando aprì gli occhi,
fermandosi a guardarmi, ancora
sottosopra.
“Dovrebbe essere a riposare” asserii.
Sbuffò, distogliendo lo sguardo, ma non disse niente come
risposta. Iniziai a
pensare che soffrisse d’insonnia e non me lo avesse mai
detto, perché per
quanto stanco potesse essere, ogni notte, alle tre, si svegliava ed
andava a
suonare.
Ripose il violino a terra, rimanendo comunque in quella scomoda
posizione.
“Watson, ho bisogno del suo aiuto per un esperimento molto
importante” disse
invece, con la voce arrochita dalle molte ore di muto.
“Non le sembra un po’ tardi per dedicarsi alla
chimica?”
“Non ha a che vedere con la chimica, né con il
caso. Può avvicinarsi per
favore?”
Incuriosito – e, ammettiamolo, anche un po’
intimorito: quando mai, durante un
caso importante, Sherlock Holmes si perdeva in esperimenti che non
erano utili
alla soluzione? – mi avvicinai, inginocchiandomi, nonostante
le proteste della
ferita, sul pavimento davanti alla sua poltrona.
Non aveva distolto lo sguardo da me neanche un attimo e adesso i suoi
occhi
ancora lucidi per la febbre sembravano brillare ancora di
più. Forse per la
vicinanza o forse perché, in un modo o nell’altro,
brillavano di più davvero. Era
quella particolare scintilla che aveva quando era vicino alla
conclusione di un
caso particolarmente complicato e mi guardava così, in quel
momento, come se il
caso su cui stava lavorando fossi stato io.
Forse anch’io lo stavo osservando allo stesso modo
perché non riuscivo a capire
quali fossero le sue intenzioni. Poi, oltre agli occhi luminosi, le sue
guance
erano ancora colorate di un lieve rossore e le labbra umide dischiuse.
Era davvero
bellissimo.
Ebbi la tentazione di sollevare una mano almeno fino a toccargli i
capelli.
Volevo sentirli scorrere tra le dita, ma non lo feci. Sarebbe stato
troppo
sconveniente.
“Che cosa devo fare?” chiesi.
Sembrò riflettere molto sulla risposta da darmi, nonostante
mi avesse chiesto
lui di partecipare. Lo vidi deglutire a vuoto, mentre lo sguardo
rimaneva fisso
nel mio.
“Deve baciarmi”
Mi sembrò che il tempo si fermasse.
Forse stavo ancora dormendo, forse avevo bevuto troppo a cena, ma non
riuscivo
a credere che quelle parole fossero uscite davvero dalle sue labbra.
Alla fine, uno di quei banalissimi luoghi comuni è vero.
Aspetti qualcosa per
tutta la vita e quando arriva, non sei mai abbastanza preparato.
“Cosa-?” mormorai, sconvolto.
Considerai di essere, sì, sveglio, ma ancora stordito dal
sonno, quindi avergli
sentito dire quello che io volevo sentire. Avevo bisogno di
sentirglielo
ripetere prima di rischiare di rovinare per sempre la nostra amicizia
che, fino
a quel momento, era quanto di più prezioso avessi.
“Mi ha sentito benissimo, non mi costringa a
ripetermi”
Non ci pensai più.
Mi chinai su di lui e lo baciai.