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Autore: wari    20/07/2011    5 recensioni
Perché è estate, sì, e fa caldo, e c'è già Kiba che se ne strafotte della temperatura e ti sta comunque addosso, quindi sessanta chili di maremmano a rincarar la dose non sono ben accetti. A maggior ragione se quello stare addosso è finalizzato ad attività intime che dovrebbero riguardare solo lui e Kiba. O che in ogni caso non dovrebbero riguardare un cane. Non sul suo letto, almeno.
[Kiba/Shikamaru di buon compleanno, per slice]
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kiba Inuzuka, Shikamaru Nara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Segue dal primo paragrafo. Il rating è giallo perché Kiba è nudissimo (?).



Kiba prende sempre limone e cioccolato.
Lappa con voracità, mordicchiando il cono ancor prima di finire le palline perché, dice, il cibo vero è quello che si mastica.
«Hai il cioccolato sul naso» comunica Shikamaru, senza smettere di ingerire il suo sobrio pistacchio alla maniera tradizionale.
«E se tu non ti sbrighi si scioglie, genio» ribatte Kiba, decapitando il limone.
Shikamaru sbuffa, accaldato. Uscire di casa con Kiba è come stare in casa con Kiba: tutto un movimento continuo.
E il peggio è che, anche se mai lo ammetterà ad alta voce, lasciarsi trascinare da Kiba rientra probabilmente tra le cose più salutari che abbia mai fatto a partire dalla nascita. E gli sta un gran bene, mica no.
Cioè, è faticoso e tutto il resto, però è contento quando poi, più tardi, può finalmente crollare su un prato o nel suo letto. Dorme anche meglio e pensa più sgombro, liscio; sente meglio l'odore dell'erba e coglie meglio la forma delle nuvole.
Solo che c'è un ma.
Il ma gli sta uggiolando dietro da mezz'ora.
«Akamaru, non posso dartelo, ti fa male!» spiega Kiba, paziente e dispiaciuto. E si vede che si sente in colpa, col suo cono in mano. Solo che faceva caldo, ma proprio caldo, e ha ceduto. Tanto più che ad offrire è sempre Shikamaru.
«Ora ce ne possiamo tornare a casa?» fa il genio, insofferente. Gli uggioli di Akamaru gli si sono incollati addosso come l'afa cisposa che gli impregna i vestiti.
Il sole spaccherebbe le pietre, se le pietre non fossero già liquefatte, e Shikamaru sinceramente trova tutta la questione enormemente faticosa; se fa caldo fuori e fa caldo dentro, non è più intelligente stare dentro, dove c'è il letto?
«Che seccatura che sei!» lo rimbecca Kiba, ghignando non troppo interiormente. «Andiamo a cercarci un prato dai, Akamaru deve farla. Scusa, amico» aggiunge poi rivolto al cane, quando un ringhio gli fa presente di aver appena violato la sua privacy in maniera assai inopportuna.
Le due bestie continuano a discutere tra loro e Shikamaru finisce per sentirsi un po' come quando sua madre si lamenta della sua pigrizia con quello scansafatiche di suo padre, berciando a tavola come se il figlio non fosse seduto a mezzo metro da lei con le bacchette in mano.
Cerca di sbuffare, convogliando tutta la sua concentrazione nell'atto di ingoiare quell'aria pesante e umida e poi soffiarla fuori, quando si sbilancia per evitare un oggetto verde non meglio identificato che rotola giù dalla salita – sì, perché Kiba gli fa fare pure le salite. È una calamità, più sfiancante ed efficace delle diete nutrientipocaloriche di Ino a base di segale e bambù.
Spalanca gli occhi, solleva la gamba e poi segue la caduta dell'affare giù, oltre il cavallo dei suoi pantaloni.
«Attenzione!» sbraita Kiba, accanto a lui, e salta sul posto per evitare un altro robo rotolante, a sua volta seguito a ruota da una pioggia di grossi, succosi robi verdi che rotolano giù dall'avvallamento. Akamaru abbaia perplesso e anche ragionevolmente infastidito, ché gli scappa urgente.
Al seguito delle palle rotolanti, arriva un nonnetto urlante con una carriola ormai vuota che se lo sta tirando giù.
«Toglietevi di mezzo!» muggisce affannato, appena prima che Kiba e Akamaru si gettino sopra Shikamaru per evitare di essere falciati; e palparselo un po' casualmente, anche.
«Akamaru, basta!» biascica il genio, quando le avances del botolo si fanno troppo invadenti e si ritrova una lingua rasposa e filante di bava che gli annacqua l'orecchio.
«Ehi, ehi!» fa Kiba, per nulla ingelosito. Tira Shikamaru per il codino, incurante del fatto che lui sia ancora crocifisso sull'asfalto dal peso di Akamaru, e lo costringe a prestargli la dovuta attenzione.
«Guarda!» esclama, deliziato per motivi che esulano dalla comprensione umana, dato che sta col culo sull'asfalto rovente ed è sudato e sporco di polvere.
Shikamaru riesce finalmente a strisciare via da sotto il pelo bianco, si scortica un gomito appena dopo esserselo abbrustolito e acquista una posizione più umana, anche se ancora liquefatta.
Con gli occhi feriti dalla luminosità fastidiosa che viene giù dal cielo plumbeo, inquadra la sagoma di Kiba abbracciata fiera ad un pallone verde, che non è un pallone ma un cocomero. E gongola.
Kiba, non il cocomero.
«Ecco, questo è già un cibo più serio, anche se sa comunque di acqua» commenta, tentando senza successo di far roteare l'anguria sull'indice come fosse una palla; gli scappa via e finisce sulla coda di Akamaru, che latra dritto nell'orecchio di Shikamaru, a turbare il già turbato genio.
«Su, andiamo a mangiare» annuncia subito dopo Inuzuka; si alza in piedi e pretende con una certa inavvedutezza di riuscire davvero a tirarsi dietro Shikamaru. In realtà si conquista solo una presa sudaticcia sul suo polso ed uno stiramento delle vertebre lombo-sacrali.
«Shikamaaaru» guaisce, col tono molto “Akamaaaru” che usa alle volte quando il botolo è stanco di farlo giocare e si accuccia ansimante e deciso a riposare per almeno un quarto d'ora, ché ormai ha più di dieci anni e tenere a bada il padrone è diventato spossante.
Kiba sistema meglio il cocomero tra le braccia e si pianta nel mezzo della strada a guardare il compagno con espressione di biasimo. Akamaru si associa per solidarietà e rifila pure lui un'occhiataccia alla cosa spalmata sotto la sua pancia, senza dimenticare di fargli colare un po' di bava in fronte.
A Shikamaru verrà un esaurimento, prima o poi, ma fa anche troppo caldo per mettersi a discutere, e comunque è in minoranza numerica: perciò si puntella sui gomiti e cerca di alzarsi senza limitare gli sbuffi, perché sbuffare è uno dei pochi diritti rimastigli.
Seccato, Akamaru soffia forte e li molla lì, trottando poi verso un cespuglio per svuotarsi la vescica, ché se aspetta Shikamaru rischia le coliche.
«Dai, Shikamaru! Sta per piovere!» rincara Kiba, annusando l'aria. Shikamaru fa in tempo giusto a spolverarsi pigro i pantaloni e alzare istintivamente gli occhi al cielo, che una goccia enorme gli precipita dritta in fronte e poi cola sul naso, tracciando una scia ben visibile tra le sue sopracciglia aggrottate.
«Ahia! Mi ha colpito!» latra Kiba, a due passi; Shikamaru si volta e lo trova a passarsi il palmo sull'occhio, con la lingua tra i denti.
Alla seconda goccia che minaccia di colpirlo nell'occhio, ulula sovrastando anche i rombi di tuono e si piazza il cocomero sotto al braccio, prima di afferrare la manica di Shikamaru con la mano libera. «Su, ti muovi?»
Il genio boccheggia un istante e poi è costretto suo malgrado ad allungare il passo quel tanto che consenta a Kiba di trottare; e non scivola indietro solo perché arriva il muso di Akamaru, che comincia a spingerlo stampandogli il naso umido tra le natiche, il testone enorme e peloso che gli solletica la schiena anche da sopra la stoffa della maglia.
La pioggia cade fitta a gocce pesanti e impatta al suolo in mille schizzi, portando giù anche polvere e afa; l'aria non rinfresca, Shikamaru non distingue più l'acqua dal suo sudore e convincere i polmoni a masticare quell'ammasso di gas umidicci è faticoso due volte di più, se bisogna anche tenere il passo di due bestie: non ce la può fare.
«Kibaaa» rantola, dopo una trentina di metri. «Kibaaa!»
«Che c'è?» urla lui, oltre il brusio della pioggia e le proteste delle tettoie in concerto.
«Ferma-ti» e il brontolio quasi si perde.
Kiba però recepisce, e allora devia e lo trascina via, in un vicolo che dà su un cortiletto interno, tra serrande chiuse e vecchie cassette vuote accatastate contro il muro punteggiato di gocce.
Shikamaru solleva lo sguardo in alto, il polso ancora stretto tra le dita ruvide di Kiba e Akamaru che lo sostiene da dietro, ansimando un po' anche lui, con la lingua pendula; oltre l'orlo dei palazzi chiari che incorniciano la fetta di cielo, la pioggia se possibile si è intensificata, e viene giù a grappoli fitti direttamente dalle nuvole basse, attraversate da una luminosità fredda che ferisce la vista e costringe a strizzare gli occhi.
«Ehi» Kiba gli alita sul naso, attirando la sua attenzione sull'aspetto da cane bagnato che si è guadagnato con quella passeggiatina nell'acqua; aspetto che probabilmente condivide con lui stesso, così come con Akamaru, che cerca invano di sgrullarsi l'acqua di dosso da un minuto buono, ottenendo unicamente di deviare le gocce e spettinarsi il pelo, appena prima di tornare a grondare acqua come una spugna uggiolante.
Kiba ride e scambia con lui qualche latrato particolarmente selvaggio, senza lasciare Shikamaru.
Il genio, nonostante sia genio, non capisce nulla di quel che si dicono, ma alla fine Akamaru si allontana contrariato, sciacquettando con le zampone nelle pozzanghere; lancia un'occhiata al padrone, e poi sparisce dietro l'angolo, senza smettere di soffiare forte l'aria dalle narici per liberarsi dalla pioggia.


Non ha l'acqua nelle mutande per semplici motivazioni di carattere pratico: non si può avere un contenuto se non si ha un contenitore, anche se è quasi sicuro che adesso le sue mutande ospitino non solo acqua, ma anche erbacce, terriccio e ad altri prodotti di madre natura che al momento lo interessano ben poco. Sarà che sono a diversi metri da lui, abbandonate in un vaso di fiori ben curati, e sarà che Kiba è di nuovo nudissimo, e come se non bastasse lo sta esplorando da buoni cinque minuti neanche fosse convinto di trovargli tartufi sotto le ascelle.
«Genio» gorgoglia una voce arrochita nell'orecchio di Shikamaru, sopra lo scrosciare tintinnante della pioggia che picchia sulla tettoia di lamiera, unico riparo dall'acqua; riparo un po' inutile, considerato che di pioggia ce n'è parecchia anche lì a terra, e averci ammucchiato sopra i vestiti rende solo la faccenda umidiccia invece che zuppa, ma di certo non asciutta.
Shikamaru dà una capocciata al cocomero ormai abbandonato a se stesso e Kiba finisce per azzannargli direttamente un orecchio, a quanto pare divertendosi un mondo.
«Ci prenderemo qualcosa di brutto, e non parlo di un'influenza...» fa presente il genio, puntellandosi su di un gomito con estrema fatica, cercando di rinvenire almeno un pezzo di Kiba, che sta lì da qualche parte sotto il suo mento, sulla sua pancia, tra le sue gambe, ovunque, tutto contemporaneamente.
«Riesci a smettere di pensare per una decina di minuti, genio?» replica quello, un po' spiccio, ma con l'aria di godersela un mondo. Risale svelto con le mani tra panni e selciato, e gli rifila un bacio zannuto ma coinvolgente, quel tanto che basti a far dimenticare all'altro la questione tetano e malattie batteriologiche varie che si possono prendere facendo sesso all'aperto in un giorno di pioggia davanti al portone di un condominio sconosciuto.
In un attimo di lucidità, Shikamaru, steso sui suoi vestiti zuppi, nudo e coi capelli fradici, sotto un Kiba più nudo di lui - perché per qualche ragione ai suoi occhi Kiba non è mai solo nudo, è nudissimo - raggiunge in un attimo quella tragica consapevolezza: la condanna per atti osceni in luogo pubblico figurerà presto sulla sua povera fedina penale; fortunatamente, Kiba decide di staccargli l'irrorazione di sangue al cervello per convogliarla da un'altra parte, e tanti saluti alle considerazioni da persona civilizzata. L'unico pensiero coerente, prima di perdersi del tutto, è che non ce la si fa: quando sta con Kiba ci deve per forza essere un terzo incomodo nel letto, giaciglio, prato o qualsiasi sia il posto in cui lo stanno facendo: di solito è Akamaru, oggi è un enorme cocomero verde, che rotola qua e là senza pace, schizzando acqua.
«Che seccatura» si lascia sfuggire, prima di spingerlo via con una maldestra pedata.


Iruka Umino vive nei pressi dell'Accademia. È sempre vissuto nei pressi dell'Accademia e, dopo la ricostruzione del villaggio, si è visto assegnare nuovamente un appartamento lì nei dintorni, in un condominio dall'aria già vissuta, con un cortile interno piccolo, ma accogliente e curato; ci sono vasi di fiori ben tenuti dalla portinaia, appassionata di giardinaggio e floricultura. Iruka stesso, per ringraziarla di alcune gentilezze – la sua ottima torta di riso, il domandare sempre se abbia bisogno di qualcosa quando esce per far la spesa – le ha regalato alcuni bulbi comprati al negozio di fiori della signora Yamanaka: sono cresciute delle belle piantine di colore vivace come la tuta di Naruto, e adesso occupano i due grossi vasi davanti all'ingresso del palazzo.
Ci ha pensato perché, con quella pioggia, teme che la tettoia ceda e crolli sui vasi: forse dovrebbe spostarli dentro, almeno fino alla fine dell'acquazzone.
Ma l'intensità del temporale comincia a scemare non appena intravede il vicolo e ci si imbuca, senza rallentare il passo veloce che aveva tenuto dal ritorno dall'Accademia, quando la pioggia l'ha sorpreso. Si rallegra quando gli pare che il cielo si stia aprendo almeno un poco e procede per qualche altro metro col mento alzato, distratto tanto da non vedere la montagnola bianca sul suo cammino.
Akamaru scatta e abbaia, sorpreso e mezzo insonnolito; Iruka sobbalza e quasi porta la mano al kunai, con gli occhi sgranati.
Si ferma di colpo e mette a fuoco il cane, sorpreso.
«Akamaru?» borbotta, prima di rilassare il braccio e ridacchiare, sollevato. «Che ci fai qui, dov'è Kiba?» domanda col tono bonario che adotterebbe con uno qualsiasi dei suoi allievi. Del resto, Akamaru è stato in classe tanto quanto Kiba, e poco ci mancava che fosse lui a sostenere i test; l'unica differenza con il resto dei suoi ex alunni, è che non è solito elargire loro grattatine dietro le orecchie, anche se alle volte con Kiba verrebbe quasi la tentazione.
Akamaru, dall'alto della sua canina sapienza, non risponde, però lecca affettuoso il palmo della sua mano e gli afferra delicatamente l'orlo della manica tra i denti, spingendolo un poco in avanti.
Iruka gli rivolge un'occhiata un po' perplessa, poi procede scivolando un po' sul suolo bagnato, e sbuca nel cortile. Inquadra i vasi coi fiori arancioni e si rasserena, ché sono entrambi perfettamente a posto; la tettoia regge.
«'Giorno, Iruka sensei!» fa una voce graffiante, con allegria.
Iruka lascia perdere i vasi e si volta di qualche grado, distogliendo lo sguardo dalle piante.
Sotto la tettoia, nei suoi vestiti zuppi di pioggia, c'è Kiba Inuzuka, spettinato e con l'aria accaldata nonostante sia del tutto fradicio. Accanto a lui, Shikamaru Nara sta seduto su un cocomero ed è impegnato ad infilarsi un sandalo; solleva la testa, grondando acqua dal codino, ed esibisce un breve ma cordiale cenno di saluto.
«'Giorno. Nessuno ha ricordato l'ombrello» commenta, sollevandosi poi in piedi.
Iruka sorride, senza però dimenticare di essere decisamente stupito di trovarli lì; solo che, quando fa per domandare qualcosa, Akamaru lo supera spargendo acqua tutt'attorno per fiondarsi addosso a Kiba, possessivo, e dare inizio ad un dialogo incomprensibile a metà degli astanti.
«Beh, noi andremmo...» delibera Shikamaru, tranquillo. Imbraccia il cocomero mostrando una certa stanchezza, saluta nuovamente Iruka con un cenno cortese e assesta una pacca sulla spalla di Kiba, che riemerge dal suo dibattito col cane, che aveva acquisito i toni di una scenata di gelosia; non c'è però traccia di turbamento, quando si gira per salutare a sua volta Iruka con una mano levata, e augura buona giornata sorridendo ferino.
Iruka rimane per qualche secondo immobile nel mezzo del cortile, un piede immerso completamente in una pozzanghera, e segue le schiene degli allievi che spariscono dietro l'angolo, Shikamaru, cocomero sotto braccio e andatura fiacca, e Kiba, con le braccia incrociate dietro la nuca e Akamaru incollato al fianco.
Quando dei tre sono rimaste solo le impronte, sia umane che canine, Iruka si riscuote di colpo, con un mezzo sorriso incredulo ancora dipinto in faccia, e si volta per entrare.
Immerge la mani nelle tasche, trovandole tragicamente zuppe, ed estrae le chiavi di casa. Solo quando ormai le ha già infilate nella toppa e sta per girare, nota qualcosa cui non aveva fatto caso.
Sgrana gli occhi e torce il collo, fino ad inquadrare il grosso vaso colmo di fiori arancioni. Ci sono i fiori, le foglie piccole e scure, e sopra, quasi fossero cadute dal cielo, un paio di mutande da uomo bagnate fradicie che gocciolano sui petali.
Iruka le guarda, e un pensiero strano gli attraversa la mente; un pensiero fatto di cani guardiani, Shikamaru che hanno bisogno di rimettersi i sandali e Kiba dall'aspetto soddisfatto.
Scuote la testa con energia, ritrovandosi a ridere da solo con la mano ancora attaccata alla chiave, i capelli gocciolanti e l'acqua nei sandali. Si sporge senza smettere di ridacchiare e raccoglie le mutande incriminate, senza dubbio cadute da qualche finestra del condominio: le lascerà in portineria.
Sollevato, le osserva ancora per qualche istante, e poi inquadra la targhetta dall'aspetto casalingo che sta cucita all'interno. Recita: “Shikamaru Nara”.
Iruka sgrana gli occhi e si volta istintivamente verso il cortile; le gocce crollano giù dalla tettoia con un suono ritmico e cadenzato, e gli rimbombano nelle orecchie.
«E il cocomero a che serviva?» si ritrova a domandare ad alta voce, profondamente turbato.




Nda
Betata da quella tre volte santa di mack. Quel che c'è di decente è suo, le cavolate invece sono tutte mie.

Beh, ali, visto che sono riuscita a metterci quasi tre settimane? È che una partoriente ha dato alla luce suo figlio sulla mia tastiera proprio mentre gli alieni mi rapivano ù-ù
Riauguri, tata.




  
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