Segue dal primo paragrafo. Il rating è giallo perché Kiba è nudissimo (?).
Kiba
prende sempre limone e cioccolato.
Lappa
con voracità, mordicchiando il cono ancor prima di finire le palline
perché, dice, il cibo vero è quello che si mastica.
«Hai
il cioccolato sul naso» comunica Shikamaru, senza smettere di
ingerire il suo sobrio pistacchio alla maniera tradizionale.
«E
se tu non ti sbrighi si scioglie, genio» ribatte Kiba, decapitando
il limone.
Shikamaru
sbuffa, accaldato. Uscire di casa con Kiba è come stare in casa con
Kiba: tutto un movimento continuo.
E il peggio è che, anche se mai lo ammetterà ad alta voce,
lasciarsi trascinare da Kiba rientra probabilmente tra le cose più
salutari che abbia mai fatto a partire dalla nascita. E gli sta un
gran bene, mica no.
Cioè,
è faticoso e tutto il resto, però è contento quando poi, più
tardi, può finalmente crollare su un prato o nel suo letto. Dorme
anche meglio e pensa più sgombro, liscio; sente meglio l'odore
dell'erba e coglie meglio la forma delle nuvole.
Solo
che c'è un ma.
Il
ma gli sta uggiolando dietro da mezz'ora.
«Akamaru,
non posso dartelo, ti fa male!» spiega Kiba, paziente e
dispiaciuto. E si vede che si sente in colpa, col suo cono in mano.
Solo che faceva caldo, ma proprio caldo, e ha ceduto. Tanto più che
ad offrire è sempre Shikamaru.
«Ora
ce ne possiamo tornare a casa?» fa il genio, insofferente. Gli
uggioli di Akamaru gli si sono incollati addosso come l'afa cisposa
che gli impregna i vestiti.
Il
sole spaccherebbe le pietre, se le pietre non fossero già
liquefatte, e Shikamaru sinceramente trova tutta la questione
enormemente faticosa; se fa caldo fuori e fa caldo dentro, non è più
intelligente stare dentro, dove c'è il letto?
«Che
seccatura che sei!» lo rimbecca Kiba, ghignando non troppo
interiormente. «Andiamo a cercarci un prato dai, Akamaru deve farla.
Scusa, amico» aggiunge poi rivolto al cane, quando un ringhio gli fa
presente di aver appena violato la sua privacy in maniera assai
inopportuna.
Le
due bestie continuano a discutere tra loro e Shikamaru finisce per
sentirsi un po' come quando sua madre si lamenta della sua pigrizia
con quello scansafatiche di suo padre, berciando a tavola come se il
figlio non fosse seduto a mezzo metro da lei con le bacchette in
mano.
Cerca
di sbuffare, convogliando tutta la sua concentrazione nell'atto di
ingoiare quell'aria pesante e umida e poi soffiarla fuori, quando si
sbilancia per evitare un oggetto verde non meglio identificato che
rotola giù dalla salita – sì, perché Kiba gli fa fare pure le
salite. È una calamità, più sfiancante ed efficace delle diete
nutrientipocaloriche di Ino a base di segale e bambù.
Spalanca
gli occhi, solleva la gamba e poi segue la caduta dell'affare giù,
oltre il cavallo dei suoi pantaloni.
«Attenzione!»
sbraita Kiba, accanto a lui, e salta sul posto per evitare un altro
robo rotolante, a sua volta seguito a ruota da una pioggia di
grossi, succosi robi verdi che rotolano giù
dall'avvallamento. Akamaru abbaia perplesso e anche ragionevolmente
infastidito, ché gli scappa urgente.
Al
seguito delle palle rotolanti, arriva un nonnetto urlante con
una carriola ormai vuota che se lo sta tirando giù.
«Toglietevi
di mezzo!» muggisce affannato, appena prima che Kiba e Akamaru si
gettino sopra Shikamaru per evitare di essere falciati; e palparselo
un po' casualmente, anche.
«Akamaru,
basta!» biascica il genio, quando le avances del botolo si
fanno troppo invadenti e si ritrova una lingua rasposa e filante di
bava che gli annacqua l'orecchio.
«Ehi,
ehi!» fa Kiba, per nulla ingelosito. Tira Shikamaru per il codino,
incurante del fatto che lui sia ancora crocifisso sull'asfalto dal
peso di Akamaru, e lo costringe a prestargli la dovuta attenzione.
«Guarda!»
esclama, deliziato per motivi che esulano dalla comprensione umana,
dato che sta col culo sull'asfalto rovente ed è sudato e sporco di
polvere.
Shikamaru
riesce finalmente a strisciare via da sotto il pelo bianco, si
scortica un gomito appena dopo esserselo abbrustolito e acquista una
posizione più umana, anche se ancora liquefatta.
Con
gli occhi feriti dalla luminosità fastidiosa che viene giù dal
cielo plumbeo, inquadra la sagoma di Kiba abbracciata fiera ad un
pallone verde, che non è un pallone ma un cocomero. E gongola.
Kiba,
non il cocomero.
«Ecco,
questo è già un cibo più serio, anche se sa comunque di acqua»
commenta, tentando senza successo di far roteare l'anguria
sull'indice come fosse una palla; gli scappa via e finisce sulla coda
di Akamaru, che latra dritto nell'orecchio di Shikamaru, a turbare il
già turbato genio.
«Su,
andiamo a mangiare» annuncia subito dopo Inuzuka; si alza in piedi
e pretende con una certa inavvedutezza di riuscire davvero a
tirarsi dietro Shikamaru. In realtà si conquista solo una presa
sudaticcia sul suo polso ed uno stiramento delle vertebre
lombo-sacrali.
«Shikamaaaru»
guaisce, col tono molto “Akamaaaru” che usa alle volte
quando il botolo è stanco di farlo giocare e si accuccia ansimante e
deciso a riposare per almeno un quarto d'ora, ché ormai ha più di
dieci anni e tenere a bada il padrone è diventato spossante.
Kiba
sistema meglio il cocomero tra le braccia e si pianta nel mezzo della
strada a guardare il compagno con espressione di biasimo. Akamaru si
associa per solidarietà e rifila pure lui un'occhiataccia alla cosa
spalmata sotto la sua pancia, senza dimenticare di fargli colare un
po' di bava in fronte.
A
Shikamaru verrà un esaurimento, prima o poi, ma fa anche troppo
caldo per mettersi a discutere, e comunque è in minoranza numerica:
perciò si puntella sui gomiti e cerca di alzarsi senza limitare gli
sbuffi, perché sbuffare è uno dei pochi diritti rimastigli.
Seccato,
Akamaru soffia forte e li molla lì, trottando poi verso un cespuglio
per svuotarsi la vescica, ché se aspetta Shikamaru rischia le
coliche.
«Dai,
Shikamaru! Sta per piovere!» rincara Kiba, annusando l'aria.
Shikamaru fa in tempo giusto a spolverarsi pigro i pantaloni e alzare
istintivamente gli occhi al cielo, che una goccia enorme gli
precipita dritta in fronte e poi cola sul naso, tracciando una scia
ben visibile tra le sue sopracciglia aggrottate.
«Ahia!
Mi ha colpito!» latra Kiba, a due passi; Shikamaru si volta e lo trova
a passarsi il palmo sull'occhio, con la lingua tra i denti.
Alla
seconda goccia che minaccia di colpirlo nell'occhio, ulula sovrastando
anche i rombi di tuono e si
piazza il cocomero sotto al braccio, prima di afferrare la manica di
Shikamaru con la mano libera. «Su, ti muovi?»
Il
genio boccheggia un istante e poi è costretto suo malgrado ad
allungare il passo quel tanto che consenta a Kiba di trottare; e non
scivola indietro solo perché arriva il muso di Akamaru, che
comincia a spingerlo stampandogli il naso umido tra le natiche, il
testone enorme e peloso che gli solletica la schiena anche da sopra
la stoffa della maglia.
La
pioggia cade fitta a gocce pesanti e impatta al suolo in mille
schizzi, portando giù anche polvere e afa; l'aria non rinfresca,
Shikamaru non distingue più l'acqua dal suo sudore e convincere i
polmoni a masticare quell'ammasso di gas umidicci è faticoso due
volte di più, se bisogna anche tenere il passo di due bestie: non ce
la può fare.
«Kibaaa»
rantola, dopo una trentina di metri. «Kibaaa!»
«Che
c'è?» urla lui, oltre il brusio della pioggia e le proteste delle
tettoie in concerto.
«Ferma-ti»
e il brontolio quasi si perde.
Kiba
però recepisce, e allora devia e lo trascina via, in un vicolo che
dà su un cortiletto interno, tra serrande chiuse e vecchie cassette
vuote accatastate contro il muro punteggiato di gocce.
Shikamaru
solleva lo sguardo in alto, il polso ancora stretto tra le dita
ruvide di Kiba e Akamaru che lo sostiene da dietro, ansimando un po'
anche lui, con la lingua pendula; oltre l'orlo dei palazzi chiari che
incorniciano la fetta di cielo, la pioggia se possibile si è
intensificata, e viene giù a grappoli fitti direttamente dalle
nuvole basse, attraversate da una luminosità fredda che ferisce la
vista e costringe a strizzare gli occhi.
«Ehi»
Kiba gli alita sul naso, attirando la sua attenzione sull'aspetto da
cane bagnato che si è guadagnato con quella passeggiatina
nell'acqua; aspetto che probabilmente condivide con lui stesso, così
come con Akamaru, che cerca invano di sgrullarsi l'acqua di dosso da
un minuto buono, ottenendo unicamente di deviare le gocce e
spettinarsi il pelo, appena prima di tornare a grondare acqua come
una spugna uggiolante.
Kiba
ride e scambia con lui qualche latrato particolarmente selvaggio,
senza lasciare Shikamaru.
Il
genio, nonostante sia genio, non capisce nulla di quel che si dicono,
ma alla fine Akamaru si allontana contrariato,
sciacquettando con le zampone nelle pozzanghere; lancia un'occhiata
al padrone, e poi sparisce dietro l'angolo, senza smettere di
soffiare forte l'aria dalle narici per liberarsi dalla pioggia.
Non
ha l'acqua nelle mutande per semplici motivazioni di carattere
pratico: non si può avere un contenuto se non si ha un contenitore,
anche se è quasi sicuro che adesso le sue mutande ospitino non solo
acqua, ma anche erbacce, terriccio e ad altri prodotti di madre
natura che al momento lo interessano ben poco. Sarà che sono a
diversi metri da lui, abbandonate in un vaso di fiori ben curati, e
sarà che Kiba è di nuovo nudissimo, e come se non bastasse lo sta
esplorando da buoni cinque minuti neanche fosse convinto di trovargli
tartufi sotto le ascelle.
«Genio»
gorgoglia una voce arrochita nell'orecchio di Shikamaru, sopra lo
scrosciare tintinnante della pioggia che picchia sulla tettoia di
lamiera, unico riparo dall'acqua; riparo un po' inutile, considerato
che di pioggia ce n'è parecchia anche lì a terra, e averci
ammucchiato sopra i vestiti rende solo la faccenda umidiccia invece
che zuppa, ma di certo non asciutta.
Shikamaru
dà una capocciata al cocomero ormai abbandonato a se stesso e Kiba
finisce per azzannargli direttamente un orecchio, a quanto pare
divertendosi un mondo.
«Ci
prenderemo qualcosa di brutto, e non parlo di un'influenza...» fa
presente il genio, puntellandosi su di un gomito con estrema fatica,
cercando di rinvenire almeno un pezzo di Kiba, che sta lì da qualche
parte sotto il suo mento, sulla sua pancia, tra le sue gambe,
ovunque, tutto contemporaneamente.
«Riesci
a smettere di pensare per una decina di minuti, genio?» replica
quello, un po' spiccio, ma con l'aria di godersela un mondo. Risale
svelto con le mani tra panni e selciato, e gli rifila un bacio
zannuto ma coinvolgente, quel tanto che basti a far dimenticare
all'altro la questione tetano e malattie batteriologiche varie che si
possono prendere facendo sesso all'aperto in un giorno di pioggia
davanti al portone di un condominio sconosciuto.
In
un attimo di lucidità, Shikamaru, steso sui suoi vestiti zuppi, nudo
e coi capelli fradici, sotto un Kiba più nudo di lui - perché per
qualche ragione ai suoi occhi Kiba non è mai solo nudo, è nudissimo
- raggiunge in un attimo quella tragica consapevolezza: la condanna
per atti osceni in luogo pubblico figurerà presto sulla sua povera
fedina penale; fortunatamente, Kiba decide di staccargli
l'irrorazione di sangue al cervello per convogliarla da un'altra
parte, e tanti saluti alle considerazioni da persona civilizzata.
L'unico pensiero coerente, prima di perdersi del tutto, è che non ce
la si fa: quando sta con Kiba ci deve per forza essere un terzo
incomodo nel letto, giaciglio, prato o qualsiasi sia il posto in cui
lo stanno facendo: di solito è Akamaru, oggi è un enorme cocomero
verde, che rotola qua e là senza pace, schizzando acqua.
«Che
seccatura» si lascia sfuggire, prima di spingerlo via con una
maldestra pedata.
Iruka
Umino vive nei pressi dell'Accademia. È sempre vissuto nei pressi
dell'Accademia e, dopo la ricostruzione del villaggio, si è visto
assegnare
nuovamente un appartamento lì nei dintorni, in un condominio
dall'aria già vissuta, con un cortile interno piccolo, ma
accogliente e curato; ci sono vasi di fiori ben tenuti dalla
portinaia, appassionata di giardinaggio e floricultura. Iruka stesso,
per ringraziarla di alcune gentilezze – la sua ottima torta di
riso, il domandare sempre se abbia bisogno di qualcosa quando esce
per far la spesa – le ha regalato alcuni bulbi comprati al negozio
di fiori della signora Yamanaka: sono cresciute delle belle piantine
di colore vivace come la tuta di Naruto, e adesso occupano i due
grossi vasi davanti all'ingresso del palazzo.
Ci
ha pensato perché, con quella pioggia, teme che la tettoia ceda e
crolli sui vasi: forse dovrebbe spostarli dentro, almeno fino alla
fine dell'acquazzone.
Ma
l'intensità del temporale comincia a scemare non appena intravede il
vicolo e ci si imbuca, senza rallentare il passo veloce che aveva
tenuto dal ritorno dall'Accademia, quando la pioggia l'ha sorpreso.
Si rallegra quando gli pare che il cielo si stia aprendo almeno un poco
e
procede per qualche altro metro col mento alzato, distratto tanto da
non vedere la montagnola bianca sul suo cammino.
Akamaru
scatta e abbaia, sorpreso e mezzo insonnolito; Iruka sobbalza e quasi
porta la mano al kunai, con gli occhi sgranati.
Si
ferma di colpo e mette a fuoco il cane, sorpreso.
«Akamaru?»
borbotta, prima di rilassare il braccio e ridacchiare, sollevato.
«Che ci fai qui, dov'è Kiba?» domanda col tono bonario che
adotterebbe con uno qualsiasi dei suoi allievi. Del resto, Akamaru è
stato in classe tanto quanto Kiba, e poco ci mancava che fosse lui a
sostenere i test; l'unica differenza con il resto dei suoi ex alunni,
è che non è solito elargire loro grattatine dietro le orecchie,
anche se alle volte con Kiba verrebbe quasi la tentazione.
Akamaru,
dall'alto della sua canina sapienza, non risponde, però lecca
affettuoso il palmo della sua mano e gli afferra delicatamente l'orlo
della manica tra i denti, spingendolo un poco in avanti.
Iruka
gli rivolge un'occhiata un po' perplessa, poi procede scivolando un
po' sul suolo bagnato, e sbuca nel cortile. Inquadra i vasi coi fiori
arancioni e si rasserena, ché sono entrambi perfettamente a posto; la
tettoia regge.
«'Giorno,
Iruka sensei!» fa una voce graffiante, con allegria.
Iruka
lascia perdere i vasi e si volta di qualche grado, distogliendo lo
sguardo dalle piante.
Sotto la tettoia, nei suoi vestiti zuppi di
pioggia, c'è Kiba Inuzuka, spettinato e con l'aria accaldata
nonostante sia del tutto fradicio. Accanto
a lui, Shikamaru Nara sta seduto su un cocomero ed è impegnato ad
infilarsi un
sandalo; solleva la testa, grondando acqua dal codino, ed esibisce un
breve ma cordiale cenno di saluto.
«'Giorno.
Nessuno ha ricordato l'ombrello» commenta, sollevandosi poi in
piedi.
Iruka
sorride, senza però dimenticare di essere decisamente stupito di
trovarli lì; solo che, quando fa per domandare qualcosa, Akamaru lo
supera
spargendo acqua tutt'attorno per fiondarsi addosso a Kiba,
possessivo, e dare inizio ad un dialogo incomprensibile a metà degli
astanti.
«Beh,
noi andremmo...» delibera Shikamaru, tranquillo. Imbraccia il
cocomero mostrando una certa stanchezza, saluta nuovamente Iruka con
un cenno cortese e assesta una pacca sulla spalla di Kiba, che
riemerge dal suo dibattito col cane, che aveva acquisito i toni di
una scenata di gelosia; non c'è però traccia di turbamento, quando
si gira per salutare a sua volta Iruka con una mano levata, e augura
buona giornata sorridendo ferino.
Iruka
rimane per qualche secondo immobile nel mezzo del cortile, un
piede immerso completamente in una pozzanghera, e segue le schiene
degli allievi che spariscono dietro l'angolo, Shikamaru, cocomero
sotto braccio e andatura fiacca, e Kiba, con le braccia incrociate
dietro la nuca e Akamaru incollato al fianco.
Quando
dei tre sono rimaste solo le impronte, sia umane che canine, Iruka si
riscuote di colpo, con un mezzo sorriso incredulo ancora dipinto in
faccia, e si volta per entrare.
Immerge
la mani nelle tasche, trovandole tragicamente zuppe, ed estrae le
chiavi di casa. Solo quando ormai le ha già infilate nella toppa e
sta per girare, nota qualcosa cui non aveva fatto caso.
Sgrana
gli occhi e torce il collo, fino ad inquadrare il grosso vaso colmo
di fiori arancioni. Ci sono i fiori, le foglie piccole e scure, e
sopra, quasi fossero cadute dal cielo, un paio di mutande da uomo
bagnate fradicie che gocciolano sui petali.
Iruka
le guarda, e un pensiero strano gli attraversa la mente; un pensiero
fatto di cani guardiani, Shikamaru che hanno bisogno di
rimettersi i sandali e Kiba dall'aspetto soddisfatto.
Scuote
la testa con energia, ritrovandosi a ridere da solo con la mano
ancora attaccata alla chiave, i capelli gocciolanti e l'acqua nei
sandali. Si
sporge senza smettere di ridacchiare e raccoglie le mutande
incriminate, senza dubbio cadute da qualche finestra del condominio: le
lascerà in
portineria.
Sollevato,
le osserva ancora per qualche istante, e poi inquadra la targhetta
dall'aspetto casalingo che sta cucita all'interno. Recita: “Shikamaru
Nara”.
Iruka
sgrana gli occhi e si volta istintivamente verso il cortile; le gocce
crollano giù dalla tettoia con un suono ritmico e cadenzato, e gli
rimbombano nelle orecchie.
«E
il cocomero a che serviva?» si ritrova a domandare ad alta voce,
profondamente turbato.
Nda
Betata
da quella tre volte santa di mack. Quel che c'è di decente è suo,
le cavolate invece sono tutte mie.
Beh,
ali, visto che sono riuscita a metterci quasi tre settimane? È che
una partoriente ha dato alla luce suo figlio sulla mia tastiera
proprio mentre gli alieni mi rapivano ù-ù
Riauguri,
tata.