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Autore: Miss Demy    09/08/2011    35 recensioni
C'è una melodia che suona scandendo i battiti del cuore. E' una melodia fatta di dolci ricordi, di tristi realtà, di amare accettazioni.
E' una melodia che suona quando si prova amore puro e incondizionato.
Che sia per la persona amata o per il frutto dell'amore per quella persona.
Usagi la sente suonare ogni giorno dentro di sè. Da ormai cinque anni.
Dal cap. 3:
- "Il tuo cuore batte forte, Usako."
"Sembra una melodia, Mamo-chan. Ascoltala insieme a me, stanotte."
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Chibiusa, Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Cap.10: Parla con me...

Da quando ne aveva memoria, la piccola Usagi Chiba non aveva mai provato la gioia di addormentarsi sul lettone insieme a entrambi i suoi genitori, non le era stata data mai la possibilità di sentire il cuore riscaldarsi alla vista del suo papà e della sua mamma che pian piano aprivano gli occhi al mattino iniziando a coccolarla, tra piccole risate e sguardi complici, facendole capire che non c’era niente di più bello al Mondo che una bambina potesse desiderare se non l’amore della propria famiglia.
Non era mai capitato, mai successo prima…
Prima di quella mattina del diciotto Giugno.
 
Chibiusa alzò molto lentamente le palpebre percependo una lenta presa che la avvolgeva in un dolce, tenero abbraccio, donandole un senso di protezione al quale non si sarebbe mai abituata, del quale non avrebbe mai potuto fare a meno. La percezione di quel contatto era solo una delle componenti che le avevano appena augurato il miglior Buongiorno di tutta la sua giovanissima vita.
Davanti a sé, infatti, con gli occhi ancora chiusi e le labbra leggermente aperte, la sua mamma dormiva beata mentre una cascata di fili d’oro le incorniciava il viso rivestendo gran parte del cuscino e del materasso. Quanto amava i capelli della madre, quanto adorava poterci giocare arricciandoli tra le dita e sentendoli scivolare poco dopo in maniera morbida.
Si voltò indietro, quel poco per notare il padre e accorgersi che pure lui non era ancora pronto per lasciare da solo il Custode del regno dei Sogni.
Il profumo che aleggiava nella camera, quel giorno, era speciale, unico; il respiro del padre sul proprio collo, il suo odore di dopobarba appena percettibile, misto a quello speziato, intenso della madre, e al proprio, fatto di borotalco e colonia che Usagi soleva metterle sempre dopo il bagno, inebriava le sue narici scaldandole l’anima, facendole capire – finalmente – che profumo avesse la felicità.
 
Lentamente, con le mani, spostò quelle di Mamoru che le cingevano la pancia e si portò in avanti, poggiando la testa sul petto di Usagi, mentre una piccola mano scivolava sulla guancia della ragazza, come tutte le altre mattine.
Pian piano lei alzò le palpebre, sentendo quel dolcissimo peso addosso, quel tocco così delicato misto al profumo di ingenuità e borotalco che avrebbe riconosciuto sempre, ovunque, a occhi chiusi. Un sorriso nacque spontaneo sulle sue labbra notando le ciocche rosee sul proprio braccio e gli occhi nocciola che – come incantati, immobili – aspettavano di potersi finalmente specchiare nei suoi. Con entrambe le braccia, la avvolse in un caldo abbraccio posando un bacio sulla sua fronte.
Fu una sensazione strana, nuova, che faceva scalpitare il suo cuore, che a tratti la lasciava senza respiro, quella che provò notando Mamo-chan dormire sereno, col volto verso di lei. Era un’emozione che la rendeva viva ma paradossalmente la faceva morire lentamente, di una morte dolce, quella che la presenza di lui, accanto a lei, le provocava. Perché non poteva avvicinarsi e accarezzarlo con delicatezza? Perché non poteva stargli talmente vicino da respirare il suo stesso respiro? Perché non poteva abbracciarlo e sentirsi protetta, serena, tra quelle braccia forti? Basta! Non doveva più pensarci, se lo era ripromesso, peccato che a dirsi era stato molto più semplice.
Strinse più forte la piccola tra le sue braccia prima di sussurrarle: “Già sveglia, piccolina?”
La sveglia sul comodino segnava le 8.15; era presto considerando che non doveva andare al lavoro né accompagnare Chibiusa all’asilo.
Chibiusa annuì, alzando il viso per incontrare gli occhi azzurri e ancora assonnati di Usagi. “Ero scomoda, non riuscivo a muovermi con papà” confessò sistemandosi ancora meglio.
La ragazza lasciò uscire una piccola risata istintiva, sperando di non  aver svegliato Mamo-chan. Speranza inutile dato che pian piano il ragazzo strofinò la guancia sul cuscino, muovendosi appena e aprendo gli occhi.
La visione della ragazza stretta alla bambina, mentre fili d’oro e rosei si mischiavano sulle lenzuola illuminò i suoi occhi e dipinse sul suo viso un sorriso. Se avesse potuto tornare indietro, se fosse rinato in altre cento vite, quello era e sarebbe stato l’unico risveglio che avrebbe desiderato avere. Sempre.
“Buongiorno, già sveglie?” domandò guardando Usagi e accarezzando la schiena della piccola.
“Buongiorno Mamo-chan” ricambiò la ragazza “sì, la signorina stamattina si è svegliata presto, vero Chibi-chan?”
La risposta della figlia consistette in un semplice sorriso che sfociò in un’allegra risata; si voltò indietro e stringendosi a lui gli donò un bacio sulla guancia. “Non riuscivo a muovermi, Mamo-chan.”
Al suono, innocente e scherzoso, di quell’appellativo mai usato prima dalla figlia, entrambi i ragazzi si lasciarono andare ad una risata fatta di stupore alla quale si aggiunse pure la bambina, felice per quell’aria di serenità e complicità che si respirava quel giorno.
“Come mi hai chiamato, birbante?” La domanda di Mamoru non ebbe rapida risposta dal momento che le si avvicinò, sollevando il busto dal materasso, prendendola per i fianchi, e iniziando a solleticarla, provocando in lei piccole urla istintive, accompagnate dall’agitarsi  e dallo sbattere dei piedi sul letto.
“Basta! Basta!” implorava con le lacrime agli occhi per il troppo ridere.
Usagi sorrise a quella scena in cui Mamoru, pieno di gioia ed euforia, regalava alla loro bambina momenti che a Chibiusa mancavano spesso, sempre. Lui cercava di colmare, con tutte le attenzioni possibili e le premure esistenti, la mancanza dalla figlia e lei stessa capiva che non era mai abbastanza, mai sufficiente. Né per Chibiusa né per Mamoru. E ciò riportava a un interrogativo che martellava costantemente dentro di sé, quasi a trapanarle il cervello: perché non  tornava da lei? Da Chibiusa? Perché se era consapevole di perdersi tante cose – come aveva detto lui stesso – non chiedeva all’ospedale Newyorkese il trasferimento a Tokyo per il tirocinio? Automaticamente i suoi pensieri, le sue mille domande senza nessuna risposta, le stesero un velo di malinconia sul viso rendendo i suoi occhi cupi; la sua realtà si era appena ovattata, riusciva a stento a udire le risate della piccola e le parole confuse pronunciate dal ragazzo. Voltando indietro, verso il comodino accanto a sé, il volto, lo vide: il carillon.
Fu proprio quell’oggetto dal valore inestimabile che le provocò un senso di curiosità e di disappunto spontaneo, riportandola in sé; si voltò di nuovo verso le due persone più importanti della sua vita e allungando un braccio verso Chibiusa che, a mezz’aria, sorretta da Mamo, rideva divertita, domandò:
“Tu, piccola birbante, ieri sera ti sei divertita a frugare tra le mie cose, non è vero?” con tono sereno, giocoso.
Chibiusa si concentrava per non ridere e, col fiato corto, rispose:
“Non sono stata io, è stato papà!” creando stupore in lei, persino in lui che si sentì tradito, “aiutami mamma!” rideva senza più fiato, cercando di liberarsi dalla presa del padre che la teneva sospesa per aria.

“Ah, è così?!” intervenne lei, avvicinandosi a Mamoru e allungando entrambe le braccia per prendere la bambina, “non ti preoccupare principessina, ti difendo io!” tra un misto fra risata e incredulità.
Prese in braccio la bambina stringendola a sé, fra le sue braccia, mentre la piccola regolarizzava il respiro con il viso poggiato sul petto della madre.
 
“Ma è stata lei a dirmi di prenderlo, io non mi sarei mai permesso” si discolpò lui voltandosi sul fianco per poterla guardare negli occhi, mentre il suo tono passava da ironico a serio, persino mortificato.
Usagi lo capì, accennò un sorriso, e con tono rassicurante lo tranquillizzò: “Non importa Mamo-chan, hai fatto bene, scommetto che la piccola peste ha fatto i capricci!” mentre affondava il viso nei folti capelli rosei e aumentava la stretta.

“Mamma, pensavo che te ne eri andata pure tu e non tornavi più” confessò ingenuamente, “e poi c’erano i tuoni…”
 
A quelle parole, dolorose per tutti e tre, ma sincere, esternate da un cuore puro, sia Usagi che Mamoru sentirono il gelo ghiacciare il sangue nelle vene.
 
“No, piccolina, che dici!” la ragazza cercò di tranquillizzarla con un bacio sui soffici capelli, “la mamma non ti lascia, è soltanto uscita con le zie, sai che è tornata zia Minako?” tentò di cambiare discorso.
 
Certi argomenti, così assidui, così presenti, talvolta inevitabili, riuscivano a distanza di anni, a ferirla dritta al cuore, a lasciarla inerme, sanguinante davanti all’evidenza dei fatti. E quando era Chibiusa a farle capire quanto dolore ci fosse in lei per la mancanza del padre, faceva ancora più male, la ferita non riusciva mai a rimarginarsi.
Forse stava sbagliando tutto! Forse avrebbe dovuto parlare con Mamoru e spiegargli quanto Chibiusa soffrisse. Non erano più soltanto lui e lei, non lo erano più da ormai quasi cinque anni. A volte credeva di essere egoista e degna di quel nome che portava e che a volte le calzava a pennello. Scappava dalla realtà, dall’evidenza, soffriva e rimuginava sulle scelte di lui e sui suoi mille dubbi, pur di non affrontare il problema. Per paura di soffrire di più a seguito di una sua risposta? Per paura di risultare la classica ragazza che limitava i desideri e le ambizioni per egoismo? In quel momento capì che egoista lo era stata ugualmente. Non verso di lui ma verso la bambina che stringeva al seno in un falso abbraccio. Avrebbe dovuto dimostrarle tutto l’amore che aveva per lei prendendo di petto suo padre e parlandogli da persone adulte, da genitori responsabili. Chibiusa meritava amore sincero, meritava gioia, serenità. Lei gliel’avrebbe assicurata da quel momento in poi. Avrebbe parlato con Mamoru, lo avrebbe affrontato. Lo doveva. A se stessa e, soprattutto, a Chibiusa.
 
Mamoru si trovò spiazzato da quelle parole pronunciate con tono malinconico dalla bambina che aveva cambiato la sua vita, la sua considerazione delle cose, che gli aveva mostrato la vita da un punto di vista diverso, migliore, che lui stesso per troppo tempo non era riuscito a notare perché forse troppo immaturo, insicuro, preso da quella vita Newyorkese fatta di ambizioni che gli avevano annebbiato la vista, facendogli perdere la percezione di quelle sensazioni che riscaldano il cuore, che lo fanno battere più forte e fanno capire quali siano le cose – seppur piccole – che rendono felici.
Le parole gli morirono in gola, l’euforia – anche quella volta – si tramutò in sensi di colpa ai quali – testardamente  - non voleva rimediare.
Deglutì a fatica trovando la forza di proferir parola, domandando: “A proposito, cos’è andata la serata?” con sguardo fisso sulla schiena della bambina, avvolta tra le braccia di Usagi, “ti sei divertita?”
La ragazza lasciò uscire un sorriso forzato. “Sì, è stata una bella serata, siamo stati all’Illusion” spiegò, “e credo che tutte le ragazze del locale ci avrebbero voluto morte quando i TreeLights si sono seduti al tavolo con noi.”
 
A quelle parole, Chibiusa spalancò la bocca in un’espressione di sorpresa, alzando il viso verso quello candido della madre e sospirando innervosita.
“Uffa, uffa, non è giusto!” mentre si sedeva sul letto e sbatteva i pugni sul materasso lamentandosi, “anche io volevo conoscere Seiya!”
Mamoru alzò un sopracciglio, guardando la figlia che, con un’espressione adirata, era rivolta verso la ragazza.
“Ah, e così preferivi incontrare Seiya piuttosto che stare qui con me?” cercò di farla calmare spettinandole i capelli.
“Ma io volevo ascoltare Principessa del cielo blu” iniziò a canticchiare quella canzone che ascoltava spesso alla radio o sui canali musicali dedicati ai grandi successi discografici.
“Ascolta, ti prometto che prima che partono te li faccio conoscere, okay?” Usagi le sfiorò il naso con l’indice, cercando, con tono rassicurante, di rendere possibile quel suo piccolo desiderio.
“Davvero?” Chibiusa sgranò gli occhi mentre un sorriso colmo di incredulità e felicità metteva in risalto le sue guance paffute.
“Hm mh” rispose la ragazza annuendo con gli occhi rivolti verso quelli luminosi della figlia, “zia Minako ha detto che organizzerà un’altra uscita prima che partano, parlerò a Seiya e te li presenterò, va bene?”
“Sì!!” L’urlo di gioia della piccola fu accompagnato da un abbraccio rivolto verso la madre e un bacio posato sulla sua guancia.
 
L’unico a non avere curiosità o voglia di conoscere gli Idols del momento era Mamoru che osservava la scena dell’abbraccio tra madre e figlia come uno spettatore esterno. Le parole di Usako, i suoi occhi luminosi mentre pronunciava il nome Seiya, il suo entusiasmo mentre assicurava alla bambina un incontro con i tre cantanti, provocarono in lui un senso di amarezza e di sconforto che, d’istinto, intrappolarono il suo cuore dentro a una morsa invisibile. Non c’era nulla di male, nulla di compromettente, e allora perché sapere che la sua famiglia era contenta all’idea di passare del tempo con dei personaggi famosi, per i quali migliaia di ragazze urlavano fino a piangere dall’emozione suscitata dal vederli, lo intristiva? Sospirò, passando nervosamente una mano tra i capelli.
Il suono del telefono che squillava lo destò da quella considerazione malinconica; “Chi sarà a quest’ora?” domandò, aggrottando la fronte, rivolto verso Usagi; lei alzò le spalle e rispose:
“Forse Minako o qualcuna delle ragazze, non lo so” con espressione curiosa. Chibiusa lasciò la madre per scivolare giù dal letto. “Vado io!”
“Non correre!” esclamò preoccupato Mamoru ma lei era già diretta verso il salone per poter rispondere al telefono.
 
L’atmosfera serena e giocosa che si respirava in camera da letto venne coperta da un velo di imbarazzo; Mamoru, voltato sul fianco, guardava Usagi, cercava di incontrare i suoi occhi e quando ciò accadde, aveva così tante domande, tanta curiosità sulla serata precedente che, deglutendo a fatica, preferì rimanere in silenzio lasciando che il suo sguardo intenso e profondo potesse farle capire che avrebbe tanto voluto che le cose fossero andate diversamente; chiederle di trovare un uomo era stato un sacrificio enorme ma quella mattina il solo pensiero lo aveva fatto impazzire, egoisticamente.
Usagi abbassò lo sguardo dopo che gli occhi blu e intensi di lui le provocarono un brivido lungo la schiena; si sedette sul letto prima di voltarsi verso il comodino per prendere il carillon e rimetterlo nel portagioie.
E fu proprio quando la sua mano racchiuse la stella che Mamoru lasciò uscire un sorriso fatto di malinconia e gioia allo stesso tempo; non diede alla ragazza il tempo di alzarsi che strinse la sua mano libera, obbligandola a voltarsi, con sguardo sorpreso per quel contatto caldo ma che impediva al suo cuore di battere regolarmente.
“Non sapevo che lo tenessi ancora” confessò guardandola e donandole un dolce sorriso mentre la sua mano continuava a tenere quella di lei, sul materasso, “che lo ascoltassi sempre e che lo facessi ascoltare pure a Chibiusa.”
Usagi  lasciò uscire un sorriso amaro, continuando a riflettere i suoi occhi su quelli di lui.
“Ci sono tante cose di me che non sai, Mamo-chan” sussurrò con sguardo malinconico prima di abbassare lo sguardo verso le loro mani ancora unite.
 
Anche Mamoru voleva poter rispondere che c’erano tante cose, tante situazioni che lei non sapeva perché lui non gliele avrebbe mai confidate; in quel momento il suo cuore mancò un battito, il desiderio di aprirsi con lei si faceva strada dentro di sé. D’istinto lasciò la sua mano per posarla sulla nuca della ragazza, sui suoi setosi capelli; lentamente la avvicinò a sé incontrandola a metà strada prima di sorriderle e, chiudendo gli occhi, premere le labbra su quelle calde e morbide di lei.
Il cuore di Usagi si sciolse come neve al sole, ancora una volta, abbassò le palpebre per assaporare quel contatto che la faceva ardere.
Era sbagliato, razionalmente lo sapeva, ma se non se lo fosse concesso, sarebbe stato ancora più sbagliato: una vera crudeltà per il suo cuore.
Con la mano libera, gli accarezzò la guancia poco ruvida, tenendolo fermo lì, sul suo volto, sulle sue labbra e ricambiando quei dolci baci ai quali nessuno dei due riusciva più a mettere fine.
Mamoru non riuscì a resistere: con entrambe le braccia le cinse la schiena facendola sdraiare mentre schiudeva le labbra cercando di accarezzare quelle di lei con la lingua. Fu un attimo, però, prima che Usagi voltò il viso di lato. “No!” mugolò piano mentre, in preda allo sconforto per quelle emozioni che non riusciva a controllare, che solo lui era in grado di suscitarle, una lacrima le rigò la guancia, “c’è la bambina e poi noi dobbiamo parlare!”
Lo aveva detto, era riuscita a trovare il coraggio, e ciò in parte riuscì a renderla più leggera, come se si fosse appena liberata da un peso che aveva sopportato per troppo tempo.
Mamoru, ad occhi chiusi, accarezzò il volto della ragazza col proprio, sfiorandolo col naso e con le labbra fino a poter respirare il suo stesso respiro. “Non piangere, piccola” sussurrò con tono pieno di tristezza poggiando la fronte su quella di lei, “ti prego, perdonami.”

Lei sussultò appena, incrociando i suoi occhi e posando le mani sulle spalle di lui, ancora col busto sopra di sé.
“Mamoru, io non voglio perdonarti, io voglio parlare con te” rispose con tono sofferente mentre udiva ancora la bambina parlare al telefono nell’altra stanza, “io devo parlare con te, non ce la faccio più a tenere tutto dentro, ti prego.”
 
Mamoru sentì il gelo scorrere nelle vene, il suo cuore mancò un battito e un altro ancora. Era come se le parole di Usako avessero sortito l’effetto di una doccia gelata che lo aveva riportato alla realtà, che gli aveva fatto capire che la magia data dai suoi dolci occhi, dalle sue espressioni gentili e a volte innocenti, dai ricordi scanditi dal suono de La melodia del cuore, era svanita. Era di nuovo di fronte alla cruda realtà in cui Usagi pretendeva chiarimenti, spiegazioni.
Non era preparato a ciò, non se lo aspettava. Deglutì a fatica, sedendosi sul letto e passando una mano nervosamente sui capelli.
“Va bene, parliamo” rispose con un filo di voce dandole le spalle, come a voler fuggire da quegli occhi ai quali non voleva mentire, “stasera, quando la bambina dorme, okay?”
Avrebbe davvero parlato con lei? Avrebbe davvero dato a lei le risposte e le spiegazioni che probabilmente lei cercava, soprattutto a seguito di quei suoi atteggiamenti ambigui coi quali le faceva capire, percepire, quanto desiderio di lei ci fosse in lui?
Doveva riflettere, inventare qualcosa da dire quella sera quando avrebbe parlato con lei e, mentre cercava di uscire da quella situazione da cui, inevitabilmente, sapeva che prima o poi si sarebbe trovato a fare i conti, vide Usagi alzarsi dal letto e dirigersi fuori dalla stanza.
Non prima, però, di aver riposto, con cura, La melodia del cuore, nel suo scrigno dei Tesori.

 
Il punto dell’autrice
 
L’autrice si mette in ginocchio e abbassa la testa in senso di vergogna!
Mi scuso profondamente con i miei lettori per questa lunghissima assenza da La melodia del cuore.
Come saprete ho iniziato Listen to your Heart e Introspective Sailor Moon e quindi dall’ultimo aggiornamento è passato un po’ di tempo.
Vi garantisco che sto già scrivendo il cap. 11 che ho spezzato da questo perché riguarda una parte diversa che non volevo mischiare a questa.
Devo ammettere che questo capitolo è stato scritto a ‘puntate’, come si suol dire e non lo considero per nulla convincente; spero di ricevere i vostri commenti di fine lettura, più che altro per sapere la vostra al riguardo.
Un bacio e a prestissimo!

Demy

   
 
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