Film > Pirati dei caraibi
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Autore: Ziggie    21/08/2011    3 recensioni
"Scappai di casa a 13anni. Venire picchiato da mattino a sera, da un padre padrone e ubriacone, mi aveva stancato. Non avevo avuto un’infanzia, non sapevo cosa volesse dire essere un bambino, io non lo ero mai stato; non conoscevo l’affetto, io non l’avevo mai ricevuto. Non conobbi il volto di mia madre, morta dandomi alla luce, ma conobbi l’ira del mio vecchio, che ogni sera non mi risparmiava botte e bastonate, così feci quanto andava fatto".
Questa fic parla della vita di Hector Barbossa, sono frammenti che il capitano scrive sul suo diario di bordo quando ancora non è diventato uno tra i temibili pirati dei sette mari. Svariate informazioni sono di mia invenzione, ma la maggiorparte vengono dalle rare informazioni che ci sono pervenute, molti spunti biografici sono presi da questo sito (http://pirates.wikia.com/wiki/Hector_Barbossa) E ora a voi, buona lettura e spero di leggere qualche recensione :)
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hector Barbossa
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed eccomi tornata all'ovile dopo 12 giorni di mare, ben goduti, nei quali ho scritto parecchio. Come vi dicevo prima  di partire questo è l'ultimo capitolo dei frammenti e i fatti narrati sono sia frutto della mia fantasia come il modo in cui Hector trova la scimmietta, come convince Jack a lasciargli le carte e via dicendo e altri, la storia che comunque tutti sanno ( a due giorni dalla partenza il primo ufficiale gli rivela che va condiviso tutto equamente etc etc ...) Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, ammetto che è stato parecchio difficile scriverlo, comunque non temete, non è proprio finita qui: tra pochi giorni ripartirà il continuo di questa storia, Hector non vi abbandonerà xD
Buona lettura e mi raccomando, recensite in molti ;)

 13. “Destinazione ammutinamento e addio ai vecchi piaceri della vita”
 

Il cielo era terso, plumbeo. Le nuvole nere come la pece, cariche di pioggia, accoglievano in grembo il sole morente del tramonto, imprigionandolo e rendendolo primo spettatore della tempesta imminente: con questo tempo arrivammo a Tortuga.
Un tempo tetro e spettrale, ottimo per prestare orecchio alle storie di taverna: chissà quali elementi avrebbero intrufolato, nelle varie vicende, quei vecchi pazzi!? Maledizioni, sovrannaturale, fantasmi: tutte storielle della buonanotte.
Ci incamminammo verso la Sposa Devota ed una volta giunti lì, in molti si dileguarono nelle viette adiacenti, già in dolce compagnia; molti altri entrarono sperando in ottimi trattamenti ad opera di mani fatate, con le membra annacquate da rum.
Io mi andai a sedere, con il solito seguito di uomini, al solito tavolo, non per questione di abitudine, ma per questione di somiglianza: il tavolo stava, infatti, ad uno degli angoli in penombra della locanda, oscuro come la mia anima, misterioso come il mio io.
Presi, senza troppe cerimonie, un boccale da un vassoio di una cameriera, rubandole qualche bacio con fare ammiccante, ignorando il gruppo che stava con me, che nel frattempo giocava a dadi, mentre Jack, dall’altro lato del tavolo, si intratteneva con una donna prosperosa, che era il doppio di lui.

- Credimi amico, è un luogo maledetto, introvabile per chiunque non sappia dove sia. Il solo nome fa tremare le viscere; la sola forma incute terrore – una voce sommessa, nonostante la sbronza, iniziava la prima storiella della buonanotte della serata.
- Come ne sei venuto a conoscenza? – chiese il suo interlocutore, curioso. I due stavano a tre tavoli di distanza da noi, era impossibile non prestare attenzione; di certo non mi interessavano gli spettri e le dicerie che giravano attorno a quel luogo, ma se dietro a tali parole ci fosse stato un tesoro, avremmo potuto ripartire da lì. Osservai Jack che, nonostante fosse preso dal piacere dei gesti della donna, aveva fatto orecchie da mercante.
- Ho vinto la mappa, giocando a dadi, ad un tale di Cuba. Voleva sbarazzarsene – bevve un lungo sorso e schioccò le labbra – ora capisco il motivo -.
- E’ così terrificante? – chiese l’altro senza capire.
- E’ un luogo maledetto! – sbottò a gran voce l’uomo. – L’oro trabocca da ogni lato della grotta, a quantità che potrebbero sistemarti per l’intera vita, ma il forziere al centro di essa racchiude una maledizione: una maledizione scagliata dagli dei aztechi su quell’oro per placare, non solo la carneficina che Cortes stava compiendo, ma anche la sua avidità -.
- E tutto questo come ti è giunto all’orecchio? -
- Il cubano mi aveva raccontato la storia, ma ho visto i frutti, di tale orrore, con i miei occhi. Due dei miei uomini sottrassero dei dobloni da quel forziere, ma quando la luce della luna attraversò la grotta, attraverso qualche spiraglio, li mostrò come erano in realtà: scheletri, perduti.. Il panico si diffuse e Dio solo sa che fine abbiano fatto -.
Alzai un sopracciglio, annacquandomi l’ugola con un buon sorso di rum, quel tesoro faceva proprio al caso nostro, nonostante le dicerie di quel vecchio pazzo. Jack sembrava pensarla al mio stesso modo, visto che sgusciò via dalle effusioni della donna, fino a spingersi, quatto quatto, vicino a quel tavolo, proprio dietro la sedia del vecchio. Un’ottima mossa se non fosse che, il giovane interlocutore, poteva scorgere il braccio di Sparrow ravanare nella sacca del vecchio. Roteai gli occhi, mi alzai e mi avvicinai al tavolo dei due, poggiano una mano sulla spalla dell’anziano: che cosa non si fa per un tesoro!
- Signori miei, perdonate questa mia irruzione al vostro tavolo, ma dalla mia postazione – gli indicai dove stavo seduto – non ho potuto fare a meno di ascoltare il vostro racconto – recitai con fare sorpreso, osservando di sottecchi Jack, dietro di me, infilare la mano nella sacca del tale e iniziare la ricerca.
- Non è un racconto, è pura verità – sputacchiò il vecchio.
- Oh! Non volevo certo mettere in dubbio le parole di un vecchio lupo di mare come voi – lo adulai. Verità, certo come no! Stupide superstizioni. – Il solo nome fa tremare le viscere – lo citai – mi incuriosivano queste parole: qual è questo nome così terrificante?-
- Isla de Muerta – mi rivelò il vecchio, iniziando a tremare – stai lontano da quel posto maledetto, ragazzo – mi raccomandò.
- Non vedo come potrei arrivarci senza le carte appropriate – gli feci notare tranquillo, quasi a rassicurarlo: che bravo attore che sono!
Jack, intanto, era venuto a contatto con i fogli di pergamena anticati, gli diede una rapida occhiata e così arrotolati, li mise nella tasca interna del suo gilet, tirandomi appena la giacca, per avvisarmi che aveva finito. Il vecchio mi sorrise, io contraccambiai tirato – alla vostra, allora! – sgraffignai l’ennesimo boccale da un vassoio di una cameriera, lo alzai e mi bagnai le labbra, prima di voltarmi e tornare al mio tavolo, dove Jack si era appena accomodato con un sorrisetto furbo, dipinto sul volto.
- No! Non ringraziarmi – commentai sarcastico.

Solo io e Jack eravamo a conoscenza della mappa sgraffignata; mi aspettavo che, come capitano rispettabile, mettesse al corrente la ciurma della nuova destinazione, dell’oro che ci aspettava, ma nulla di tutto ciò si verificò.
Partimmo alle prime luci del mattino, Jack portò la Perla al largo, poi mi cedette il timone e si rinchiuse in cabina, con l’ordine di mantenere la rotta che aveva impostato. Partire senza comunicare la rotta, attorniati dal mistero, per qual motivo poi? Un semplice capriccio del capitano? Notai, dal cassero di poppa, la ciurma mormorare, un gran brutto segno, ma non avevano torto. D’un tratto un bagliore mi accecò la mente, eccola l amia grande opportunità. E’ vero, non conoscevo la rotta, ma sapevo quanto ci aspettava a destinazione e quello era il momento adatto per riprendere i panni di ciò che ero in realtà: capitano di una meraviglia de sette mari, padrone di una dama dell’oscurità.
Così, quando in molti mi chiesero quanto sapessi a riguardo della destinazione, la mia risposta fu una e una sola – Capitan Sparrow sta giocando a fare il misterioso, fatto alquanto irritante per i miei gusti, visto il ben di Dio che ci aspetta a destinazione. – ghignai, mettendo la pulce nell’orecchio a quel branco di bagordi che, dal canto loro, iniziarono ad emettere gridolini di approvazione – Zitti, branco di donnicciole! Domani avremo quello che ci spetta, fino ad allora … Tornate a sgobbare! –

Sono sempre stato, a mio modo, un uomo di parola, un ottimo attore; persuadere la gente era il mio forte e avrei giocato quella carta anche con Sparrow. La prima volta Jack sviò la conversazione, dicendomi che dovevamo soltanto aver fiducia in lui; la seconda volta, mi concesse udienza.
- Capitan Sparrow – sorrisi bonario, accomodandomi, svaccato, su una sedia di fronte al tavolo – vedo che procedete gli studi -
- Oh! Al diavolo Hector, vieni al dunque -.
- Speravo di non toccare di nuovo questo tasto, ma, visto che insisti, te lo dirò – Jack alzò un sopracciglio, agitando le mani come segno di procedere. – Proprio non capisci, eh! Bisogna condividere tutto equamente, dalla rotta al luogo del tesoro, senza fare il misterioso. Jack, la ciurma parla, vocifera e sono appena due giorni che siamo partiti. Quei senza Dio vogliono fatti e non sorprese… E tu non vuoi ritrovarti su un guscio di noce per mare, vero? – dettai le cose come stavano, notando un fremito di timore negli occhi di Jack. Ghignai mentalmente.
- Non credo di essere pronto per tale viaggetto – ammise lui con un sorriso tirato.
- Non ne avevo dubbi – sorrisi ampliamente, allargando le braccia, sedendomi comodo, per posarle poi sul tavolo. –Quindi, perché non dare ascolto al tuo buon vecchio amico qui presente?! – tsè, amico, parola grossa! – Mi sembra di avere più esperienza di te e non perché ti sono superiore, anzi, giusto perché sono in mare da più tempo – cercai di adularlo come meglio potevo, osservandolo negli occhi: stavo parlando seriamente dopotutto!
Jack si grattò il pizzetto, pensoso – non hai tutti i torti, Hector - convenne – la via della condivisione placherà gli animi e l’idea di lasciarmi su un guscio di noce svanirà – esclamò sicuro poi, contento lui!
Accennai un sorriso, alzandomi in piedi – Un’ultima cosa, Jack. Non è che … in qualità di primo ufficiale e timoniere, potrei studiarmele quelle? – gli indicai le carte aperte sul tavolo – sai com’è… Per sapere guidare meglio la nave -.
- Ovvio, amico mio – le arrotolò e me le porse. – Avvisa gli altri che stasera festeggeremo la nostra prossima destinazione -
- Sarà fatto … capitano – ghignai tra me e me ed uscii: quella sera si sarebbe festeggiato si, ma la venuta di un nuovo superiore.

E fu così che il capitan Sparrow rimase solo. Quella notte non un solo uomo si schierò dalla sua parte; nessuno prese le sue difese; lo condannarono tutti. Ricordo bene l’espressione di stupore, misto a tristezza, sul suo volto quando vide che, fui io, l’artefice di tutto quello: la mano fidata, che degrada il superiore, con una pugnalata in pieno petto.
Per Sparrow fu così: togliergli la Perla, significava togliergli la vita, ma a quella nave occorreva un comandante, un uomo dalla sua stessa eleganza e quel tale, non era certo Jack Sparrow.
- Credimi, Jack, dovresti ringraziarmi. Se non avessi preso io le redini della situazione, ora il tuo corpo starebbe fluttuando verso le profondità marine – ghignai, mentre mi mangiavo una mela e lo guardavo attraverso le sbarre della gattabuia, in cui lo avevamo sbattuto.
- Non hai architettato tutto tu, dunque? – chiese senza il minimo entusiasmo.
- Ho seguito la corrente – feci spallucce – quei senza Dio avevano bisogno d un leader, di un capitano migliore di colui che ha preferito tenersi tutto per sé – gli rinfacciai quel piccolo, ma significativo, particolare – certo è un peccato che la tua carriera da capitano finisca così – continuai – quindi abbiamo pensato di farti dono del titolo di governatore di un piccolo sputo di terra -.
Jack alzò un sopracciglio, non capendo dove volessi andare a parare, mentre passi pesanti, nel frattempo, scendevano le scalette.
- Capitano, ci siamo – mi avvisò Bo’sun, un energumeno di colore, sghignazzando.
- Molto bene – mi sfregai le mani – prendete il prigioniero e portatelo sopracoperta. E’ tempo che faccia conoscenza con la sua regia dimora – commentai sarcastico, precedendoli sul ponte.

Nessuno si degnò di accompagnarlo o altro, ma, in queste situazioni, al capitano spetta l’atto di clemenza e, visto  il mio essere magnanimo e misericordioso, gli concessi la sua pistola con un solo colpo in canna – non sia mai si fosse sparato causa caldo, fame o altro! – gettandola tra i flutti dell’oceano e invitandolo, in punta di spada, a fare un bel viaggetto sull’asse.
- Qui le nostre strade si dividono Jack, buona permanenza – sghignazzai seguito a ruota della ciurma, finché di Sparrow non rimase solo il ricordo di una figura ciondolante, che si gettava tra le profondità marine.

Ecco come si presentava a noi Isla de Muerta. Un’isola completamente rocciosa, senza ombra di vegetazione, il cui nome rispecchiava la sua forma: quella di un enorme teschio. Un’isola nascosta da una foschia innaturale; oscurata da pareti di roccia appuntita, come pugnali, che l’accoglievano in un ampio abbraccio – la stretta della morte – e circondata da relitti sovrastati dai flutti oceanici. La sola vista di quel luogo faceva tremare l’animo anche al peggiore dei pirati – me stesso, modestamente – ma ricacciai indietro quel brivido momentaneo e dettai ordini.
Calammo in mare diverse scialuppe, io mi sistemai su quella di testa, a prua, ritto e fiero, mentre tutti vogavano svelti, ansiosi di mettere le mani su un tesoro degno di un re – se le voci riguardo alla sua ampiezza, dettavano verità -.
Ci addentrammo nel ventre dell’isola, avvolti dall’oscurità, se non fosse stato per le fiaccole che avevamo con noi. Più procedevamo verso l’interno, più il fondo si faceva vicino, mostrandoci le meraviglie dormienti sotto l’acqua: oro, gioielli, altrui proprietà di valore inestimabile, si moltiplicavano a vista d’occhio, man mano che ci si avvicinava al centro della grotta. Non seppi dire cosa brillasse di più, se i nostri occhi o il tesoro, ma lo stupore si smorzò quando udimmo, una volta approdati su una piccola spiaggia, un verso alquanto stridulo, una sorta di eco.
In molti sgranarono gli occhi; molti altri rabbrividirono; io proseguii diritto, con la spada sguainata, passando in mezzo a montagnette d’oro , incuriosito dal forziere di pietra al centro della grotta e dal verso sommesso, che proveniva da lì. Proseguii da solo, la ciurma era, ormai, irrecuperabile alla vista di tutto quel ben di Dio, infatti, quel branco di bagordi aveva iniziato a sguazzarci dentro; raggiunsi il forziere e vi posai l’orecchio, in ascolto: il verso era sempre più stridulo, ma profondo, lì dentro c’era qualcuno, o meglio, qualcosa!
Lo scoperchiai con forza e mi sporsi appena, pronto ad intervenire in punta di spada, qualora ce ne fosse stato bisogno, ma due occhioni neri, da cucciolo, riuscirono a scalfirmi l’animo: davanti a me avevo un piccolo esemplare di scimmia cappuccina. Abbassai l’arma e la rinfoderai piano, non volevo spaventarla, dopodiché cercai nella tasca della giacca qualche nocciolina e, una volta trovata, gliela porsi, accovacciandomi davanti al forziere.
L’animaletto guardò prima me, poi la nocciolina, titubante; l’annusò e la prese sgranocchiandola appena, prima di saltellare sul posto e arrampicarsi sulla mia spalla sinistra.
- Felice che sia stato di tuo gradimento – convenni sorridendo, facendole un grattino sopra la testolina. Era curioso come quel piccolo animale, che non avevo mai visto prima di allora, mi solleticò così tanto l’animo fino a rendermi più umano.

- Capitano! Siamo ricchi, siamo ricchi! – esultarono Pintel e Ragetti raggiungendomi su quella montagnetta  e furono quelle parole a distrarmi, rimettendo a fuoco il vero obbiettivo per cui mi trovavo lì. Ghignai, mi chinai sul forziere e presi una manciata di quegli strani dobloni con incastonato, al centro, un teschio, ed esultante, li lanciai in aria riafferrandone poi uno e rigirandomelo tra le mani.
- Avanti branco di bagordi, riempitevi le tasche di questo ben di Dio e preparatevi a sperperarlo in cibo, rum e piacevoli compagnie!!! Facciamo vela per Tortuga! –
E quello fu l’inizio della fine.

Tornammo a Tortuga come se avessimo conquistato una delle meraviglie del mondo: sfacciati, fieri, superiori a tutto e a tutti. Avevamo le tasche pieni di quell’oro antico e ci vantavamo, inventando le storie più impossibili riguardo al suo recupero, mentre godevamo di piacevoli compagnie e ci rifocillavamo le membra con leccornie prelibate e rum di ottima qualità.
Era una vita di piaceri, quella che ogni uomo brama e si gode, soprattutto, dopo essere diventato ricco, ma qualcosa sembrava non funzionare.
Più ne buttavamo via, più sperperavamo e scialacquavamo in quegli indomiti piaceri e più il sapore, il godimento, le sensazioni, venivano meno. Il cibo era come se perdesse consistenza, sciapo, potevamo continuare ad ingurgitare chili e chili di roba, che il tutto si riduceva in niente. Il rum era diventato pari all’acqua, non esisteva più quel pizzicorio che ti solleticava le viscere.
In quella settimana che rimasimo nel porto piratesco più famoso dei Caraibi, perdemmo tutto: non solo i nostri cinque sensi, ma anche la nostra fama di abili amanti.
Io stesso, incredulo di non venire a tale lussuria, ci diedi dentro più volte, me ogni volta il risultato ottenuto era peggiore di quella precedente. Che diavolo ci stava succedendo? Possibile che quel vecchio pazzo avesse ragione? Nah! Erano solo dicerie quelle, delle banali storielle della buonanotte e noi eravamo, sicuramente, troppo presi dal tesoro, per farci coinvolgere da tutto il resto. Ma davanti a noi, purtroppo, non vi era che un futuro oscuro, bloccato, tremendo.
Attanagliati da fame e sete non riuscimmo più a placarle, diventando, di giorno in giorno, sempre più consumati, come se Dio ci avesse abbandonato completamente – non che, prima, ci avesse mai preso in considerazione! –
Avevamo preso un biglietto di sola andata per il girone peggiore dell’inferno; la luna ci mostrava per quello che eravamo in realtà: uomini maledetti, scheletri, né vivi, né morti.
La macabra scoperta avvenne, una notte di luna piena, al largo di Nassau: la ciurma stava festeggiando sul ponte, mentre io stavo al timone, quando le nuvole si dispersero e lasciarono posto al plenilunio. Ad un tratto fu come se mi sentissi più leggero, ma non colsi la brezza serale, la spuma dell’onda non mi solleticava la faccia; rollai il timone e il mio sguardo si fermò sulle mie mani: ossute, scheletriche. Sgranai gli occhi e mi tastai il petto: stessa identica cosa. Non avevo più nulla di umano, ero uno scheletro che camminava, un dannato e così, i miei compagni: eravamo i figli di una maledizione, di una delle tante storie di taverna che avevo sottovalutato.
  
 

  
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