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Autore: Nadir de Orpheus    18/10/2011    3 recensioni
Ricordo. E non ha significato dire che la ricordo, ora che lei è distesa accanto a me –una mano posata sull’onda dei capelli sparsi sul cemento. Sparsi sul suo viso sottile, e sparsi come sul mio cuore. Lo sento rallentare. Venisse il sonno. Venisse l’oblio, ora che scende la sera.
Voglio ricordare di lei ancora una volta, mentre le guardo le ciglia.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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II
Mirrors.

 
E poi qualcosa si muove –e poi, scopri che si chiama destino.
Ora ci penso, e non so trovare un altro nome da dare a questa sequela di istanti che a ripercorrerli mi avrebbero portato comunque da lei, anche se avessi fatto cose diverse. Scelte diverse. Non sarebbe servito. Sarebbe accaduto anche se quella mattina avessi perso il treno –sarebbe accaduto anche se non mi fossi fermato a prendere quel caffè al chiosco ambulante, e sarebbe accaduto anche se fossi arrivato in ritardo. Sarebbe comunque accaduto che il mio capo mi licenziasse. È stato quello.
Ho sentito il lupo ringhiare, e gli specchi infrangersi, o forse unirsi. Forse fondersi o forse andare in pezzi, crogiolando sul pavimento del mio essere –tappeto drappeggiato sui muscoli dorsali della mia anima, ed ascoltarli ululare. Io e lui –una cosa sola. Al mio capo non dissi niente.
Me ne andai facendo del silenzio una compagnia sufficiente, e la sola che in quell’istante potessi accettare. Era uno spasmo –una contrazione intima, fibre e mialgia del mio spirito separato che si coagulava in un solo, unico, rarefatto essere indiviso. Ero io. Ero Jamie, ad un livello più alto.
Un livello più arcaico –il sapore del me stesso primordiale, prima di nascere, quando lupo potevo venire al mondo oppure uomo, e quando la mia anima non aveva saputo scegliere, e si era spezzata.
Ora, era ricomposta. La ascoltavo risuonare come il fruscio di piume sparse nel vento, mentre camminavo –mani in tasca, e i sensi che ondeggiavano su ondate di sublimazione. Lentissima.
Sentivo ogni cosa. C’erano i cuori che battevano lungo la strada accanto a me, e respiri nelle vie adiacenti –c’era la polvere della città che incontrava il sole, e c’erano foglie che cadevano nella danza dell’autunno. Quasi, la lunghezza d’onda con cui la luce incontrava le cose e risvegliava i colori –quasi aveva un suono, o un movimento. Potevo sentirlo, anche se era veloce. Tutto.
C’era tutto. Ed io lo sentivo, ma non lo possedevo.
Era contemplazione, ed era dislocazione sui vari piani del mondo.
Una decriptazione quieta e vagamente nostalgica della frequenza a cui ogni forma di vita esisteva, estendendosi nel mondo –e poi venne il destino, dicevo. Si alterò la frequenza in un punto, non lontano, iniziò a vibrare con un’atrocità che mi sfondava il cranio, e mi deragliava il cuore.
Il vecchio Jamie sarebbe fuggito, sarebbe fuggito qualsiasi uomo, perché era la sensazione torbida del terremoto, e di un’onda più alta che ti travolge e trascina al largo –quando tu sei il mare e la tua razionalità è un puntolino minuscolo, visto dall’alto. Io, il lupo Jamie, correvo. Nessuno aveva sentito nulla, la gente continuava a muoversi in quel pendolarismo della vita che è ogni strada, ma io correvo verso il terremoto. Al centro del sisma c’era un punto cieco, lo percepivo. Un buco nero.
Mi avvicinavo, e si oscurava la luce infrangendosi nella pioggia, e non c’era anima viva che fosse.
Niente. Solo pioggia ed agitazione molecolare –solo le mie scarpe da ginnastica sull’asfalto, il mio cuore che batteva regolare nonostante la corsa, il mio respiro. Che quando s’ingolava, non era colpa del correre. Era quel terremoto, con il suo sapore d’implosione. Alterazione del mondo, ecco.
Ora sì, ora la percepivo chiaramente, la disumanità.
Altri lupi?
Il sentore era differente –ma che ne sapevo, io, di che sentore avesse un lupo altro da me?
E se lo erano, anche loro mi sentivano così, con quest’urgenza spasmodica di arrivare?
Pioveva. Ero fradicio dalla testa ai piedi, e scivolai un po’, sulla pietra più lucida del sagrato di una chiesa –neanche me ne accorsi. C’era l’orbita di una luce, nell’aria –come una macchia solare puntata a centro del cervello, intensa, da frastornare e sciogliere la retina, facendola colare sul marmo bianco e nero. Un agitarsi che era come quello di grandi uccelli –ali nella luce, e sagome, sospese dentro quel sole che la pioggia non poteva sfiorare, lì, a tre metri dal terreno.
Raggi di sole diramati nell’aria come saette –come spade.
E lei. Lei, in piedi davanti alla luce, braccia sollevate quasi steli di fiore contro un aratro. Lei.
Da lontano sembrava nessuno. La sua schiena era stretta, ma distesa e fiera, senza paura –non c’era paura nei suoi movimenti, nel modo di restare ferma. Non era paralizzata. Era solamente lì, ad affrontare la luce –ma era piccola, piccolissima, così la vidi. E non pensai.
Andai verso quel sole artificiale ringhiando, trasformato in lupo prima che potessi accorgermene –la voce di lei che pungeva l’aria con ritrosia, con alterigia. Senza bisogno di niente, davanti alla luce, sulla sua soglia agitata dai lampi d’ali bianche. Io ringhiai, e la luce svaporò.
Come se non fosse mai stata lì. Come se l’avessimo solo immaginata –e da subito, iniziai a pensare al plurale. Dal momento stesso in cui la guardai –la bellezza che ti lascia imbambolato mentre la guardi dietro le palpebre chiuse, oppure oltre un finestrino. Fragilità da non sfiorare.
Le sue mani piccole e gli occhi grandi –bocca effimera di rosa e i capelli fradici, che le decoravano le guance e la fronte, e la spalla, lungo la treccia sfatta. Scuri come ricami d’ebano su seta bianca.
“Che pensavi di fare?”
Pensavo al plurale. Ero un lupo, e pensavo al plurale –non come umano, non come un doppio. Ma come un unico e solo Jamie, che guardandola trovava il collante. Il gancio tra l’animale e l’uomo.
Lei. Mi avvicinai, accostandomi alla sua gamba lasciata nuda dai pantaloncini, ma senza toccarla.
Lei sorrise. E il gancio tintinnò, argentino.
Era lei. Il suo odore era come il mio –ma più fragrante e più di fiore, un fiore secco, lasciato troppo tempo nell’acqua. Dai suoi occhi, si affacciava un’anima in guerra, ma che stava appassendo.
Non mi toccò, né la toccai io. Sarebbe sfumata nel vento, se l’avessi fatto.
Attaccata da angeli e salvata da un ragazzo lupo.
Che strana vita la sua vita.
  
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