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Autore: Hiromi    04/01/2012    7 recensioni
"Tesoro, è finita l'era dell'anti-innocenza: qui le persone girano come trottole ventiquattr'ore al giorno per lavorare, studiare, e per fare sesso - hai capito bene: Sesso! - Cupido è volato via dal condominio sdegnato e il principe azzurro per la disperazione è diventato gay!"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Hilary, Mao, Mariam
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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You taste like whiskey when you kiss me

I’ll give up anything again to be your baby doll

Yeah, this time I’m not leaving without you

You said sit back down where you belong 
In the corner of my bar with your high heels on 

Sit back down on the couch where we

made love for the first time 

 

You and I Lady Gaga

 

*****************

 

Dalla terrazza osservò il panorama, perdendosi nei suoi pensieri e lasciando che la sua mente rimandasse flashback come quando aveva aspettato con Julia l’alba sulla terrazza dell’ospedale; anche lì si era persa in ricordi assurdi ed elucubrazioni mentali non indifferenti. Ma per cosa, poi?

Fu il suono di una voce conosciuta a farla sobbalzare; si sporse dalla terrazza e, quando vide chi vide, per poco non si sentì mancare.

Che ci faceva lui lì?

 

 

 

Quel vestito di pizzo che aveva indosso era elegante ma terribilmente scomodo, soprattutto se si dovevano percorrere decine di rampe a piedi.

 

Non inciampando solo per essersi tenuta al passamano, e reggendo la maschera veneziana che indossava sul viso, Mao svolazzò sui gradini toccandoli appena. Aveva troppa fretta, il cuore le stava battendo all’impazzata e l’unica cosa per lei sensata era, in quel momento, andare in giardino.

 

Qualcuno stava discutendo con i buttafuori che, appostati davanti il cancello, vietavano o acconsentivano l’ingresso a seconda che il nome di una persona fosse sulla lista o meno.

Sentendo la persona di cui aveva udito la voce cercare di farli ragionare, veleggiò verso la fine della villa, verso le ringhiere che disegnavano motivi intrecciati e, verso dove voleva andare.

 

“Che ci fai qui?”

Avrebbe potuto scegliere una domanda migliore, più accurata o elegante, ma le labbra le si erano dischiuse prima che potesse pensare.

 

“Mao.”

Rei la fissò attonito, con occhi sgranati, spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua intera figura.

 

Lanciandogli una breve occhiata, si rivolse agli uomini vestiti di nero. “Potreste lasciarlo entrare?”

 

Uno dei due scosse la testa, categorico. “Il suo nome non è sulla lista. Niente nome, niente festa.”

 

Capendo che quel buttafuori aveva ricevuto ordini precisi fu lei ad uscire, ponendosi proprio di fronte al ragazzo. “Che ci fai qui?”

 

La fissò negli occhi, poi prese un grosso sospiro. “Ci ho pensato, e ho capito che ti amo.”

 

Sgranando gli occhi per la frase inattesa, incrociò le braccia con fare omicida. “Beh, buongiorno.” Sibilò.

 

“No, fammi dire: l’avevo realizzato già prima, ma quando te ne sei andata, giorni fa, ho capito quanto sono profondi i miei sentimenti per te.” Spiegò, parlando veloce.

“Hai trascorso questo periodo lontana da me, e io non voglio che accada mai più. Sono stato male, ho sofferto come non mai, e non era perché sei importante per la tribù, per tuo fratello o chi altri. Tu sei importante per me.” La guardò negli occhi come se volesse farla sciogliere.

“Ti ho fatto soffrire in questi anni, e mi detesto per questo, ma ho capito – tardi, lo so – che non potrei mai stare senza di te. Non importa cosa tu abbia fatto in questi mesi, o quanto tu sia cambiata. Non mi importa delle cose passate; ciò che voglio sapere è se ho un posto nel tuo futuro.”

 

Non disse nulla per svariati secondi; si limitò a fissarlo, ostile e contrariata nemmeno fosse il più vile tra gli uomini. Lo guardò dall’alto in basso, imbronciata ed affilando lo sguardo, facendogli temere il peggio.

 

“Mao?”

 

“Ecco, lo sapevo.” Sibilò. Il ragazzo stava per domandarle cosa avesse senonché non intravide i suoi occhi lucidi e le labbra piegate in una smorfia. “Sei un dannatissimo paraculo!” Sbottò, scuotendo la testa. “Vieni qui, mi fai questo discorso e poi mi dici cosa dovrei dire, io?” singhiozzò, sistemandosi la maschera veneziana che aveva sul volto. “Ti aspetti che ti dica che ti amo? E invece ti odio, maledizione!” fece, scuotendo la testa. “E non sai nemmeno quanto!”

 

Sorrise, avvicinandolesi e prendendola tra le braccia. “Più o meno quanto io ti amo.” Le sussurrò, prima di toglierle la maschera e baciarla.

 

 

 

 

…Tre giorni dopo…

 

 

 

 

Incuriosito dalle voci oltre la porta della suite, dovette fare una faccia strana quando Sergey gli aprì la porta, perché il compagno di squadra non appena lo vide sghignazzò.

Nella suite della Neoborg Kai e Hilary erano seduti l’uno di fronte all’altra discutendo animatamente di qualcosa inerente alla musica e, nel frattempo, Boris era seduto quasi in disparte, sprofondato sul divano, intervenendo sporadicamente.

 

Da quando il russo di origini nipponiche e la cantante delle Cloth Dolls avevano annunciato di stare insieme non era raro vederli, come in quel frangente, tutti e due, magari l’uno a casa dell’altra,.

 

“Dimmi come fanno a cambiare i lineamenti.” Smanettò Hilary, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Tra i loro hobby preferiti vi era senza dubbio parlare – o, meglio, la bruna giapponese parlava e Kai rispondeva brevemente a tono – di tutto, dalla polvere nuova, alle noccioline, all’universo; giocare a beyblade – e lì era il russo a giocare e la ragazza a fare il tifo – e poi, senza dubbio, fare dei giri sulla Kawasaki, magari portando anche il cagnolino di lei.

“Paul McCartney aveva palesemente il naso dritto, era di altezza media per un uomo; dopo il ’65 il suo naso divenne curvo e la sua altezza si impennò. Come?”

 

Kai inarcò le sopracciglia quel tanto che bastava per far intendere cosa ne pensasse di tutto quello che la ragazza aveva appena detto. “Le leggende metropolitane si fomentano con un nonnulla; non è da escludere, poi che i Beatles abbiano giocato con la leggenda che stava nascendo.”

 

La bruna scosse la testa. “Non ci credo: se ascolti Eleanor Rigby ti vengono i brividi, soprattutto se pensi al fatto che Padre McKenzie doveva chiamarsi Padre McCartney.”

 

Boris sogghignò. “Si chiama humor nero.”

 

La ragazza fece una smorfia. “O cattivo gusto.”

 

Yuri prese a tossicchiare piuttosto rumorosamente, dopodiché quando tutti si voltarono verso di lui, si diresse verso il frigobar andando a prendere una birra. “E’ divertente lo humor nero.” Commentò, stappando la lattina.

 

Hilary sospirò. “Stavamo parlando della presunta leggenda Paul is Dead – PID, secondo la quale Paul McCartney dei Beatles è morto nel pieno del suo successo con il gruppo.” Il russo annuì brevemente, facendole intuire che comprendeva di cosa stava parlando. “Secondo me non è una leggenda, secondo Kai è una stronzata, Boris a grandi linee segue Kai, e Sergey non è interessato, vero?” fece, rivolgendosi all’altro ragazzo che per tutta risposta alzò il pollice verso l’alto, facendola ridere.

 

Capendo di essere stato indirettamente interpellato, Yuri sbuffò, trangugiando sotto lo sguardo ammonitore di Boris la birra e posando la lattina poi vuota sul frigobar. “Gli hanno dedicato una puntata dei Simpson, mi pare.”

 

La bruna si illuminò, prendendo a battere le mani. “Sì! Quello dove Paul versione Simpson dice: Oh, a proposito: sono vivo e ne sono sorpreso.” Alla sua imitazione convincente i russi si lasciarono sfuggire una breve risata, che terminò quando Sergey fece occhio a Boris, ed insieme annunciarono di dover andare ad allenarsi in palestra.

 

Yuri fu troppo impegnato ad andare a prendere un’altra birra per accorgersi dello sguardo d’intesa che si scambiarono Kai e Hilary. Quando tornò a sedersi sul divano dove prima era stato spaparanzato Boris, notò a malapena la ragazza del suo compagno di squadra alzarsi e dirigersi verso il bagno. Sentì su di lui gli occhi dell’unico componente dei Neoborg che era rimasto nella suite, e gli ci vollero uno o due secondi per capire che probabilmente era stato tutto architettato.

 

“Non è quella la soluzione.” Buttò lì il suo compagno di squadra. “È solo una birra.”

 

 “Alla mia salute ci penso io.” Sibilò, irrigidendosi.

 

“Si vede.” Ribatté, sardonico. “Sai, non pensavo tu potessi essere il tipo che si rifugia nell’alcool quando litiga con la sua donna, ma evidentemente…”

 

Quando Yuri scattò in piedi, i riflessi di Kai erano pronti. “Ripetilo un po’.”

 

“Cosa, la tua donna?” fece, ad un passo da lui, minaccioso ed ironico. “Se è bastato questo per farti saltare su, sei messo malissimo, fattelo dire.”

 

Si irrigidì fino allo spasmo, arrivando persino a digrignare i denti. “Non provo nulla per la Fernandéz.” Sibilò con tono quasi minaccioso.

 

Lo fissò con aria divertita, inarcando brevemente le sopracciglia. “Ah, stavamo parlando di lei?” chiese distrattamente.

Vinto, sconfitto e definitivamente deluso da se stesso, Yuri si lasciò andare sul divano, chiudendosi in un mutismo ostinato che durò diversi minuti, fino a quando non fu di nuovo Kai ad intervenire. “Il campionato finirà tra dieci giorni: devi parlarle.”

 

“Per dirle che cosa?”

 

Lo sai, che cosa.”

 

Alla frase del ragazzo, l’altro si richiuse nuovamente in diversi secondi di silenzio, non sapendo cosa ribattere, anche perché qualsiasi risposta sarebbe parsa inutile ed infantile.

Hilary uscì dal bagno con passetti misurati, e Yuri alzò gli occhi solo quando si accorse che la ragazza gli si era avvicinata impercettibilmente e che gli si era posta accanto.

“Sono passati tre giorni da quando avete litigato. Tu sei in stato catatonico e Julia pare affetta da iperattività: non si ferma un attimo, organizza le sue giornate in maniera da non avere tempo per la minima cosa – a malapena di dormire.”

 

Yuri inarcò brevemente le sopracciglia, mantenendo un’espressione gelida ma di colpo rischiarato in viso. “E’ sempre stata pazza.”

 

Lei sorrise. “Probabile, ma renditi conto di una cosa: state sprecando tempo. Siamo esseri mortali, gli attimi che viviamo non tornano indietro, ogni lasciata è persa irrimediabilmente.”

 

Al sorgere del suo sguardo sarcasticamente interrogativo intervenne Kai. “Tra dieci giorni sarete in due continenti diversi; se vuoi perderla, padrone. Spero che alla lunga lei non divenga un tuo rimpianto.”

 

Le parole dell’amico avevano fatto sgranare gli occhi al rosso moscovita che, fino ad allora, non aveva nemmeno realizzato quanto vicina potesse essere la fine del torneo che aveva visto l’intrecciarsi della sua vita con quella di una certa spagnola dal carattere focoso.

Il punto era: dopo tutto quello che avevano passato, lei come avrebbe reagito di fronte a quella novità? “Non posso.” Fece, scuotendo la testa. “Lei-”

 

Hilary inarcò furiosamente le sopracciglia, avendone abbastanza. “Non puoi?” sbottò, irata. “Se vuoi, puoi. C’è poco da fare.”

 

La fissò brevemente, come se osservandola potesse capire se valeva veramente la pena di dirle ciò che aveva in mente. “Tra me e… Lei c’erano delle regole. Se io-”

 

La bruna si domandò se ucciderlo seduta stante. “Fanculo le regole!” sbottò. “Se non insegui quello che vuoi, non lo avrai mai. Se non chiedi, la risposta sarà sempre no. Se non fai un passo avanti, sarai sempre nello stesso posto.”

 

Quelle parole parvero scuoterlo definitivamente; d’un tratto divenne persino più colorato del solito. E dallo sguardo che le rivolse, la giapponese capì che la stava ringraziando, e sorrise, soddisfatta.

 

 

 

 

 

Quando spalancò la porta fu travolto da un ciclone in piena regola, e non capì né come né perché, ma ad un certo punto si ritrovò con quattro sacchettini tra le mani e un tonfo dietro di lui che indicava la porta chiusa da un brusco scatto.

Gli ci vollero uno o due istanti per voltarsi e capire che era appena entrata sua sorella.

 

“¡Hola a todos!” trillò la ragazza, battendo le mani ed andandosi a buttare sul letto matrimoniale della suite senza paura di disfarlo. “Venite a vedere!” esclamò, tentando di rappresentare la gioia fatta persona. “Mathi: ¡animo!”

 

“Ciao Julia.” L’europea sorrise a fatica, ancora pallida e provata dalle nausee che quella mattina si erano ripetute frequentemente. “Scusami, ma non mi sento bene, e-”

 

Con un sorriso soddisfatto, la madrilena prese quella che aveva tutta l’aria di essere una busta di supermercato. “Ecco qua! Fette biscottate contro la nausea: prova!”

 

I due fidanzati scambiarono un’occhiata, perplessi, poi Mathilda si sciolse in un sorriso. “Ti ringrazio davvero.” Sussurrò, prendendo il pacchetto, scartandolo e iniziando a sgranocchiare qualche fetta. “Spero funzionino; ultimamente non riesco a tenere più niente.”

 

“Ma sì che funziona!” Julia ostentò un’espressione decisa che non ammetteva repliche. “Mentre mangi, guarda qui: le sorprese mica sono finite!”

 

Dalle varie buste tirò fuori un abito premaman con la scritta Greatest surprise is in here e la freccia indicante il futuro pancione, che fece sorridere tutti; un ciuccio verde – si giustificò con il fatto che, secondo lei, fosse un colore neutro, ma vi fu una disputa quando Raùl le chiese se fosse neutro per i cuccioli degli alieni o per quelli delle lucertole. Dovette intervenire Mathilda assicurando che verde era un colore assolutamente eclettico, originale e che il loro bambino si sarebbe quantomeno distinto dagli altri. – l’ultimo cd dei Lifehouse, il gruppo preferito di Mathilda e Raùl (“La musica fa bene al bimbo!”) e infine due vestitini: uno da piccolo cowboy e uno da fatina.

 

Julia stava per spiegare che li aveva comprati entrambi perché non sapeva quale fosse il sesso del bambino, quando il pianto della ragazza la fece restare senza parole: Raùl prese a fissarla malissimo, nemmeno volesse ucciderla, ma lei, senza curarsene, si avvicinò alla coetanea.

 

“¿Qué tal, Mathi?” fece, piano. “Non volevo farti piangere. ”

 

La ragazza scosse la testa, prendendo il fazzoletto e asciugandosi gli occhi. “E’ c-che hai tirato fuori tutte queste cose… C-Ci sei tu tutta contenta di diventare zia, io che ho deluso la mia squadra, che ho rovinato la vita a tuo fratello…” singhiozzò, riprendendo nuovamente a piangere.

 

Raùl le fu subito accanto. “Non dirlo nemmeno: ci è capitato e basta. E poi-”

 

Te dimentichi qué por restare incinta bisogna essere dos.” Intervenne Julia, aggrottando la fronte nel tentativo di raffazzonare un discorso decente che fosse meno spagnolo possibile. “Te è capitato a diciannove años, està bien; te è capitato nel bel mezzo de un torneo, vale.” proferì energicamente. “Ma hai due piatti della bilancia, e non è detto che uno sia migliore dell’altro per forza.”

 

L’europea, gli occhi ancora rossi per il pianto, la fissò confusa. “Che intendi?”

 

Julia la fissò serissima. “Por un lado dovrai dire adios ad alcolici, notti brave, parolacce, serate con le amiche e probabilmente sesso per almeno tre anni.”

 

Le sopracciglia del ragazzo si inarcarono talmente da finirgli nei capelli. “Non è detto.” Sbottò.

 

La gemella gli rivolse uno sguardo sadico. “Chi era che fino a tre anni, noche dopo noche, dormiva nel lettone de nuestros patres porqué aveva paura dei mostri e dei tuoni?” la frase lo zittì, e un’espressione di puro panico si tinse sul viso dello spagnolo.

“Ingrasserai come una mongolfiera, toda la tu vida ruoterà attorno ad un esserino di nemmeno cinquanta centimetri che dipenderà totalmente da ti.” Riprese, nella direzione della ragazza.

 

Mathilda trattenne a stento le lacrime e, mentre pensava alla sua vita da adolescente, tutta fatta di uscite con le amiche, con qualche ragazzo di tanto in tanto e beyblade, si domandò che fare. “Ma tu non eri contenta di star per diventare zia?”

 

Voy una cuñada hermosa, feliz e alegre. Le casalinghe disperate voglio stiano solo in televisiòn.” Fece, stiracchiandosi brevemente. “Ma hai pensato ai lati positivi?”*

 

Raùl le lanciò un’occhiataccia. “Io sto ancora pensando a dove vendono la cintura di castità.”

 

Mandandolo a quel paese con un gesto di noncuranza, si rivolse a Mathilda, fissandola negli occhi. “Non te dirò che avere un bambino es facil: non lo è. Pero creo qué che una persona che rinuncia possa pentirsene, e amaramente. Un bambino è una vita che porta moltissima gioia e alegria, è una parte di voi due, e se vi rinunciate rinuncerete alle risate, alle prime paroline, alla prima camminata, al ciuccio, ai biberon, e alle scommesse che farete tra qualche mese su chi assomiglierà di più.” Raccontò, accorata.

“Stai per donare un’altra vita, e non credo vi sia una cosa più bella: fare la madre non deve essere né un dovere né un obbligo por una mujer, ma un diritto.” Sillabò, convinta. “E poi non hai pensato che tu e Raùl potreste andare a convivere e che gli insegnereste il beyblade?”

 

A quella frase i due fidanzati si fissarono come stralunati, dopodiché si sorrisero, parzialmente increduli. “Potrebbe essere un blader…” biascicò Raùl, come se non riuscisse a realizzarlo.

 

Mathilda, invece, osservò il suo addome ancora piatto con un sorriso. “Quindi è a causa sua che mi verranno le smagliature e mi cadranno le tette?”

 

Julia scrollò le spalle con noncuranza. “Te le rifarai. Sai como la pienso yo: non credo al matrimonio; ma il botox, quello funziona sempre.”

 

 

 

 

*. “Voglio una cognata bella, felice e allegra. Le casalinghe disperate voglio che stiano solo in televisione!”

 

 

 

 

Sistemò per bene la pasta frolla nella teglia, facendo in modo che l’impasto aderisse alla perfezione con la sua superficie per non creare pieghe o dislivelli; una volta fattolo si voltò incontrando irrimediabilmente con lo sguardo colui che la stava aiutando: insieme versarono la crema al cioccolato sopra il primo livello del dolce per poi formare con ritagli di pasta frolla perfetti quadrati tra la pasta e la crema.

Misero la crostata nel forno, mettendosi d’accordo sul tempo e modalità di cottura, e quando la ragazza iniziò a trafficare con il timer, posizionandolo affinché suonasse al momento opportuno, sentì dei rumori sospetti provenire dietro.

Voltandosi, non poté che sorridere, rassegnata, alla vista di lui che, con un cucchiaino, raccoglieva i rimasugli di crema al cioccolato per poi mangiarla.

 

Avevano sempre cucinato insieme, sin da piccoli; quello di preparare deliziose ricette e poi di mangiucchiare gli avanzi era sempre stata una loro prerogativa, ma non poteva biasimarlo… Lo faceva anche lei!

 

Gli si avvicinò sfilandogli dolcemente il cucchiaino dalle labbra e posandolo sul tavolo lì vicino; gli cinse il collo con le mani, lasciando che i loro nasi si sfiorassero e poi, una volta affondata in quell’oceano d’oro, non riuscì a non trattenere il respiro: lo baciò delicatamente, lasciando che quel tocco divenisse presto più profondo, dolce, consapevole.

 

Si sciolse da quel contatto solo quando udì il rumore della segreteria telefonica; allora, solo allora sorrise, ricambiata, appoggiando la sua fronte su quella di lui.

“Sai di cioccolata.” Sussurrò, mordendosi scherzosamente le labbra.

 

Il ragazzo le carezzò scherzosamente una guancia. “Ed è un male perché..?”

 

“A me piace la cioccolata e piaci tu; chi ha parlato di male?”

Ebbero il tempo di darsi un breve bacio che qualcuno bussò alla porta; lei sbuffò impercettibilmente, chiedendosi se fosse quella pazza della sua coinquilina, ma si ritrovò davanti, invece, Max e Mariam che, a giudicare dall’enorme sacchetto che portava l’americano, erano appena stati in un negozio di musica.

“Voi non avete fatto spese, eh?”

 

“Sì, più o meno quanto voi non avete cucinato.” le rispose a tono l’irlandese, facendo sospirare il suo ragazzo. “Si sente profumo di dolci su tutto il pianerottolo.”

 

Da brava padrona di casa li fece accomodare in  salotto dove poco dopo vi giunse anche lui: Mariam notò, divertita, come gli occhi dell’amica si illuminassero al sol vederlo.

 

“Dove sono le altre?” Max posò il sacchetto contenente le casse da stereo sul pavimento, per poi stiracchiarsi. “E’ raro che questo pianerottolo sia tranquillo.”

 

“Almeno qualcosa è successa.” Ribatté Mariam. “Se Rei e Mao sono tornati a cucinare insieme, il pianeta ha ritrovato la sua asse di rotazione.” La cinese le tirò un fazzoletto appallottolato, schivato prontamente.

 

“Hilary è fuori per una passeggiatina con Freddie. Julia è in giro da qualche parte come al solito.” Spiegò Mao, facendo una smorfia. “Sono preoccupata per lei: ho provato a parlarle, a farla ragionare, ma è come impazzita.”

 

“Sta reagendo con la sua proverbiale grinta, non si sta ripiegando su se stessa.” Osservò Max, inarcando un sopracciglio.

 

“E’ una grinta fittizia.” Lo contraddì la sua ragazza, facendo annuire Rei. “Fa la parte della ragazza solare e grintosa per non farci preoccupare, ma non capisce che siamo suoi amici, le vogliamo bene, e lo capiamo se finge o meno.”

 

“La situazione di Raùl e Mathilda pensavo l’avesse presa peggio, invece devo dire che l’ha aiutata.” Rifletté Mao. “A questo punto deve solo risolvere questa faccenda.”

 

“Come Hilary e Takao devono risolvere la loro.” Intervenne Max, visibilmente preoccupato, facendo ammutolire tutti.

 

 

 

 

 

Nonostante fossero un paio di settimane che era con lei, si ritrovava ancora a ridere quando vedeva il suo cucciolo girare in tondo ed alzare la zampetta posteriore con aria sospetta, nemmeno fosse un detective privato che cerca indizi su qualcosa.

 

Era tornata dal Plaza mezz’ora prima, trovando Mao e Rei intenti a cucinare e Freddie pronto ad annusare qualsiasi cosa fosse succulenta – quant’era goloso, quel cane! – così aveva deciso sia per svagarsi che per distrarsi dall’ansia di quella sera, di portarlo fuori per lasciare un po’ da soli i due amici.

 

Da quando si erano messi insieme, giorni prima, ad un occhio poco attento sarebbero sembrati sempre gli stessi, con la solita routine eccezione fatta per il parlarsi e lo stare insieme, ma non era così: da tre giorni a quella parte Mao e Rei erano la felicità consacrata persona. Tutto pareva risplendere in loro: gli occhi, l’incarnato, il sorriso.

Vedere una delle sue amiche più care trovarsi in uno stato di estasi così profonda non poteva farle che piacere, ragion per cui Hilary aveva definito quel periodo uno dei più rosei della sua vita, o quasi. La situazione di Julia e quella di Takao veleggiavano su di lei come due nuvoloni neri.

 

“¡Hola!, ¿qué hacemos, pis?” si voltò di scatto, ma non rimase sorpresa nel vederla: fulgidi capelli ramati, pelle abbronzata, sorriso luminoso che spiccava su tutto… Tutto pareva perfetto in lei.

 

“Sì, sì; facciamo proprio pipì.” Le sorrise, conducendo Freddie verso l’altro lato del marciapiede. “Finiti i tuoi giri?”

 

La spagnola sorrise, soddisfatta. “Sono stata da mi hermano: ho convinto Mathilda a farme diventare tia!” annunciò, battendo le mani in segno di contentezza. “Era così a terra, pobreta, ma ho saputo tirarla su.”

 

“Meno male, almeno questo.” Sospirò, sinceramente sollevata. “Se eri al Plaza è stato strano non incontrarci; io ero nella suite della Neoborg.” Buttò lì con fare casuale, scrollando le spalle.

 

Julia si irrigidì impercettibilmente, dopodiché tornò ad ostentare il solito umore allegro di sempre. “¿Por qué? Eravamo in suite diverse, nemmeno nello stesso piano, mica è tanto strano.” Fece, fissando ostinatamente un punto davanti a sé. “Sai che ho comprato un vestito-”

 

Hilary la interruppe, decisa: in quei giorni era stata anche troppe volte testimone di cambiamenti improvvisi di umore, di discorso, tutto per una ragazza che non si decideva a prendere di petto una situazione, e che la affrontava nella maniera sbagliata.

“Alle sei c’è la prova finale nel garage di Kassie.” Sbottò bruscamente, fissandola in maniera quasi torva. “Alle undici e mezza ci esibiremo e sai anche tu che sarà la nostra ultima esibizione.”

 

Julia sbatté gli occhi, allucinata. “Porqué me stai dicendo questo?”

 

“Perché voglio che tu sia al massimo della forma, stasera e stanotte. Non trincerarti dietro questa stupida allegria, mi fai solo venire voglia di urlare.”

 

“¡Despacio, chica!” sbottò la spagnola, gli occhi verdi fiammeggianti di rabbia. “¡Modera el lenguaje!”*

 

Hilary la trapassò con lo sguardo. “Moderare il linguaggio? Non vedo perché, se ciò che sto dicendo è la verità.” Sibilò, volutamente velenosa come un serpente. “Che c’è, basta una lite con il tuo lui per metterti KO? Dov’è la Julia Fernandèz che conosco?” sentendo un impennamento dei toni e la tensione aumentare, Freddie abbaiò, calmato da una breve carezza sul dorso.

 

“¡Tu no sé nada!” sputò fuori la madrilena, irata. “Kai te quieres, te amas, ed è ampiamente ricambiato, si vede. Non lo sai com’è avere delle determinate idee riguardo gli uomini e l’amore e poi ritrovarsi fregata da queste idee stesse! Non lo sai com’è innamorarsi dell’ultimo ragazzo a cui pensavi che non fa altro che provocarti, farti saltare in aria, eccitarti e farti disperare! ¡Non lo sé! E non lo sai com’è vederlo completamente indifferente nei tuoi confronti e capire che tra dieci giorni sarete a continenti di distanza l’uno dall’altra… E che per lui non sarai altro che una delle tante..!”

 

Quando scoppiò a piangere, le braccia di Hilary si mossero da sole: circondò le spalle dell’amica dolcemente, accarezzandola con tutto l’affetto che provava.

Sapeva come si sentiva: si erano conosciute al terzo campionato di bey ed avevano legato immediatamente. Insieme erano sempre state i due cicloni, i due pericoli pubblici del gruppo, e la loro amicizia si era consolidata con davvero poco.

“So come ti senti.” Le sussurrò. “La mia Julia innamorata… Non c’è più mondo.” Disse melodrammaticamente, aspirando la J e beccandosi un pizzicotto sul fianco che la fece ridere.

 

La spagnola tirò su con il naso, rivolgendole un sorriso. “Me avevi provocato de proposito.”

 

La giapponese annuì stancamente. “Sì; qualcuno doveva pur farti reagire. E ora che ci sono riuscita ti invito nuovamente ad essere più forte di prima sia alle prove che all’Avalon.” Si fissarono negli occhi, sorridendo, e Hilary capì all’istante ciò che la sua amica le stava comunicando: ci puoi scommettere: sarò forte, forte come un leone. Talmente forte da farti essere orgogliosa di me.

 

Quando Freddie abbaiò, le due scoppiarono a ridere, abbracciandosi. Intrapresero la strada del ritorno insieme, sorridenti, parlando del più e del meno, ma fu un sms giunto all’improvviso sul cellulare della nipponica che le fece restare senza parole.

 

Hilary, ha telefonato Shannon: suo padre è guarito e lei è pronta a tornare.

 

 

 

* “Con calma, tesoro. Modera il linguaggio.”

 

 

 

“Vi licenziate davvero?” l’intero staff dell’Avalon, Mitch in testa, stava fissando in maniera contrita e dispiaciuta Mao e Mariam, che avevano appena sganciato la bomba.

 

La cinese fissò tutti con un pizzico di nostalgia: pareva il giorno prima che era stata assunta per caso, solo per aver preso al volo un vassoio, e invece proprio in quel momento si ritrovava in quella situazione che ai tempi le era parsa lontanissima.

“Mi sa di sì…” fece, stringendosi nelle spalle. “Tra pochi giorni dovremo ripartire, e…” osservando i volti di tutti i suoi colleghi che la osservavano rammaricati, ricordò tutti i bei momenti passati a servire ai tavoli, a ridere e scherzare tra un lavoro e un altro, e i flashback la inondarono per rischiare di farla commuovere da un secondo all’altro.

 

“Era provvisorio, e si sapeva.” Intervenne Mariam, ferma, dando man forte all’amica. “Sono stati dei bei mesi, ma tutto deve finire.” Fece, scrollando le spalle.

 

Mitch abbozzò un sorriso, realizzando di aver capito alla perfezione la personalità di quelle due collaboratrici tanto preziose. “Siete state parte integrante dello staff a tutti gli effetti, anche se per poco.” Iniziò. “Ci mancherete; la vostra scrupolosità, puntualità e meticolosità nel lavoro è stata notata, così come la vostra personalità, che ormai era parte del gruppo. Sappiate che, qualora decidiate di tornare da queste parti, avrete sempre un posto qui.”

 

A quelle parole, gli occhi di Mao si bagnarono di lacrime, Mariam abbozzò un sorriso sincero e gli altri, i colleghi con i quali avevano condiviso battute, risate, avventure in quei mesi, annuirono, fecero dei gesti che le fecero ridacchiare oppure si avvicinarono per abbracciarle.

 

Il padrone di quel locale stette cinque minuti ad osservare la scena, sorridendo compiaciuto e, ancora una volta complimentandosi con il suo fiuto di saper individuare brave persone ed eccellenti collaboratori.

Dopo qualche secondo batté le mani per richiamare l’attenzione di tutti, e solo quando fu sicuro che tutti lo stessero guardando, parlò: “Oggi è Venerdì, ed è l’ultima giornata di lavoro di queste due ragazze: lavoriamo sodo anche più degli altri giorni per renderla indimenticabile. Ho la sensazione che stanotte accadranno un bel po’ di cose!”

 

 

 

 

 

Con il cuore in gola di fronte la stanza dell’hotel, Hilary avrebbe volentieri gradito mangiarsi le mani. A volte non capiva da dove le derivasse tutto quell’orgoglio misto a paura. Un po’ come in quel momento.

Sospirando per l’ennesima volta, non seppe se ringraziare o mandare al diavolo quella titana della sua migliore amica, che l’aveva praticamente portata di peso di fronte al Plaza.

 

“Vuoi continuare così, chica? Tra un poquito de tiempo lui partirà, e voi sarete con lo stesso cuore spezzato a causa de una tontaria!”

 

Che Julia avesse ragione le ci era voluto un istante per comprenderlo. Non parlava con Takao da tanti giorni, troppi per quanto lei riuscisse a sopportare. Così con la loro foto in una mano e il suo cuore nell’altra, si apprestava ad andargli a parlare. Più o meno.

 

Che cacasotto che sono!

 

Bussò in un impeto di coraggio che le venne a mancare quando udì un gran fracasso al di là della porta. Sbattendo gli occhi, si fece forza a bussare ancora, e fu svariati secondi dopo che udì qualcuno avvicinarsi.

 

“Hilary!”

 

Prima che Takao potesse aggiungere qualsiasi altra cosa, lo fissò un istante ed iniziò a sproloquiare. “Mi dispiace, mi dispiace tanto!” esclamò, entrando nella suite. “Sono stata esagerata, fin troppo, ne sono consapevole; ma improvvisamente mi sono sentita come se per te non contassi più nulla, e era una sensazione più che sgradevole, credimi.” Fece, sospirando. “Ci siamo stati l’uno per l’altra praticamente tutta la vita, e ora che improvvisamente fuggi per fare chissà che con-” cacciare un urlo le venne spontaneo quando vide ciò che vide.

 

Trisha era praticamente nuda, e stava cercando di raffazzonare alla bell’e meglio i suoi vestiti per indossarli. Solo allora si accorse che Takao aveva una vestaglia stretta in vita alla men peggio e che lei doveva aver interrotto qualcosa.

 

“Oddio, copriti!” sbottò nella direzione del suo migliore amico, mettendo le mani davanti agli occhi. “Quella cosa non è assolutamente della tua taglia!”

 

Il ragazzo parve corrucciarsi. “Lo so.” Borbottò, andando in bagno e prendendo i suoi vestiti.

 

Trisha si era praticamente vestita, anche se indossava il top al contrario. “Che palle, sempre che ti lamenti!”

 

Nonostante lei e la chitarrista della sua band non si parlassero da giorni, Hilary ridusse gli occhi a due fessure. “Sono capitata tra capo e collo per venirmi a scusare, e voi-”

 

Il bacio che le arrivò sulla guancia la lasciò di stucco. L’altra le stava sorridendo, contenta e con un sorrisetto sul volto. “Mi sei mancata, stronza.”

 

La bruna sorrise, incapace di far altro. “Senti chi parla.” Fece, ponendo le braccia conserte. “Ehi, signorino, hai finito lì dentro?”

 

Il grugnito di Takao si udì anche se vi era una porta di mezzo. “Sì, sì.” Sbottò. “Sai che sei una palla anche quando devi scusarti?”

 

“Ma questa palla ti mancava.” Fece notare con tono furbastro.

 

Il ragazzo annuì come se si trattasse di una cosa di poco conto. “Beh, sì.”

Passarono due secondi prima che si slanciassero l’uno contro l’altra per avvilupparsi reciprocamente in un abbraccio di marca Kinomiya-Tachibana. “Sapessi quanto mi sei mancata, stronzona.”

 

Hilary roteò gli occhi. “Ho capito che sono stronza, ma potete smetterla di farmelo notare?”

 

Trisha sorrise. “No, è decisamente divertente.”

 

La giapponese ridacchiò per poi porre le mani sui fianchi. “Allora, non c’è nulla che mi dobbiate raccontare?”

 

I due interpellati si fissarono con un cipiglio angelico. “Noi?”

 

“Voglio sapere come, dove, quando, perché, e in che circostanza è scattato tutto.” Dichiarò, saltellando per l’eccitazione.

 

“Ti pareva che non si metteva a fare il terzo grado.” Borbottò Takao, inconsapevole della ciabatta di spugna che gli sarebbe arrivata sulla nuca due istanti dopo.

 

“Niente da dire.” Trisha scrollò le spalle. “Ci siamo incontrati per caso dopo il primo concerto a cui lui ha assistito, e da lì è iniziato tutto.”

 

“Perché tenerlo segreto?”

 

“Perché all’inizio era solo sesso.” Spiegò la ragazza con semplicità. “Quando si è tutto trasformato in qualcosa di più, volevamo vedere dove ci avrebbe portato.”

 

Hilary sbuffò nella direzione di Takao. “Solo tu ti cacci in queste situazioni.”

 

“Ma sta’ zitta, signora Hiwatari.”

 

La bruna ridusse gli occhi a due fessure. “Come mi hai chiamata?”

 

“Hilary e Kai! Kai e Hilary! Hilary Tachibana Hiwatari!” canticchiò Takao, con un sorriso che sapeva di sfida. “A quando le presentazioni ufficiali? E le nozze? E il banchetto? E i bambini?”

 

“Questo è troppo!”

 

Trisha rimase allibita quando li vide rincorrersi per tutta la suite come gatto e topo, eppure, dopo qualche secondo di sbigottimento colse le smorfie ironiche o fintamente arrabbiate, e capì quanto fosse grande e forte il loro legame. Allora sorrise.

 

 

 

 

 

“Desiderate?”

 

Emily sorrise nel trovarsi davanti l’amica in versione cameriera: sapeva che era la sua ultima serata lì al pub e sapeva anche quanto ci tenesse e cosa significasse per lei; nell’uniforme targata Avalon: Mao era più sorridente che mai, piena di energie e pronta per quel Venerdì sera che pareva voler risucchiare l’anima a tutti coloro che lavoravano lì, data l’affluenza anche maggiore degli altri giorni.

 

“Un caipiroska.”

 

“Un malibù alla fragola con ghiaccio.”

 

“Una birra.”

 

“Per noi tre Baileys. Mao, mi raccomando, una spruzzata di cacao sopra, eh.”

 

La cinese ridacchiò, appuntandoselo: eccoli là la squadra americana al completo più lui che le stava sorridendo. Onde evitare che il cervello le andasse in pappa, e per rimanere concentrata sul suo lavoro evitò il suo sguardo, focalizzando la concentrazione sul foglio. “Che rapidità, ragazzi: se solo fosse stati così decisi anche le scorse settimane..!”

 

“E’ il nostro regalo per la tua pensione anticipata.”

 

La battuta di Michael fece scoppiare a ridere tutti, Mao in testa, che con una manata lo mandò a quel paese; Max, dopo che le risate furono scemate, le fece cenno  di avvicinarsi e con un abile gesto le sottrasse il block-notes e la penna per riconsegnarglielo poco dopo. La ragazza rimase basita, ma quando vide ciò che aveva scritto sorrise.

Andò verso il bancone arrossendo quando ricevette un caldo sorriso da parte sua, ma dirottò immediatamente la traiettoria quando individuò due persone a lei care prendere un aperitivo con il gruppo degli europei.

“Ehi, ragazzi, dovete ordinare?”

 

Ralph annuì, cominciando a comunicare le ordinazioni per lui e per gli altri compagni della squadra, che Mao scrisse velocemente, dopodiché la sua attenzione si focalizzò su Raùl che ordinò una piña colada e su Mathilda che prese una coca-cola.

 

“Tutto bene?” chiese, un sorriso dolce sulle labbra; sapeva quanto i due stessero soffrendo all’idea di prendere una decisione consona alla situazione che si sposasse con le idee di entrambe e che facesse contenti entrambi, ma non era per niente facile, quindi quando tutti e due si voltarono a sorriderle, contenti, Mao rimase incredula e felice.

 

“Lo teniamo.” Sussurrò Mathilda, felice.

 

Mao si voltò prima verso di lei, poi verso il suo migliore amico che annuì, un sorrisone sulle labbra. “Non possiamo mica perderci un piccolo blader, giusto?”

 

L’orientale sorrise loro di rimando, felicissima. “Giustissimo.” Si morse le labbra per non urlare di gioia, dopodiché li abbracciò brevemente entrambi. “Aggiornatemi minuto per minuto tramite sms, e-mail, segnali di fumo… Tutto! Voglio sapere.”

 

Mathilda si carezzò la pancia con fare spontaneo. “Ma certo. Nascerà a Novembre, e il presidente ci ha detto che dopo Natale dell’anno prossimo è previsto un nuovo torneo: ti immagini portarlo e fargli respirare l’aria di beyblade già a pochi mesi?”

 

Mao e Raùl risero alla sola idea, immaginandosi un frugoletto con il cappellino pronto a tifare per la mamma e il papà che combattevano per il titolo mondiale.

“Ragazzi, sono così felice!” l’orientale era estasiata. “Mitch mi sta fulminando con lo sguardo, ma chi se ne frega: sapete che faccio? I drink ve li offro io!” esclamò, veleggiando verso il bancone.

 

Al sol sentirlo Andrew si voltò verso il compagno di squadra italiano inarcando un sopracciglio. “Hai sentito? Cocktail gratis! E tu mai che fai qualcosa di buono mettendo nei guai una ragazza!”

 

 

 

“Serata assurda.” Mariam si era legata i capelli e stava shakerando drink a tutta forza; quel giorno il pub era stracolmo come mai lo era stato; non le era mai capitato di non avere nemmeno il tempo di uscire a fumare una sigaretta.

 

“Già.” Fece Mao, ancora sorridente. “Credo avremo un attimo di pausa tra una mezz’ora, quando arriveranno le ragazze.” Fece, attaccandole i post-it sotto il naso.

 

L’altra annuì sbrigativamente, mollandole tre vassoi con drink già pronti, e la cinese partì alla volta dei tavoli ai quali consegnarli.

L’irlandese si scansò dal viso una ciocca di capelli, aspettando che il ghiaccio si frullasse per bene, dopodiché adocchiò distrattamente il foglietto che le aveva attaccato Mao, quando una cosa attirò la sua attenzione.

 

Sai che un uomo beve più volentieri se la barista è carina?

Max

 

Mariam ridacchiò, strappando quel pezzetto di carta e conservandolo per sé, dopodiché tornò al lavoro come rifocillata dopo una corsa enorme.

 

 

 

 

 

I buttafuori, come tutti i dipendenti dell’Avalon, erano selezionati direttamente dal capo del locale: Mitch. Erano dei ragazzoni alti con le spalle larghe, vestiti rigorosamente di nero con l’auricolare e lo sguardo minaccioso dietro gli occhiali da sole, pronto a far desistere i furbetti dal compiere qualsiasi bravata.

 

I Neoborg, per esempio, all’apparenza potevano avere l’aspetto di piantagrane, invece non vi era alcun problema se si trattava di loro; prima di tutto perché erano clienti fissi e ogni weekend erano lì, poi perché prenotavano sempre il privee più caro pagando in contanti, per non parlare delle notevoli consumazioni ad personam, quindi era naturale che una volta che giungevano lì, i buttafuori li lasciassero passare per la corsia preferenziale, come fecero quella sera, quando si presentarono alle undici e venti passate.

 

Come al solito passarono in mezzo alla folla del locale per poi raggiungere il loro privee: non amavano la gente, il chiasso, la confusione.

Quel posto era il più congeniale solo perché erano rispettati, gli alcolici erano preparati in maniera decente e la musica era molto buona – sapevano bene di non poter trovare un posto migliore, che rispecchiasse i loro canoni: a New York era impossibile star da soli.

 

Mao arrivò qualche secondo dopo, avendoli visti già in lontananza. Li salutò con un sorriso, e non si perse in chiacchiere, sapendo bene come fossero fatti: chiese semplicemente cosa volessero. Scrisse sul taccuino una vodka liscia, un assenzio, un Jack Daniels e un whiskey per l’Ivanov, dopodiché andò via, promettendo che le ordinazioni sarebbero arrivate quanto prima.

 

Kai notò come Boris e Sergey – che avevano notoriamente i ruoli di spartiacque e di supervisori degli altri due, generalmente più a briglia sciolta – non avessero detto alcunché di fronte alla decisione di Yuri di prendere quell’alcolico, né avessero fatto alcuna faccia strana. Evidentemente c’era qualcosa in ballo che lui non sapeva.

 

Pochi minuti dopo un’altra cameriera portò le loro ordinazioni, che si accinsero immediatamente a smistare. Con il suo assenzio in mano, Kai si guardò intorno, fissando i suoi compagni di squadra sorseggiare i loro drink: sapeva benissimo quanto fossero dediti a quei liquori che nelle gelide serate russe riscaldavano loro gola e stomaco, e sapeva anche quanto fossero pignoli, visto che era raro trovare un locale che li sapesse fare decenti, ed invece-

 

Le luci si spensero di colpo in tutto il locale, facendo urlare tutti; Kai sogghignò leggermente, prendendo nuovamente a sorseggiare il suo assenzio e preparandosi interiormente a godere la scena che gli si sarebbe presentata dinnanzi.

 

Una luce blu vagò apparentemente indisturbata per tutto il locale, facendo ululare tutti, e scontrandosi con una luce bianca, divenendo improvvisamente azzurra ed illuminando di colpo l’intero locale: le Cloth Dolls erano lì.

Tra schiamazzi, urla ed applausi, il pubblico si alzò in piedi, chi sorridendo chi saltando per la contentezza, esuberante per quell’effetto particolare mai utilizzato prima.

 

Trisha e Kassie iniziarono immediatamente a suonare, e in un secondo momento vi si immise Julia con la batteria: tutti riconobbero immediatamente la canzone dalle prime note. Era Goin’ Down.

Hey there Father, I don’t wanna bother you but I’ve got a sin to confess.” Cantò Hilary, piena di energia e seducente nel suo top blu e pantaloni di pelle.

 

La canzone finì tre minuti e mezzo dopo, tra le urla e gli applausi di tutti, e le Cloth Dolls si sorrisero, entusiaste. La cantante avanzò di qualche passo, ravviandosi con un gesto delle mani i capelli per quella sera resi liscissimi dalla piastra.

 

Avalon, ci siete mancati!” il consueto ‘yeah!’ risposta si fece sentire più delle altre volte, facendo sorridere la ragazza. “Stasera non è uno dei soliti Venerdì sera, però.” Iniziò, scrollando le spalle. “Si sa che le cose – belle o brutte che siano – finiscono, e che nulla, nulla dura per sempre. Fortunatamente, sfortunatamente? Decidetelo voi.” Disse, con un sorriso. “Noi sappiamo solo che a breve la nostra bravissima batterista ci lascerà per tornare in Spagna e che ci mancherà moltissimo. Vi prego: un applauso enorme per Julia.”

Una scrosciante ovazione provenne dal pubblico, talmente forte da ricordare un boato, e talmente commovente da fare mordere le labbra alla madrilena.

Hilary andò vicino all’amica, cingendole le spalle con un braccio per poi baciarle la fronte. “E ora godetevi un concerto molto speciale!”

 

Le ragazze iniziarono a battere i piedi a tempo, in un ritmo famosissimo che presto tutti riconobbero: era la cover con la quale avevano aperto il torneo di Beyblade.

Dapprima suonò Trisha, con dei movimenti precisi e meticolosi che fecero capire quanto avesse fatto sua quella canzone, poi vi si unì Julia con la batteria ed infine anche Kassie prese parte: osservandole Hilary non poté non realizzare quanto fosse orgogliosa di loro e quanto non avesse potuto ottenere di meglio.

Buddy you're a boy make a big noise, playin' in the street gonna be a big man some day! You got mud on yo' face, you big disgrace, kickin' your can all over the placeSingin'…

We will, we will rock you!” il pubblico lo cantò assieme a lei pieno di vitalità ed energia, e la bruna non poté far altro che puntargli contro il microfono, e allora si sentì un boato: “We will, We will rock you!”

Si succedettero altre canzoni che fecero andare in delirio tutto il pub: Zombie, Where did Jesus go?, Just tonight, My medicine, Miss Nothing – e qui Hilary strizzò l’occhiolino a Kai che, per tutta risposta roteò gli occhi – fino a quando non terminarono il loro repertorio, o quasi.

Ad un certo punto le luci si spensero per poi riaccendersi ad intermittenza, segno che le Cloth Dolls avevano una qualche sorpresa.

“E adesso, Avalon… Non potevamo assolutamente salutare senza una nuova canzone.” Soffiò Hilary sul microfono, sorridendo compiaciuta; fermò le urla e gli applausi nascenti con un gesto della mano. “Vi sono tanti tipi di occhi; occhi che possono ammaliare, occhi che possono stregare, lasciare indifferenti, inibire… Uccidere. Intenda chi ha orecchie per comprendere.” Sussurrò, sensuale, scatenando ulteriori applausi.

Le luci si abbassarono per concentrarsi sulla batterista, infine si estesero a tutto il gruppo: iniziò a suonare Trisha, esibendosi in un lieve, misurato assolo, per poi venire seguita a ruota da Julia e da Kassie. Il sound era ritmato e decisamente rock, di marca decisamente Cloth Dolls.

Take me I'm alive, never was a girl with a wicked mind, but everything was better when sun goes down.

Anche il testo pareva essere differente dal solito: mentre le altre canzoni solitamente parlavano di amori finiti male, di flirt che duravano poco o tutt’al più della concezione che avevano le ragazze della religione, questa sembrava parlare di tutto e di niente.

I had everything: opportunities for eternity, and I could belong to the night…La cantante chiuse gli occhi, abbandonandosi alla fine della seconda strofa, che fu accompagnata da un lieve assolo di batteria, e proseguì immediatamente con il ritornello che, sensuale e melodico, fece drizzare le orecchie a molti.

Your eyes, your eyes, I can see in your eyes, your eyes…

Qui Hilary spalancò il suo sguardo su un punto preciso del pubblico: il privee dei Neoborg.

You make me wanna die! I'll never be good enough, you make me wanna die: and everything you love will burn up in the light every time I look inside your eyesMake me wanna die!

 

Quando la canzone fu sul punto di finire, la giapponese andò verso Trisha, pose il microfono vicino la chitarra elettrica, e la sua amica fece un assolo finale esemplare, che fece battere le mani e urlare tutti. “Alla chitarra elettrica Trisha Malone!”

Avvicinandosi al piano sorrise alla bionda e fu per miracolo che non scoppiò a ridere quando la sentì intonare le note di We are the Champions. “Al pianoforte Kassandra Neal!”

Le servirono pochi passi per raggiungere la sua amica, la sua compagna di avventure e, scambiatosi uno sguardo, non rimase sorpresa quando fece saltare in aria il pubblico con qualche colpo di batteria, generando, poi, applausi scroscianti, ancora prima di poterla presentare. “E alla batteria la nostra Julia Fernandéz!”

 

Fu a sorpresa che la spagnola tolse dalle mani il microfono alla nipponica, facendo ridere tutto il pubblico e lasciando sbalordita l’amica. “Alla voce Hilary Tachibana!” esclamò, beccandosi uno schiaffetto sul braccio.

 

Posizionato il microfono sull’asta, bastò uno sguardo per mettersi d’accordo: le ragazze lasciarono i loro strumenti per avvicinarsi ed applaudire con il pubblico; si presero per mano, inchinandosi come attrici alla loro prima teatrale, e tra sorrisi e qualche lacrima di commozione salutarono tutti, guardando la gente che ora le stava applaudendo.

 

“Ed erano le Cloth Dolls!” era scontato che Mitch dovesse chiudere il loro concerto, ma in quel frangente erano talmente emozionate, prese dal momento che si ritrovarono a sobbalzare tutte e quattro, ed in seguito a ridere di loro stesse. “Un applauso a questa band che ci ha regalato weekend carichi di energia!”

Uno scroscio di urla, di applausi assordò le ragazze che emozionate, salutarono nuovamente coloro che stavano dimostrando loro così tanto affetto per poi iniziare a scendere dal palco quando Mitch fece loro cenno.

 

 

 

“Ti sei imbambolato?” Mai come in quel momento la frase di Sergey gli sembrò fuori luogo. Era già confuso di suo, la gente e il chiasso in quel locale non contribuivano in modo favorevole; vi erano troppe persone, troppa… Umanità.

 

A proposito dell’essere misantropi.

 

Yuri scosse leggermente la testa focalizzando l’attenzione sul palco, e sbattendo gli occhi si rese conto che colei che non aveva smesso un secondo di fissare quella sera era sparita.

Non gliele dovevano fare queste cose: già il locale era più affollato del solito – se non avessero avuto il loro privee sarebbe morto schiacciato – poi con quella maledetta giarrettiera infilata alla coscia sinistra aveva passato mezzo concerto ad elaborare pensieri molto poco casti su una certa persona, ed infine vi era una canzone che gli dava da pensare.

Se ci si metteva pure Sergey, stava davvero a posto.

 

Grandioso.

 

“Allora?” si voltò a fissare Boris che, come Sergey, pareva avercela proprio con lui.

 

“Che c’è?” sbottò, irritato.

 

“Presumo che il loro sia un modo per chiederti che diamine ci stai a fare ancora qui.” intervenne Kai, osservando il fondo del suo bicchiere con fare disinteressato.

 

Indeciso se irritarsi ulteriormente o scuotere la testa rassegnato, Yuri scelse di alzarsi, posando sul tavolino la bottiglia di birra. “Grazie per l’interessamento, mammine.” Sogghignò, facendo sbuffare tutti e tre.

 

Uscendo dal privee realizzò che in realtà sapeva di dover sbrigarsi per andare a parlare con una certa persona – parlare; lui non era affatto capace di parlare, interloquire con la gente et similia, non aveva la minima idea di cosa avrebbe detto una volta che l’avrebbe avuta davanti, ma non era importante – stava solo aspettando che la folla scemasse, anche se di poco. Infatti, come notò imprecando e borbottando in tutte le lingue che conosceva quando rimase più volte incastrato, la folla non si era diluita nemmeno un po’.

 

Dannazione a te, Fernandéz. Questa me la paghi con gli interessi.

 

La gente, le persone, si susseguivano una dopo l’altra, parevano non finire mai: ritrovandosi in quella situazione capì la ragione per cui preferiva non ritrovarsi per nessun motivo in circostanze come quella.

 

E poi la vide.

 

Una pelle abbronzata che conosceva bene, una chioma ramata, un paio di occhi verdi che osservavano l’ambiente circostante con allegria e sicurezza, e un paio di gambe accavallate l’una sull’altra che mostravano appena, in una circostanza di vedo-non-vedo molto sensuale, una fine giarrettiera che gli fece venire voglia di allentarsi il colletto della camicia.

 

“Julia.” non ebbe bisogno di alzare troppo la voce affinché lei lo sentisse.

 

La vide voltarsi nella sua direzione con occhi sgranati: si trovava con le ragazze del suo gruppo e con altri bladers, pronti a festeggiare il bellissimo concerto che avevano regalato al pub, ma quando i suoi occhi di ghiaccio affondarono nei suoi verde prato, mormorò qualcosa a Hilary per poi alzarsi ed avvicinarsi a lui.

 

Si spostarono nel posto meno trafficato di tutto il locale, e fissandolo Julia assunse un’espressione tremendamente seria. “Non mi aspettavo de vederti.”

 

Il russo trattenne a stento l’istinto di roteare gli occhi, anche perché capì perfettamente che quello era il suo personalissimo modo di fargliela pagare. “In quel caso sarei stato un idiota.” quando le sopracciglia di Julia si inarcarono, sospirò. “Okay, sono un idiota.” ammise. “Ma non sono abituato a perdere ciò che voglio.”

 

Sentendo i battiti del suo cuore accelerare, la ragazza si impose di non viaggiare con la mente e di rimanere con i piedi per terra; ma come si faceva al sol sentire quelle parole?

“Cioè?” gracchiò, la gola secca e la voce tremolante.

 

Lui inarcò un sopracciglio, facendo del suo meglio per non sbuffare pesantemente; quando si avvicinò e lei lo vide sogghignare in maniera sfrontata ma differente dalle altre volte – quasi dolce, rassegnata, sconfitta e… Romantica? – il cuore di Julia fece lo stesso doppio salto mortale che lei soleva fare quando aiutava i genitori con il circo.

Fernandéz, devo farti un disegnino o lo capisci da sola?”

 

Per non urlare a causa della troppa gioia che le stava esplodendo dentro fu costretta a mordersi le labbra, esibendo poi un sorriso birichino. “Soy piuttosto tarda, ¿me lo puedes explicar?”

 

Il russo sbuffò, scuotendo la testa e avviluppandola in un abbraccio che gli riuscì alla bell’e meglio. Quando le loro labbra si incontrarono, sentì solo il profumo che sapeva così tanto di lei entrargli nelle narici, e allora per la prima volta poté dire di aver trovato qualcosa che lo tenesse legato senza che gli desse fastidio. Julia era l’altra parte di sé, quella che lo faceva ammattire, disperare, ma anche la sua coscienza, quella che lo metteva di fronte alle realtà che lui non voleva vedere. Sarebbe stata una bella sfida. Niente che lui non amasse.

 

 

 

Poco lontano, le Cloth Dolls applaudirono fragorosamente assistendo alla scena, e Hilary sospirò, innalzando il suo cosmopolitan alla sua amica, bevendo alla sua salute.

 

Mao distribuì gli altri drink appena portati ed adocchiò la giapponese, vedendo immediatamente i suoi occhi lucidi. “Tesoro, va tutto bene?”

 

Quella sorrise, scuotendo la testa e mordendosi le labbra. “Stavo solo rimuginando…”

 

La cinese mise il broncio. “Non lo fare, per carità: il sol pensiero che tra un paio di giorni saremo tutte a continenti di distanza e dovremo dirci addio mi strazia.” Ammise. “Questi mesi da un lato sono volati, dall’altro mi sembra di essere approdata a New York ieri.”

 

“Sapevamo che dovevano finire.” La giapponese accavallò le gambe e scrollò le spalle. “Ma non dire la parola ‘addio’: la nostra amicizia durerà fino a quando lo vorremo e ci saremo l’una per l’altra, così come ci siamo state sempre.” Mao annuì, completamente concorde con quelle parole e le sorrise dolcemente, stringendole la mano con affetto.

Quando tornò al lavoro per forza di causa, Hilary passò dal lungo bancone del pub e, vedendo Mariam impegnatissima ne approfittò. “Tu tornerai in Irlanda prima, quindi approfitto di questo tuo momento occupato per dirti che ti voglio bene… Tanto non puoi replicare!”

 

La mora non smise di shakerare un drink per lanciarle un’occhiata che la trapassò da parte a parte. “Anche io te ne voglio, stronzona.” La giapponese scoppiò a ridere, dopodiché le strizzò l’occhio.

 

Uscendo dal pub, sorrise nell’adocchiare Yuri e Julia che si stavano già pizzicando come al loro solito, e scuotendo la testa realizzò che non sarebbero mai cambiati.

 

Le bastò solo un’occhiata, un’occhiata in una specifica direzione per essere compresa.

Fuori dal locale non vi erano molte persone: erano entrate tutte. Cacciò fuori dalla pochette una delle sue vogue alla menta e la accese con non poca difficoltà, visto il vento che tirava; quando buttò fuori il primo tiro, si sentì un pizzico più leggera. Non aveva mai fumato tanto, ma quando lo faceva la nicotina aveva il potere di estraniarla dal mondo.

 

Stava iniziando a pensare a che ore fossero quando qualcuno, da dietro, le scippò la sigaretta dalle dita senza tanti complimenti. Si voltò di scatto, e quando vide chi c’era, prese a fissarlo a metà tra l’irritato e il divertito.

 

“Chiedermene una no, eh?”

 

Kai buttò fuori una boccata di fumo e scrollò le spalle con fare noncurante. “Fregartela è meglio.”

 

Lei rise. “Vaffanculo.” Si sedette sull’alto marciapiede, recuperando la sigaretta e sistemandosi i pantaloni di pelle. “Quando partirete tu e i ragazzi?”

 

Le si sedette accanto. “Non appena finirà il torneo. Devo battere Takao.”

 

Un’altra risata si fece largo tra sue labbra e, mentre aspirava una boccata di sigaretta, non poté fare a meno di pensare a quanto la vita potesse essere strana. “Questa frase l’ho già sentita.”

 

Lui scrollò le spalle e con un abile gesto le prese quello che aveva tra le dita per poi spegnerlo sull’asfalto senza tanti complimenti. Lei non se ne fece un cruccio; osservò quella sigaretta fumata a metà con disinteresse e sospirò. “Le compro, sai?”

 

Il suo viso era neutro come sempre, i suoi occhi viola tradivano una serenità che non gli aveva mai visto. “Allora non comprarle.”

 

Hilary fece qualcosa che non aveva mai fatto: si appoggiò contro le sue spalle, accettando tacitamente la sua richiesta, e sorridendo. Non poteva fare a meno di ripensare agli ultimi mesi e dare la colpa al destino, o forse al fato, per tutto quello che era accaduto a lei e alle sue amiche.

 

Trasgressioni. Avventure assurde. Preoccupazioni. Patemi vissuti con il cuore in gola. Recriminazioni. Colpi di scena degni delle soap opera argentine più bestiali. Riappacificazioni. Innamoramenti segreti. Relazioni clandestine. Dichiarazioni d’amore. Punti di vista che erano cambiati da così a così nell’arco di mesi.

 

Era davvero colpa del destino? Magari lo si poteva chiamare fato..?

 

O sei semplicemente tu, New York? Dì la verità

 

Pochi mesi: erano bastati una manciata di mesi, di settimane per far succedere quello che a gente comune sarebbe accaduto un bel po’ d’anni. Ma era normale; a New York si aveva sempre l’impressione che le cose avvenissero più velocemente che altrove.

 

All’inizio le sue amiche erano approdate lì dai loro paesi quasi disperate, ciascuna con una storia complicata alle spalle e con tanta voglia di crescere e maturare, ricordava perfettamente la situazione iniziale di ciascuna di loro.

 

Mariam voleva lasciarsi dietro la sua storia di un anno con Max, e aveva finito per capire che, se consolidata, una relazione può riprendere con delle basi solide e stabili; Julia era approdata a Manhattan con un carattere difficile e non solo aveva recuperato il rapporto con il fratello, ma era pure riuscita a comprendere l’altra metà di sé: Yuri.

Infine Mao era venuta via per fuggire da una storia di vent’anni che la teneva accorata a se stessa, e aveva finito per comprendere che scappare non serve a nulla quando il nostro cuore è sempre irrimediabilmente da una parte.

 

E lei? Lei che si vantava di essere la cosiddetta miss autonomy, lei era invece quella che aveva imparato più di tutte che non serve classificare le persone a blocchi per difendersi, e sfruttarle per recriminare una vendetta contro qualcun altro.

In fondo, basta trovare un’unica eccezione.

La propria.

 

 

 

 

 

Fine.

 

 

 

 

 

 

Okay, chiedo assolutamente perdono per questo ritardo atroce che, lo sapete, non è da me. Sapete quanto io sia puntuale e ci tenga alle cose fatte bene, ma credetemi, in questi giorni me ne stanno capitando una dopo l’altra. .-.

 

Ma andiamo alle cose importanti: the end, people.

Mi mancherà tanto questa storia, frutto di lavoro persino sotto il sole – qualcuno ne sa qualcosa – e di tante disperazioni e contentezze.

E mi mancherete voi.

 

Purtroppo non ho una storia da sfornare, non subito almeno, quindi non posso dirvi con certezza che tornerò tipo tra due settimane o roba simile… Diciamo che dopo quasi un anno passato a pubblicare storie a random, mi prendo il mio periodo di pausa.

Una cosa devo dirla, però: è stato un anno fantastico.

 

Ho conosciuto persone squisite, fatto parte di questo mondo che credevo seppellito indietro nella mia infanzia, e… Beh, non potrei desiderare di più.

 

Quindi, grazie.

 

Ma, aspettate, voglio ringraziarvi un po’ meglio, come si deve, quindi facciamo le cose seriamente, perbacco! U___U

 

 

 

 

Grazie a…

 

 

 

…Alla mia amica Avly per avermi ispirato questa fanfic.

Le nostre chattate notturne sono costantemente foriere di novità e scleri, un po’ come questa trama che si è delineata a spezzoni procedendo, però, come un missile.

Grazie, Lula, per essermi rimasta accanto ed avermi tranquillizzata quando minacciavo di esplodere.

 

Lexy è colei che mi ha ispirato il personaggio di Kurt, che all’inizio voleva essere una parodia del Kai di Leggero, ma che alla fine ha preso simpaticamente parte del cast, almeno per un paio di capitoli. Visto che la mia vendetta alla fine mi si è rivolta contro? U.U

 

Sarei davvero un’ingrata se non citassi la divina persona che, con infinita pazienza, ha sopportato tutte le mie lagne dandomi invece preziosi consigli. Lily è stata preziosissima per la riuscita della fanfic, nonché la supporter ideale per una trama intrecciata come questa. Ogni fanwriter dovrebbe avere una persona come lei al suo fianco.

 

Infine, un gigantesco grazie va alle mie lettrici, che con le loro recensioni, con il loro supporto e le battute che mi fanno morire dal ridere, sanno ispirarmi più di quanto loro possano pensare. Love you all, girls. ♥

 

 

Hiromi

 

   
 
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