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Autore: Linn_CullenBass    11/02/2012    1 recensioni
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Alice ha 15 anni e una vita all’apparenza normale, monotona. Si sveglia alle 6 e corre per non perdere il pullman che la porta in un liceo che ha scelto senza nemmeno pensarci troppo.
Ride, sempre.
Ma nessuno però sa. Nessuno è a conoscenza di quello che nasconde, qualcosa di troppo duro. Ogni sera, infatti, torna casa e scoppia in un pianto disperato. Poi, quando le lacrime continuano a cadere, lei prende un coltellino. E taglia così un piccolo lembo di pelle. Guarda il sangue correre giù, e sente meno male. Meno male della vita che qualcuno le ha riservato.
Suo padre torna sempre a casa ubriaco. Prende la bottiglia e continua a bere. La vede, la insulta. E se va bene finisce lì. E i lividi sul suo corpo ne sono la prova. E i lividi sul corpo della madre anche.
E alla ragazza altro non resta che piangere, senza qualcuno con cui parlare.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                        Capitolo1

 




I messaggi arrivavano veloci. Uno dopo l’altro, talmente veloci che non aveva il tempo di leggerli.
“ Ti dico dopo” “ Adesso non lo so” “ Non ci sono”… lei rispondeva con freddezza, a volte. Rispondeva fredda perché non aveva voglia di farsi toccare, da quelle cose. Il sabato sera a casa da sola era triste, ma mai come quando sei un adolescente.
Alice, poggia la testa sul bracciolo della vecchia poltrona. Sospira e chiude gli occhi. Li lascia arrivare, uno dopo l’altro. Adesso non li guarda, non ha più voglia. Ha già sentito il cuore spezzarsi di fronte ai rifiuti, ha già sentito il magone allo stomaco troppe volte. Banalità? No, loro la rifiutavano per uscire con qualcun altro.
E la domanda nel suo piccolo cuore, un cuore troppo grande e allo stesso tempo svuotato dal dolore che progressivamente lo consumava,  era solo una: “ Perché?” Rifletteva. Sugli errori nella sua vita, su quello che l’aveva condotta a quel punto. E se doveva dare un inizio a questa storia, a questo male, sicuramente, era iniziato tutto 4 anni prima, circa. Quando l’unica persona della quale si fidava davvero, venuta a conoscenza della sua storia, l’aveva abbandonata. Si poteva, ad undici anni, essere così?
Ricorda, ogni tanto, che da quel momento è iniziato tutto a crollare in un vortice di quelli senza uscita. Che non passano mai. E la situazione, quella sua, personale, era addirittura peggiorata. Da lì, le cose si susseguivano, in una serie di sfortunati eventi, fino a portarla sull’orlo della disperazione.
E da lì, non ha più visto la superficie.
E’ stata inghiottita, dal passato. Inghiottita a tal punto che anche se lottasse per venirne fuori, sa benissimo che non ce la farebbe. C’è troppa roba d’affrontare.
Ed è troppo debole per farcela.
I pensieri, continuano ad affollarle la testa, e premono per uscire. Dal nervoso, picchietta debole la pelle rovinata di quella poltrona marroncina, e chiude gli occhi. Il vibrare continuo del telefono le dà alla testa, al punto da costringerla a metterlo sotto il cuscino, per non sentirlo.
- Che palle.-
Sono le uniche parole che dice, dopo essersi alzata ed aver raggiunto il bagno.
- Ali, tutto bene?- sua madre. Il suo volto, era segnato dal tempo, corroso dal dolore. Gli occhi scavati, costantemente all’erta, preoccupati. La fronte corrucciata, sempre.
Di fronte a lei, il cervello di Ali si riprogrammava, in un certo senso. Perché? Beh, perché da quel viso traspariva così tanto dolore, tanta apprensione per la figlia, che lei stessa voleva proteggerla. Proteggerla da che?
Da tutto quello a cui era tutti i giorni sottoposta.
E la ragazza, d’altrocanto, si mostrava felice e allegra, per non dare ulteriori preoccupazioni. Si inventava bugie, a volte, solo per non farla soffrire di più. Era necessario.
- Si, perché?-
- Nulla- rispose, rivolgendo altrove lo sguardo.
Davanti allo specchio del bagno, Alice, comincia a respirare veloce, per cacciare via quella sensazione. Una volta tranquilla, però, riesce finalmente ad uscire e andare in camera. Non la sua, quella di sua madre. E di quell’uomo che a malapena riusciva a chiamare papà. Anzi, ora che ci pensava bene, non lo chiamava mai.
Arrivata lì, socchiude la porta. Poi, con molta calma, corre dietro le finestre a prendere quel piccolo coltellino. Un piccolo coltellino affilato che lei guardava da tutte le angolazioni, ogni volta, perché spesso si sentiva in colpa. Poi iniziavano le lacrime.
Una dopo l’altra.
1-2-3.
Le contava, e ormai non si prendeva nemmeno la briga di asciugarle più.
Più o meno a quel punto iniziava ad incidere.
Erano piccoli taglietti. Partivano dall’estremità sinistra del braccio, passandolo tutto, fino alla destra. Prima lentamente, poi sempre più veloce, al punto che non sentiva più nemmeno il male. E nemmeno si ricordava di quanto male avesse dentro. Ecco perché lo faceva.
In quel momento, iniziava a sanguinare. Il piccolo polso martoriato da innumerevoli tagli, rosso e gonfio, ormai, pulsava e sanguinava. Il sangue, rosso ed intenso, le cadeva a piccole goccie lungo tutto il braccio, fino al gomito. Allora, mentre ancora calde lacrime le corrodevano il viso, Alice prende un fazzoletto e pulisce. Avrebbe bruciato, ancora per un po’.
Ma quel giorno, Alice, non fa quello che di norma avrebbe fatto. Cioè accendere il computer, e guardare la mail. Aspettava con ansia almeno una che le desse la possibilità di fare casting e di riuscire in quel qualcosa che tutti le rinfacciavano: Recitare.
Era una cosa che adorava fare. Una cosa per la quale continuava a lottare, tutti i giorni, inviando richieste su richieste. Ora aspettava qualcosa, cercava, voleva farcela. Doveva farcela. Dimostrare  che non si era sbagliata, e che avrebbe realizzato il suo sogno.
Lei ci credeva.
Anche se ogni tanto, qualcosa, qualsiasi cosa, rischiava di farle dire: “smetto”, lei non cedeva. Ne aveva passate troppe, aveva perso fiducia in troppe cose e in troppe persone, per smettere di sognare.
Questo, qualcuno, da lassù, glielo doveva.
Ma non quella sera.
Il sabato lo dedicava ad altro. Scriveva, Alice, quel sabato. Scriveva la sua storia su un quadernino. La scriveva a biro, spesso sbavata per colpa di quelle stramaledette lacrime.
Poi, ogni tanto, sentiva gli insulti del padre dal salotto. Sentiva i pugni sbattere. Sentiva anche il suo animo frantumarsi. E, prima di crollare, si metteva le cuffie nelle orecchie.
Sapeva, Alice, che c’era qualcosa che non andava in lei.
Sapeva, Alice, che qualcosa l’avrebbe sempre perseguitata. Che qualcosa l’avrebbe sempre ferita, umiliata, fatta vergognare. Impaurire.
Una paura che l’accompagnava fin dalla più tenera età, e che minacciava di distruggerle tutto quello in cui credeva.
E quel dolore, così forte, che si mischiava alla rabbia e al rancore nelle notti gelide invernali.
E il desiderio di non piangere più, d’incominciare a ridere, davvero, sta volta. Tutto quello che voleva era essere serena, chiedeva tanto?
Ogni tanto, si trovava a chiedere grazie alla protagonista del libro che scrive da quando era piccolina. Una storia fantastica, di una sirena, un po’ particolare. Sembra allegra, una storia felice. Ma se letta, poteva distruggere anche la persona più forte. Il dolore che traspariva da quel racconto era qualcosa di talmente reale… da sembrare quasi banalmente crudo.
Perché la ringraziava?
Perché era l’unica amica che aveva avuto quando tutto il resto del mondo era scomparso.
E mentre il vento sbatteva la tenda, la ragazzina continuava a piangere. Sperava che un giorno qualcuno l’avrebbe portata via da lì. Che un giorno sarebbe scappata.
E mentre il cuore continuava a battere, spesso contro la sua volontà, il pianto cresceva, fino a diventare insterico, sebbene soffuso. Non doveva, poteva farsi sentire. La madre sarebbe arrivata, e tutto sarebbe precipitato.
Era una lotta con se stessa, quella di Alice. Una lotta nella quale, sapeva lei, non avrebbe mai vinto



Angolo autrice
E' breve, ma voglio solo sapere cosa ne pensate. Se vi piace, andrò avanti. :)
   
 
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