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Autore: Linn_CullenBass    28/02/2012    2 recensioni
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Alice ha 15 anni e una vita all’apparenza normale, monotona. Si sveglia alle 6 e corre per non perdere il pullman che la porta in un liceo che ha scelto senza nemmeno pensarci troppo.
Ride, sempre.
Ma nessuno però sa. Nessuno è a conoscenza di quello che nasconde, qualcosa di troppo duro. Ogni sera, infatti, torna casa e scoppia in un pianto disperato. Poi, quando le lacrime continuano a cadere, lei prende un coltellino. E taglia così un piccolo lembo di pelle. Guarda il sangue correre giù, e sente meno male. Meno male della vita che qualcuno le ha riservato.
Suo padre torna sempre a casa ubriaco. Prende la bottiglia e continua a bere. La vede, la insulta. E se va bene finisce lì. E i lividi sul suo corpo ne sono la prova. E i lividi sul corpo della madre anche.
E alla ragazza altro non resta che piangere, senza qualcuno con cui parlare.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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              La pioggia scende, lascia la scia.
Anche le lacrime lo fanno.
Lasciano ricordi?
Forse.
Lasciano rimpianti? Troppi.
Allora come possono essere pioggia?
Hai già visto la pioggia quando scende sui vetri? Anche con il ritorno del sole rimane chiara e visibile la sua scia.



                        Capitolo3










La notte porta con sé il vero essere umano.
Quello pensante, quello con emozioni.
Ed è proprio quello, Alice, quando sale la luna e i raggi filtrano debolmente dalle tende della porta-finestra.
Il caos le attraversa il cervello, quasi un’ondata di piena.
Che cosa siamo noi, se non un infimo spiraglio di luce, nel buio nero dell’universo?
Alice, era arrivata alla conclusione che non necessariamente buio era sinonimo  di nero. Buio era “il non vedere”, il nero era semplicemente un colore rappresentativo della non-luce.
E chi ti dice che senza luce non vedi?
Ci sono persone che sanno esplorare a fondo il buio.
Ecco cosa pensa Ali, sul letto, nel dormiveglia. Quando anche la palpebra più stanca non riesce a cadere, senza una motivazione particolare.
Continua a fissare il soffito.
È come se si sentisse chiusa in quelle quattro mura. Troppo solide, ma mai quanto serviva.
Nonostante tutto, nonostante i tocchi dell’orologio non le danno tregua, lei ci prova.
Prova a dormire, aspetta un po, poi riapre gli occhi.
Di nuovo da capo. È una lotta continua tutte le notti.
Poi si ricorda di una cosa.
Si illumina, prende il cellulare, e non si ferma davanti alla luminosità che acceca la notte.
Entra su internet, e controlla la posta.
Ormai, era qualcosa di ossessivo. Non avrebbe dormito, se prima non lo faceva.
Entra.
Attende qualche minuto. Come al solito, la sua pazienza lascia a desiderare.
Poi, guarda tutto con meticolosità e troppa aspettativa.
- Merda.-
Anche questa volta, nulla.
Ormai, non ci credeva più. Anzi no, non è che non ci credesse, solo… era sconfortata. Nessuno le dava importanza, nessuno l’aiutava. Si sentiva emarginata del mondo, cittadina di nessuno, figlia del nulla.
E il nulla, Alice, aveva paura di trovarlo nel cuore.
Anzi, forse già lo stava trovando.
Meglio nessun sogno, perché così non ci sono delusioni.
Questo pensiero, le attanaglia cuore e cervello. Chiude con catenacci i polmoni, e a malapena riesce a respirare.
Blocca il sangue, e lo rende acido.
Con l’essere respinta, sempre, stava diventando più dura di quello che in realtà sapeva di essere.
Talvolta, anche con la madre  lo era.
E proprio quest’ultima, la maggior parte delle volte, tendeva a chiamarla egoista.
“ se non distingui l’egoismo dalla sofferenza, allora l’egoista non sono io”, rispondeva tra sé e sé quelle dannatissime volte.
Ora, si sente in colpa.
Ecco, per l’ennesima volta ha pensato male della madre.
Ecco, ora sta per piangere, di nuovo.
Che cosa c’è che non funziona in lei?
C’è un cuore da qualche parte nel mondo disposto ad accettarla?
Ci sono braccia in grado di proteggerla?
Esiste qualcuno che non la vuole sostituire?
La risposta, Alice, non sapeva darsela.
Spegne il cellulare, nessuno l’avrebbe cercata. A nessuno Alice sembra importante.
Almeno, questo è quello che lei non riesce a togliersi dalla testa.
Si gira su un lato, e pensa attentamente al meccanismo degli orologi.
Pensandoci, poca gente riesce a guardare il movimento dei minuti.
Tutti riescono a vedere quello dei secondi.
Perché?
Alice, che i pensieri li fa uscire come api da un nido, inizia a convincersi che il motivo è da ricercare nel pensiero logico.
La logica dice che i secondi sono da vivere attentamente, più dei minuti. Perché passano troppo infretta, senza tempo per rimpiangerli.
Con questo inutile pensiero nella testa, la sua mente inizia a difendersi. E così cade tra le braccia della luna, nelle mani della notte, con la testa immersa nei sogni più piacevoli
 
                                                           *
 
- Perché non vieni a svegliarmi, quando ti alzi?-
La voce di Sara, la madre di Ali, è un debolissimo sussurro nel buio di una stanza che in fondo, Ali, sapeva di temere.
Non per nulla, non per qualcosa in particolare.
Beh, in fondo, magari sì.
Era cominciato tutto circa un anno prima, durante una nottata piovosa. Ali aveva sentito il ticchettio nervoso e continuo della pioggia frenetica sulla tettoia di fianco alla camera da letto.
Contava le goccie.
Sentiva i tuoni.
Poi, si era addormentata.
 
 
 
- E’ antica questa casa?-
Una casa bianca, semi-rovinata, forse addirittura decadente. Non era sicura, ma Judi continuava a chiedermi di entrare.
Ed io, che non sapevo mai come comportarmi nelle richieste, avevo acconsentito con un pizzico di fastidio.
- Penso. Dai Ali, ti prego.-
Eravamo entrate, ormai. La porta si era aperta, quasi naturalmente.
“dio, fa che non mi sbuchi nulla davanti”
Pensavo, mentre mi guardavo intorno.
L’odore di muffa e marciume, infestava l’aria rendendola irrespirabile.
- Ma che cosa…?-
Lo scenario cambiò di scatto, dopo che buttammo una fugace occhiata a tutte le stanze.
Diventò qualcosa di più simile ad un corridoio, un piccolo corridoio di color ocra scuro. Troppo stretto, che subito non l’avevamo visto.
- E lei chi è?-
Una bimba. Una bambina meravigliosa, piccola, con i capelli lunghi, lunghissimi.
Era voltata di spalle, e mi iniettava una certa inquietudine.
Poi, mi aveva preso per mano.
Mi chiesi “perché me? Perché me e non Judi?”. Ma nulla, la bimba continuava a saltellare verso un posto sconosciuto, con me che tenevo per mano Ju.
All’improvviso, l’inimmaginabile.
La bimba meravigliosa che prima mi aveva sorriso, si trasformò in qualcosa di demoniaco.
La sua bocca si aprì e infilzò i denti sul mio braccio destro.
Riuscimmo a scappare, ma lei arrivò anche lì fuori.
“Volevo..”
Non capii cosa volesse davvero, non lo capii mai. Ma il suo sguardo, era qualcosa di oscuro, timido in un certo senso.
Qualcosa che nemmeno io sapevo tradurre.
 
 
 
Ali pensava, infatti, che in quella casa ci fosse qualcosa di assolutamente strano. E che nulla, specialmente in quella camera, fosse normale.
Aveva dato un nome, a quella che pensava potesse essere la sua “bambina misteriosa”. Ellena.
Ogni tanto, sembrava che la vedesse o la sentisse. Era sicura fosse quella del sogno.
Anche perché il suo inconscio, un giorno, l’aveva indotta a disegnarla.
Si sentiva pazza, a volte. Altre, sentiva che c’era davvero qualcosa che non andava lì.
Sua madre più volte glielo aveva confermato.
Ora, Alice è  in bagno.
Si cambia vicino alla stufetta elettrica, infreddolita e intorpidita dal sonno.
Di nuovo, il trucco, i capelli. Niente colazione, alle macchinette c’era sempre da mangiare.
Poi parte, apre la porta e viene investita dal freddo. Eccessivo, per essere febbraio inoltrato.
E la storia si ripete, come il giorno prima. Stesso medesimo ordine, monotono.
E ad Ali, la monotonia non piaceva.
 
Fa caldo.
Al pomeriggio il caldo inizia a salire, ed Ali indossa un piumino nero.
Lo toglie, ma deve tenerlo in mano.
La noia la travolge, al punto che è costretta a rifugiarsi in un bar, giusto per posare tutto quello che doveva portarsi dietro.
 
Arriva a casa, prende un mazzo di chiavi e apre la porta.
Lui è già lì.
Allora ali passa, senza farsi vedere, veloce come un’ombra, leggera come un gatto.
Non se ne accorge, è già mezzo ubriaco.
Arriva in camera, posa la roba, sente qualcuno camminare.
È un passo trascinato, a tratti sente addirittura lo sbattere contro i muri rossi e profondi. La sua ansia, sale.
Si gira istintivamente, per evitare di guardarlo. Sarebbe stata la fine.
- Non si saluta più?-
Pronuncia quelle parole in modo impastato.
Si corregge, Alice, nei suoi pensieri. Già ubriaco.
Non risponde, la ragazza. Continua, mentre sente il sangue fluire, tira un colpo di tosse. Le viene da piangere, le manca il fiato. È completamente paralizzata dalla paura.
Quando cominciava così, sapeva come finiva.
Tira fuori il libro dallo zaino. Lo apre, cerca di studiare.
Ma la porta di vetro lascia passare le urla. Sono imprecazioni.
- E’ mai possibile? È come sua madre. Tale e quale. A volte, penso proprio che la cosa migliore sarebbe stata stroncarla prima di nascere.-
Ad ali, questo, non faceva più male. Parla più forte, ripetendo la lezione. Sa bene, che anche un solo accenno di risposta a quelle frasi, le sarebbe costato una gamba o un braccio gonfio.
- Io preparo da mangiare per me. Una che non saluta? Non merita nulla.-
E giù altri insulti.
Insulti che nemmeno Ali ha voglia di ascoltare più. Insulti che a volte ancora la facevano piangere, altre solo la scuotevano un po’.
Ma oggi non era giornata.
Ali ha la testa che scoppia e un intero capitolo di storia da studiare. Un 5 le avrebbe di sicuro rovinato la media.
- Dio, fallo stare zitto..-
Ripeteva, ben attenta che la porta fosse chiusa e non sentisse.
Ridacchiava, ogni tanto, ascoltando quello che diceva. Tipo che era condizionata dalla madre. Assurdità che invece di farla piangere, la facevano ridere.
Cucinava, sentiva il fuoco scoppiettare, i pugni sul tavolo. Ancora.
Poi frasi senza senso, colpi di tosse.
- Adesso spengo la sigaretta nella pianta.-
Senza motivazioni particolari, diceva cose che facevano male. A volte, addirittura, la chiamava puttana.
Perché?
Ali non lo sapeva.
Perché gli andava, forse, perchè non si dava una motivazione a tale distacco.
Poi, sente le bottiglie di vetro vuote, di fianco alla televisione, cadere a mo’ di birilli. Sente i passi avvicinarsi, e prende il telefono.
Lascia che gli occhi si gonfino, ma guarda in alto, per evitare di esplodere.
- Tu, smettila di guardare quel telefono! Hai capito? E se becco che chiami tua madre, io ti spacco la faccia,  è chiaro?-
Ali non risponde.
Sa solo che il cuore sta cedendo, lo sente crollare, sente i pezzetti andare in frantumi. Sente addirittura gocce calde attraversarle il viso, ma non ci da peso.
- Piangi, avanti. Denunciami. Fa quello che vuoi.-
Continua.
È un lamento, il suono del suo cuore che cerca di rimanere a galla.
- Rispondi.-
Lo schiaffo forte stampato proprio sulla guancia destra della ragazzina.
Fa male, sente dolore.
Non importa, continua a restare in silenzio, con il suo cellulare nella mano che trema, e le gambe avanti pronta a difendersi da chi l’aveva messa al mondo.
- Hai capito?-
Un pugno, sulla caviglia. Fa male. Fa talmente male che cede e cade per terra.
Le prende un braccio, la tira su. La sbatte sul letto, la riprende, le gira il polso dentro.
Era il polso “malato” come lo chiamava lei. Semi slogato, in realtà.
- Dammi il cellulare.-
No, Ali non lo molla.
Allora lui fa di peggio. Continua a tirare calci sulle gambe della ragazzina, per poi sedersici sopra.
Le blocca con la mano destra sulla bocca.
La minaccia, continua a dirle di fare la brava.
Ali non demorde, non può, e non può piangere.
Allora inizia a spingere con le gambe, fino a lanciarlo via, nonostante il peso
   
 
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