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Autore: Mary P_Stark    15/03/2012    3 recensioni
Cosa potrebbe succedere, se l'Araba Fenice tornasse a vivere ai giorni nostri? Se camminasse come un comune essere umano, sconosciuto ai più e per nulla riconoscibile ai nostri occhi? La storia di Joy è la storia delle molte vite di Fenice che, con i suoi poteri, tenta a ogni rinascita di portare il Bene e l'Amore nel mondo. Ma può, l'amore vero e Unico, toccare una creatura come lei che, da sempre, non vi si può abbandonare poiché votata solo all'altrui benessere? Sarà Morgan a far scoprire a Joy quanto, anche una creatura immortale come lei, può cedere al calore dell'amore, facendole perdere di vista il suo essere Fenice.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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18.
 
 
 
 
 
Raccontare a Morgan di Alex e Susan fu strano e divertente al tempo stesso.

Soprattutto, quando mi fece i complimenti per la tattica che avevo suggerito a mio cugino, che lui approvò in pieno.

Mangiammo un sandwich al bar, preferendo non salire all’ultimo piano, dove si trovava il ristorante.

Evitammo così l’imbarazzo delle luci soffuse, dei camerieri in livrea e dei separé di velluto, che avrebbero reso tutto molto più complicato di quanto già non fosse.

L’atmosfera rilassata del bar era di gran lunga migliore e, a conti fatti, aiutò entrambi a rilassarci.

Nella mente, avevo ancora quella maledetta frase del Libro delle Risposte che, per quanto assurda, mi stava facendo impazzire.

Avevo fatto di proposito quella domanda, perché sapevo che la sua degna risposta avrebbe dovuto essere negativa.

Quando, invece, avevo letto quelle parole scritte in bella grafia, mi ero sentita crollare il mondo sotto i piedi.

Certo, non era altro che un gioco, e quello stupido libro non aveva nessun tipo di potere mistico al suo interno.

Non era certo come il Libro di Anubis o il Libro di Rah - che donavano la vita e la morte a chi fosse stato in grado di leggerli - eppure mi ci fissai per tutta la sera.

Quando infine tornammo al dormitorio e Morgan mi lasciò all’entrata con un abbraccio e un bacio sulla fronte, non resistetti all’impulso di chiedergli lumi.

Perché lui non aveva fatto alcuna domanda al libro?

Con una semplicità che mi sconcertò, mi disse con candore: “Perché il mio desiderio lo sto tenendo tra le braccia, adesso. Che altro potevo chiedere?”

Quella notte, non riuscii a dormire affatto.

 
***

 
Seduto compostamente in una delle ultime file dell’aula didattica in cui stavano tenendo il corso di aggiornamento, Morgan giocherellò distrattamente con la matita.

Con lo sguardo, seguiva attentamente le spiegazioni dell’architetto Swanson, che stava delineando su una lavagna luminosa i punti di cedimento della struttura della Torre Nord del WTC.

Le barre di acciaio temperato, che componevano la struttura portante, avevano ceduto, in primis, a causa dell’impatto del Boeing 747.

Di fatto, l’aereo ne aveva tranciato la travatura interna.

Successivamente, la deflagrazione delle migliaia di litri di kerosene contenuto all’interno delle ali, aveva causato un incendio che aveva dato il colpo di grazia alla torre.

Il calore sprigionato aveva indebolito le travi già danneggiate dall’impatto, finendo con il far implodere la struttura su se stessa.

Chi aveva trovato scampo – ben pochi – lo aveva fatto grazie alle sacche d’aria formatesi nelle trombe delle scale.
Accartocciatesi su loro stesse, avevano ammonticchiato i mezzanini gli uni sugli altri, formando piccole bolle protettive per coloro che si erano trovati sotto di esse.

Non molti, per la verità, avevano avuto quella fortuna.

Con più di cento piani sopra la testa, e accartocciati come dopo un disastro nucleare, non ci si sarebbe potuti aspettare nulla di diverso.

La vera tragedia era stata causata dalla struttura stessa delle scale di sicurezza, troppo strette e troppo poche, per il numero di persone presenti normalmente all’interno del WTC.

Nessuno, però, al momento della progettazione, aveva pensato a un simile scenario apocalittico, questo era sicuro.

“Più la guardo, e più mi viene da dire che, quando le hanno fatte, ci abbiano disegnato sopra un bersaglio” brontolò al suo fianco il caporale Anthony Colicchio.

“Di certo, attiravano l’attenzione” annuì distrattamente Morgan, scribacchiando qualche appunto riguardante la saturazione di gas nocivi e infiammabili all’interno della torre, causati dalla combustione del carburante.

Lo sguardo, come sempre, gli corse al cappellino con lo stemma di Harvard che teneva sul banco dove stava prendendo appunti.

Immediato, un lento sorriso fece capolino sul suo viso.

Joy glielo aveva regalato alla loro seconda uscita, avvenuta meno di tre giorni prima.

Con un sorrisino imbarazzato e speranzoso assieme, glielo aveva consegnato distendendo entrambe le braccia come una bambina, dicendo allegra: “Per ricompensarti di quello che hai dato a me.”

Lui lo aveva accettato con un ‘grazie’ e un abbraccio e, solo a stento, si era trattenuto dall’afferrarle la nuca per darle un bacio divorante.

Per qualche motivo che sfuggiva alla sua stessa comprensione, sapeva che quel genere di mossa, con lei, avrebbe sortito un effetto disastroso.

E Morgan non voleva in alcun modo darle un pretesto per allontanarsi.

Con lei, voleva riuscire a ottenere il massimo, il che non voleva dire necessariamente portarsela a letto, anche se era una componente che non poteva escludere del tutto.

Come farlo, quando lei era così adorabilmente perfetta, dai lineamenti simili a quelli di una dea greca, i capelli di fiamma e gli occhi luminosi e misteriosi come quelli di un gatto?

No, era abbastanza sano di mente e di corpo per desiderarla anche  dal punto di vista fisico, ma voleva di più da lei, molto di più.

Voleva il pacchetto completo e, per averlo, era più che certo che avrebbe dovuto lottare con le unghie e con i denti.

Aveva ormai ben chiaro quanto Joy fosse terrorizzata alla sola idea di legarsi a qualcuno, e in quel modo.

Non le aveva mai chiesto i motivi di quella ritrosia, e dubitava che fosse per una precedente storia andata male.

Sapeva, però che, quello scoglio, sarebbe stato il suo vero nemico negli anni a venire.

Era evidente che l’attrazione era reciproca, ed era anche già piuttosto forte, ma quella sua atavica paura lo era molto di più.

Morgan non si sarebbe comunque dato per vinto e, anche a costo di aspettare in eterno, avrebbe avuto l’ultima parola.

Sfiorando con un dito la visiera del cappello, Morgan accentuò il sorriso sul volto e Anthony, accanto a lui, sogghignò.

“Si può sapere chi ti ha dato quel cappellino?”

“Non te lo dirò mai” sentenziò Morgan, con un ghigno furbo.

“Ohhh. Una donna così bella?” ridacchiò allora Anthony.

“Scordatelo. Non te la presenterò.”

Infilatosi il cappellino in testa, tirò in basso la visiera fin quasi a coprirsi gli occhi e Anthony, afferrando al volo il messaggio, lasciò perdere per il momento il terzo grado.

Rischiare di essere beccati come due scolaretti a chiacchierare in classe, non era il massimo.

Meglio aspettare la fine della lezione.

***


“Tu sei pazza, lasciatelo dire.”

Sgranocchiando una patatina fritta con aria severa, Haniya proseguì nella sua arringa, borbottando: “Siete usciti tre volte, vi sentite per telefono,… quanto? Tre volte al giorno, quattro? E tu vuoi farmi credere che non vuoi andarci a letto o, per lo meno, metterti con lui in pianta stabile?”

“E’ complicato” sussurrò Joy, sorseggiando la Coca-Cola dal suo bicchierone di carta rossa e bianca. “Non è tutto incentrato sulla faccenda lui-lei-il letto.”

“Lo so benissimo, cara, ma questo non toglie che, dopo essere tornata da un appuntamento con Morgan, ti brillano gli occhi e sei stralunata per almeno un paio d’ore” tenne a precisare la ragazza, facendo dondolare una patatina come la bacchetta di un orchestrale.

Copertasi il viso con le mani, lo scosse un paio di volte per l’esasperazione prima di ringhiare: “Io non devo essere stralunata.”

“Aileen Joy Patterson” la richiamò all’ordine Haniya, facendole levare il capo per la curiosità. “Hai i migliori voti di sempre, stai per finire prima di tutti gli altri studenti l’università più prestigiosa d’America, non entrerai nel Guinness dei Primati solo per poco, hai seguito il  New Pathway facendo piangere di gioia i tuoi insegnanti, comincerai l’internato in ospedale tra due mesi e, se tutto va bene, potrai dare l’esame di specializzazione tra due anni, se prosegui come sei andata fin’ora… e mi dici che non puoi essere stralunata?!”

“Okay, messa così suona male davvero” ammise Joy, sbuffando.

“Eccome, se suona male. Io dovrò stare incollata ai libri ancora per un anno buono e, per la specializzazione, si parlerà almeno di tre anni, ne sono sicura. Tu potrai essere operativa sul campo molto tempo prima di me. Di che ti lamenti?” esalò Haniya, fissandola con falso nervosismo.

“Chiedo venia. Non ho di che lamentarmi.”

Passandosi una mano tra i capelli rilasciati sulle spalle, Joy però mormorò lapidaria: “A ogni modo, Morgan non può entrare nell’equazione, non più di quel tanto, per la precisione.”

Con un esagerato sospiro di esasperazione, Haniya crollò col capo sul tavolino del bar dove si erano sedute per pranzo e, con un brontolio sommesso, mugugnò: “Non ci sono speranze, con te.”

***

L’occhiata che Morgan lanciò ad Anthony avrebbe dovuto scoraggiare anche il più tenace tra i curiosoni, ma non lui, non Anthony Colicchio di Atlanta.

Dopo averlo lasciato in pace durante la loro permanenza in aula, Tony lo aveva poi subissato di domande non appena avevano messo piede fuori.

Ora che si trovavano a cena in un bar del centro, la cosa aveva preso i contorni di un’autentica inquisizione.

Sospirando con aria falsamente afflitta, Morgan si passò una mano sulla corta chioma corvina prima di esalare: “Hai intenzione di mettermi un cappio al collo, se non ti dirò nulla di lei? No, perché ormai comincio a temerlo davvero.”

“E’ che la tua ritrosia a parlare di Joy è davvero stuzzicante.”

Sì, era riuscito a strappargli il suo nome, e il fatto che stesse studiando a Harvard per diventare dottore.

Tutto il resto, soprattutto la fotografia che teneva ben nascosta nella sua fotocamera digitale, era rimasto sigillato dietro la sua bocca piegata in una smorfia.

“Cavolo, Tony, sei sposato e in procinto di avere un bambino. Che ti frega delle mie avventure amorose?” borbottò esacerbato Morgan.

“Ragazzo…” cominciò col dire Tony, con il suo tono da professore. “… è più che evidente che, in questa storia, qualcosa non va come dovrebbe. Hai uno sguardo nostalgico, quando osservi quel tuo prezioso cappellino, non di certo un occhio ingrifato come dovrebbe avere un giovane di ventidue anni.”

Sollevato un sopracciglio con aria disgustata, Morgan replicò piccato: “Non vedo Joy come uno stallone in calore vedrebbe una giumenta, chiariamo questo punto.”

Mimando poi le virgolette, aggiunse: “E non mi vedrai mai ingrifato, come dici tu, perché lei non si merita da me un comportamento da idiota.”

Lo sguardo di Anthony si fece serio, a quelle parole e, poggiato un gomito sul tavolino che li divideva, celiò: “Ragazzo mio, sei innamorato perso della tua dottoressa, a quanto pare.”

“Ma va?” esclamò Morgan, levando ironico le sopracciglia.

“Non sei un po’ troppo giovane per fissarti su una sola ragazza che tra l’altro, per un bel po’, non rivedrai per via del lavoro che fa?” gli chiese allora Anthony, dubbioso.

“So già che i primi anni farà praticantato qui a Boston e che, solo più tardi, potrà chiedere trasferimento a Lincoln City, ammesso e non concesso che cerchino dottori con la sua specializzazione, ma non mi importa. E’ lei. Punto” sentenziò Morgan, intrecciando le braccia sul torace abbracciato da una maglietta dei Metallica.

Levate le mani per chetarne l’umore, Anthony si affrettò a dire: “Okay, okay, non ti scaldare. Quindi, lei sarebbe l’Unica, eh? E l’hai incontrata, quando?”

Fissandolo bieco, Morgan ringhiò: “Quasi tre anni fa, ormai. E non ti dirò altro. Non me ne frega niente se dovrò aspettarne venti, prima di averla. Ogni attimo sarà valso allo scopo.”

“Beh, hai tutta la mia comprensione. Sei matto come un cavallo, ma coraggioso, non c’è dubbio” se ne uscì Anthony, fissandolo con aria falsamente angosciata.

“Ahhh! Lasciamo perdere!” bofonchiò Morgan, tornando ad afferrare il suo panino per finirlo e andare a rifugiarsi nella sua stanza d’albergo.

Il cellulare lo bloccò a metà di un morso e, ingollando quel che aveva in bocca con la foga di un affamato nel bel mezzo di un deserto, afferrò il suo telefono e lo aprì.

“Ciao, piccola. Cosa succede?”

“Ciao. Non succede nulla. Volevo solo sapere se ti andava di venire a vedere una partita di hockey con me. I Boston Bruins giocano in casa, questa domenica, e mi chiedevo se ti andasse di venire allo stadio.”

La voce gli giunse allegra, vagamente eccitata e solo un poco speranzosa, quasi non desse per scontato il suo sì.

Sgranando gli occhi mentre un lento, tronfio sorriso saliva sul suo viso solcato dalla sorpresa, Morgan esalò: “Donna, non dirmi che tu sei una fanatica dell’hockey su ghiaccio?”

“Tutta la famiglia, per la verità. Infatti, i biglietti che ho sono un regalo di Alex. Sapeva della partita, così mi ha fedexato due biglietti per la partita al TD Garden di domenica. Allora, ti va?” gli spiegò lei con quel tono di voce pimpante che tanto lo faceva andare in brodo di giuggiole.

“Sarò lì da te due ore prima, okay?” dichiarò subito, facendola ridere di piacere.

“Perfetto. Ti aspetto, allora. Ciao!”

Chiudendo il cellulare con uno scatto lento della mano, Morgan chiosò: “Come posso non amare una donna che mi invita a una partita di hockey?”

Ad Anthony non rimase altro che annuire, prima di offrirgli da bere per un brindisi.

 
***

La maglietta di Joe Thornton – di un bel nero e oro, con scritte bianche sulla schiena – le stava splendidamente, anche se era di una taglia più grande del necessario.

E anche se sotto portava un leggero maglione nero a coste, per compensare il freddo dello stadio indoor dove si trovavano.

I posti erano perfetti, in terza fila e proprio a metà del campo di gioco.

Si trovavano in corrispondenza della zona di penalizzazione degli atleti più indisciplinati. La visuale era semplicemente eccezionale.

Morgan non poté che ringraziare mentalmente Alexander per quel regalo davvero insperato e, nel prendere per mano Joy per raggiungere i posti a loro designati, le sorrise ilare.

“Tutto mi sarei mai immaginato, tranne questo.”

“Che penserai di me, se ti dico che sono una che ama la velocità e le macchine potenti?” ridacchiò allora Joy, ammiccando complice.

Facendo tanto d’occhi, Morgan si finse scandalizzato ed esalò: “Oh, mio Dio! Ma tu non sei la dolce sirena che ho conosciuto io. Esci da questo corpo!”

Scoppiando a ridere di gusto, Joy si lasciò cadere sulla sua poltroncina di plastica non appena la raggiunse.

Morgan, imitandola con più grazia, le passò il bicchierone di Coca-Cola e il sacchetto di patatine che avevano acquistato, prima di dire più seriamente: “Davvero sei una patita di macchine?”

“Ho una Chevrolet Camaro del ’98, con il motore completamente rifatto dal mio meccanico di fiducia. Gli ho fatto installare un cambio a marce ravvicinate e una barra antitorsione sul blocco motore. Inoltre, ne ho fatto ribassare l’assetto e le ho messo dei cerchi in lega da 17 e…”

Poggiatole un dito sulle labbra per interromperla nel suo elenco interminabile, Morgan la fissò per alcuni istanti prima di esclamare: “Sposami!”

Sapendo bene che lo stava dicendo solo per ridere, Joy stette al gioco e si esibì in un sorrisone allegro, replicando: “Ci conosciamo appena, Morgan…”

“Chi se ne frega. Una ragazza che mi parla di barre antitorsione e cambio a marce ravvicinate, è da sposare!” rise lui, prima di notare la risatina del loro vicino di poltroncina. “Sbaglio, forse?”

“Affatto, amico. Anzi, se ti scarica, le chiedo io di sposarmi” celiò l’uomo, facendo poi l’occhiolino a Joy, che rise di gusto.

“Oh, quante proposte di matrimonio, in pochi minuti” rise la ragazza, bevendosi  tutta calma la sua Coca-Cola e snobbando di proposito i due contendenti.

“Non ci prende sul serio, mi sa” dichiarò falsamente irritato Morgan.

“Ehh, mi sa proprio di no. Peccato.”

L’uomo sollevò una mano per battere il cinque con Morgan mentre, dal fondo del campo, cominciarono a uscire i giocatori.

Abbassando il bicchiere, Joy esclamò: “Smettetela, adesso. Si comincia.”

“Una vera tigre. Auguri, amico” ridacchiò l’uomo all’indirizzo di Morgan.

“Grazie” ammiccò lui prima di stringere una mano a Joy, che gli sorrise eccitata.

Dire che Morgan rimase sorpreso nel vedere Joy durante la partita, fu un eufemismo.

La ragazza, da calma ed educata che era, divenne un’autentica furia della natura, urlando a squarciagola per appoggiare i Boston Bruins.

Con ben poca sportività, nel frattempo inneggiò a ignominiosa fine gli avversari.

Ben poche volte rimase seduta al suo posto e, quando alla fine la partita venne vinta dalla squadra di casa, contenerne l’entusiasmo fu un’avventura degna di nota.

Le risate di Joy gli avevano ammorbato i sensi durante tutta la durata della partita che lui, alla fin fine, aveva guardato ben poco.

Era stato troppo preso a perdersi in lei, e nella sua gioia incontenibile.

Quella splendida, imprevedibile creatura diventava, a ogni giorno che passava, sempre più affascinante, sempre più indispensabile per la sua stessa sopravvivenza.

L’idea di averla tutta per sé era qualcosa con cui non riusciva a venire a patti, eppure sapeva che, con il mestiere che aveva scelto, Joy avrebbe dedicato tantissime ore del suo tempo ai suoi pazienti.

Inoltre, lui stesso aveva un mestiere che, di certo, non aiutava la sua causa.

Attraversarono Boston commentando il risultato della partita e le mosse dei giocatori.

Joy non la smise di parlare un solo attimo mentre Morgan, sorridente e colmo di desiderio, non potè che ascoltare e godersi i suoni melodiosi che scaturivano da quella bocca perfetta.

Quella bocca fatta per essere baciata fino a consumarsi in essa.

Quando infine giunsero al dormitorio, e Morgan la accompagnò alla porta come di consueto, il sole era ormai reclinato oltre l’orizzonte e i lampioni erano accesi un po’ ovunque.

Un’aria gelida soffiava da nord, ma la struttura a più piani del dormitorio la schermava a meraviglia, consentendo loro di scambiare qualche parola all’esterno senza morire assiderati.

Ancora accalorata per la partita ed eccitata per la bella giornata, Joy saltellò fino alla porta a vetri e lì, nel volgersi verso Morgan, cominciò col dire: “Allora, non è stata…”

Con una mossa fulminea del braccio, la attirò a sé e, senza darle il tempo di riprendersi dalla sorpresa, calò sulla sua bocca con una bramosia che mai, prima di allora, aveva osato esternare con Joy.

La ragazza si ritrovò letteralmente risucchiata dal desiderio insaziabile di Morgan, mentre il suo montò con la forza di una piena di fiume, inondandole il cervello.

Andò completamente in tilt.

Ogni pensiero cognitivo, ogni voce proveniente dal mondo, ogni sensazione esterna venne annullata da quel bacio, cui Joy rispose pienamente e con altrettanta foga.

Il suo corpo aderì completamente a quello di Morgan, divenendo un tutt’uno con lui mentre le mani affondavano nei suoi corti capelli scuri, assaporandone la sericea consistenza.

Il respiro le si fece affannoso, le gambe iniziarono a cedere e solo il corpo solido di Morgan – unica cosa reale attorno a lei – le impedì di crollare a terra e interrompere così il bacio.

Quando, però, si rese conto di ciò che le stava succedendo, si scostò da lui in preda al terrore più cieco.

Tenendo le mani sul suo torace per impedirgli di riprenderla tra le braccia, esalò sconvolta: “Non sento… più nulla… più nulla.”

“Joy, ma cosa…” tentennò Morgan, lo sguardo reso vacuo dalla passione che lo aveva colto.

Portandosi le mani al viso, ora pallido e scioccato, Joy scosse il capo ed esalò con voce incrinata dall’ansia: “E’ come se tutto il mondo non esistesse più!”

“Anche per me. Esisti solo tu” le sussurrò lui, sorridendole gentilmente.

“Ma io non … non posso! Non posso!” singhiozzò Joy, sollevando nuovamente le mani quando lui tentò di abbracciarla. “No! Non farlo! Non posso perdere il controllo a questo modo! Non puoi… non devi essere l’Unico!”

“Joy, ma che stai dicendo?” si impensierì Morgan, vedendola così sconvolta.

Scuotendo le mani con fare nervoso, la ragazza sussurrò ormai allo stremo: “Siamo andati troppo oltre, ed è colpa mia, solo colpa mia. Non posso darti cosi tanto di me, o gli altri… io…”

“Joy, calmati. Joy, Joy, guardami, per favore.”

La chiamò più volte, mentre lei camminava avanti e indietro davanti alla porta del dormitorio come se fosse stata un’invasata.

Alla fine, non ottenendo nulla di buono, la afferrò per le spalle, la scrollò con una certa incisività e le disse seccamente: “Ascolta. Ho esagerato, va bene, e prometto che non lo farò più, se tu non ti sentirai pronta, ma non andare fuori di testa per un bacio.”

Volesse il cielo che fosse solo per un bacio, pensò lei disperata, pur calmandosi un poco.

Preso un gran respiro, Joy poggiò le mani su quelle di Morgan, ancora sulle sue spalle, e le scostò con gentile fermezza, trattrenendole tra le sue.

Fatto ciò, lo guardò con una sofferenza percepibile sulla pelle e mormorò: “Ci sono cose che non sai di me, e che ci costringono a stare separati. L’unica cosa che posso offrirti è l’amicizia, ma sono costretta a chiederti di non baciarmi mai più. Spero solo di non farti soffrire più di quanto tu stai soffrendo già ora, a causa della mia indecisione a parlarti chiaramente.”

Sciogliendosi dalla stretta di Joy, Morgan si passò le mani tra i capelli, non sapendo bene se sentirsi irritato con lei, o con se stesso,

Meno male che aveva voluto andarci piano, con lei!

“Mettiamola così, Joy. Io non ci resto senza di te, che ti piaccia o no. Non mi vuoi dire cosa ti trattiene dallo stare con me, come so che tu vorresti fare? Va bene. Tieniti i tuoi segreti. Ma non ti sognare di chiudere con me, perché allora mi incazzerò di brutto. Mi puoi dare solo amicizia? Okay. Te l’avevo già detto, prenderò quel che mi darai. Non lo capisco, ma lo accetto.”

“Ho fatto un casino” sospirò Joy, reclinando il capo, i sensi che ormai avevano ripreso le sue consuete funzioni.

“Sì e no. L’ho combinato anch’io, a dirla tutta. Mi ero ripromesso di non metterti fretta, e poi ti ho letteralmente risucchiata in quel bacio” brontolò Morgan, continuando a passarsi una mano tra i capelli, come per un tic nervoso.

“E’ stato bello” ci tenne a dire lei.

“Finché non sei uscita di testa” precisò il giovane, con un mesto sorriso.

“Già” esalò Joy, sconsolata.

Come spiegargli quel che il suo bacio era riuscito a fare su una creatura ancestrale come lei?

Come renderlo edotto sui poteri che il suo tocco aveva su di lei?

Impossibile farlo, senza rischiare che lui la odiasse o, peggio, andasse a dire tutto a suo padre.

“Senti, ora me ne vado e ti lascio sbollire, poi ti chiamerò domani per sapere come stai. Se vorrai continuare con la faccenda del ‘siamo solo amici’, io lo accetterò e prenderò nota, va bene?” le propose, conciliante.

“Sei troppo buono con me. Non me lo merito.”

“Stronzate” sbuffò lui, sorprendendola.

“In che senso?” esalò Joy.

“Continui a pensare che il sesso sia l’unica ragione per cui ti corro dietro e dai per scontato che, avendomi negato la parte fisica di questo rapporto, io sia incazzato con te. Tutte balle. La faccenda va ben oltre, almeno per me.”

Si guardò intorno, come in cerca di ispirazione, dopodiché proseguì nella sua arringa difensiva.

“E’ vero, vorrei andare a letto con te, solo un pazzo o un idiota lo negherebbero. Ma non è  solo quello!” sbottò lui, irritandosi non poco. “C’è altro! C’è la tua compagnia, il piacere di parlare con te, di dividere dei momenti divertenti, il poterti confortare se ne hai bisogno, o il sentire la tua presenza confortante quando sono io ad aver necessità di un sostegno. L’amicizia è di vitale importanza, per me. Non dubitarne mai.”

“D’accordo” sussurrò Joy, prima di sollevare indecisa una mano.

Morgan rimase assolutamente fermo, una statua meravigliosa di carne e sangue e Joy, sfiorandogli la guancia, mormorò con un mesto sorriso: “Posso essere ciò che hai detto. Davvero.”

“Allora, io sarò per te ciò che ho detto” sentenziò Morgan, allontanandosi poi dal suo tocco.

Sollevò una mano per salutarla, dandole però le spalle per poi andarsene in direzione dell’auto.

Joy lo scrutò per tutto il tempo, finché l’auto non svanì oltre il contorno alberato dell’isolato e, alla fine, rientrò nel dormitorio, dove sperò di non trovare Haniya.

Neppure con lei, in quel momento, avrebbe potuto parlare.

Solo una persona era in grado di consolarla, in quei tragici istanti.

Ringraziato mentalmente il cielo, quando raggiunse la sua camera – vuota – Joy si buttò sul letto senza neppure togliersi la giacca a vento e, chiusi gli occhi, sussurrò nella sua mente confusa: “Rah…”

“Tutto bene?”

“Per niente. Sapevi che avrei potuto perdere il controllo fino a questo punto?”

“Non sentivi più nulla?”

“Niente di niente. Mi sembrava di avere i sensi ottenebrati. E’ stato traumatico.”


“E una cosa del genere non ti dice niente?”

“Sì, che non devo più farmi baciare da Morgan” dichiarò perentoria, mettendosi a sedere prima di riaprire gli occhi e fissare arcigna tutto ciò che la circondava.

Dalla scrivania ricolma di libri aperti, all’armadio ordinato, tutto le parve odioso e degno di essere ridotto in briciole.

Gli artigli le spuntarono senza che lei potesse fermarli e Rah, avvedendosene, celiò: “Sei sicura che sia la soluzione migliore?”

“Ti pare che possa permettermi di andare in tilt?” ringhò a voce alta Joy, rivolgendo uno sguardo accigliato al soffitto.

“Non ho consigli da darti, né soluzioni al tuo problema. Fa parte delle cose che non posso dirti” le disse spiacente Rah.

“E chi ha il potere di tappare la bocca a un dio?”

“La stessa entità che diede la vita a Fenice la prima volta.”

Sbattendo le palpebre per la confusione, Joy esalò: “Di chi parli?”

“Anche questo non mi è concesso dirlo, poiché interferirebbe con il tuo processo di crescita.”

“Al diavolo! Tutti quanti! Voi uomini sapete essere odiosi, quando volete!” sibilò Joy, rizzandosi in piedi e togliendosi gli abiti con gesti febbrili delle mani.

Dopo aver gettato tutto su una sedia, si diresse a grandi passi verso la doccia e, aperto il getto dell’acqua calda, attese impaziente che giungesse in temperatura.

Ciò fatto, si gettò sotto il sifone, dove pianse lacrime amare imprecando contro se stessa e contro il suo destino.

 
***

“Una chiamata per te, Alexander. Dice di chiamarsi Morgan” esordì Sandra, quando Alex sollevò la cornetta del telefono del suo studio.

Sbattendo sorpreso le palpebre, il giovane accettò la chiamata prima di dire dubbioso: “Conosco un solo Morgan. Sei chi penso io?”

“Tu che dici?”

“Sei tu” annuì preoccupato Alex, chiedendo subito dopo: “Devi aver combinato qualcosa di grosso, per avermi chiamato. E poi, come cavolo hai fatto ad avere questo numero?”

“Leggo i giornali, Barrett. La tua vittoria a New York ha avuto una certa ridondanza, a Lincoln City, visto che tu sei uno dei suoi figli” ironizzò Morgan. “Ma non ti chiamo per farti i complimenti, tranquillo. A dir la verità, neppure pensavo ci fosse qualcuno, la domenica pomeriggio. Volevo lasciare un messaggio in segreteria ma, visto che la centralinista ha risposto…”

“Vieni al dunque” gli ordinò senza mezzi termini Alex, irrigidendosi.

“Dimmi solo una cosa, e salvami dalla pazzia; Joy non è stata violentata, vero?”

La sua voce suonò così turbata all’orecchio di Alex che, il tono risentito che era già pronto a rivolgergli contro, gli morì in gola, subito sostituito da una comprensione quasi palpabile.

“Dio, no! Perché hai pensato questo?”

Un lungo, sottile sospiro di sollievo giunse fino all’orecchio del giovane avvocato mentre Morgan, più tranquillo, gli spiegava: “Ha questa fissa del non poter avere legami seri con nessuno e, poco fa, dopo essere tornati dalla partita, ha dato di matto perché l’ho baciata con un po’ troppo… beh, sentimento.”

“Sai di stare rischiando la vita, dicendomi tutto questo…” gli fece notare Alex, accigliandosi. “… ergo, perché lo fai?”

“Te l’ho detto. Volevo essere sicuro che la sua reazione non fosse dovuta a una brutta esperienza passata.”

Passò qualche secondo, poi Morgan aggiunse: “Ha risposto al bacio, Alex, non l’ho mai forzata. Ne è la riprova che, quando ha dato fuori di testa, l’ho lasciata andare subito.”

Aggrottando la fronte nel passarsi una mano sulla nuca ora sudata per l’ansia, Alex gli chiese: “Ha detto qualcosa di preciso?”

“Che era come se il mondo si fosse annullato attorno a lei. Ti pare che sia una cosa negativa?” volle sapere Morgan.

Dio, siamo a questo punto!, pensò tristemente Alex.

“Senti, per quanto mi spiaccia dirlo, tu non c’entri nulla, a quanto pare. O meglio, non hai fatto niente di sbagliato. E’ un conflitto interiore di Leen, che ha da sempre.”

“E nemmeno tu mi dirai il perché si comporta così. Perché tu sai i motivi che la spingono a volermi solo come amico, vero?” lo sollecitò Morgan, sorprendendo non poco Alex.

Beh, dovevo aspettarmelo che Leen non avrebbe potuto innamorarsi di un tipo soltanto bello, pensò con una certa ironia Alex.

“Diciamo che, finché lei non mi darà il benestare, io non aprirò bocca.”

Un altro sospiro uscì dalla bocca di Morgan che, amareggiato, esalò: “Forse, se non l’avessi baciata così…”

“Ti prego…” esclamò Alex, irrigidendosi. “… non scendere nei particolari; è pur sempre mia cugina!”

“Scusa, comunque, pensavo che forse le cose sarebbero andate diversamente, se fossi stato meno… focoso.”

“Hai detto che ha risposto al bacio, quindi le andava bene così.”

Nel dirlo, rabbrividì. Dio, che razza di telefonata!

“Il punto è un altro e credimi, non dipende da te. Sarebbe successo comunque, prima o poi. E’ già tanto che ti abbia detto che vuole rimanere tua amica.”

“Beh, le ho detto che senza di lei non vivo” ammise con un risolino Morgan.

“Ed è vero?” gli chiese serissimo Alex, adombrandosi in viso.

Cogliendo il cambio di tono, Morgan fece lo stesso e disse: “Vero all’ennesima potenza. E’ come l’aria nei polmoni, per me. E non esagero nel dirlo. Voglio essere suo amico, credimi. E me lo farò bastare, se è l’unica cosa che potrò avere da lei.”

“Sei certo di poter arrivare a tanto?”

“Per Joy? Ehi, amico, stiamo parlando della stessa persona?” lo irrise bonariamente Morgan.

Ritrovandosi a sorridere complice del ragazzo, Alex se ne uscì con un risolino, esalando: “Ah, cavoli! Ti sei ficcato in un ginepraio non da poco, Morgan.”

“Comincio a sospettarlo. Nessuna dritta su come farla felice, dopo questo mio scivolone?” gli chiese allora Morgan, speranzoso.

Ritrovandosi a pensarci seriamente, Alex parlò dopo un minuto buono di silenzio.

“Regalale qualcosa che abbia a che fare con gli egizi. Un libro, una stampa, qualcosa del genere.”

“Le piacciono le piramidi e quelle cose lì?” esalò un po’ sorpreso Morgan.

“Esatto.” E non puoi sapere quanto!

“Okay, grazie per la dritta. E scusa se ti ho chiamato in un giorno festivo. A proposito, che ci fai lì?”

“Un caso grosso come un palazzo di dieci piani. Saremo impegnati in tre avvocati per il prossimo mese e mezzo, e solo per raccogliere tutta la documentazione, quindi si lavora anche la domenica” sospirò Alex, grattandosi distrattamente una guancia punteggiata di barba.

“Cavolo! Beh, buon lavoro, allora.”

“Grazie. E … Morgan. Prenditi cura di lei.”

Glielo disse sinceramente, perché aveva idea che, indipendentemente dalla ritrosia di Joy, il giovane pompiere le sarebbe rimasto accanto per parecchio tempo.

“Lo farò.”

Detto ciò, mise giù e, sdraiandosi sul letto della sua stanzetta d’albergo, nei pressi di Harlem, sospirò e chiuse gli occhi.

Alex aveva parlato degli antichi egizi e lui, di arte, ne sapeva abbastanza per sapere che, nella cultura sorta sulle rive del Nilo, c’erano così tanti simboli da far diventare pazzi persino gli accoliti della materia.

Cosa sarebbe stato più adatto, per lei? Di certo, era bella come Nefertiti, ma dubitava che un ciondolo con le sue forme le sarebbe piaciuto.

Un lento sorriso gli si dipinse sul viso un attimo dopo e, riaperti gli occhi, disse tra sé: “Sono davvero un idiota. Sono o non sono un pittore?”

Le avrebbe dedicato un dipinto.

In quello era bravo e, di sicuro, era più personale di qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto comprarle in un negozio di New York.

Perché, per Joy, nulla era abbastanza.

Le cose comuni non andavano bene.

Ci voleva qualcosa di unico, come era lei.

 

 
***


 
Morgan fu di parola.

Mi chiamò il giorno dopo, come se nulla fosse successo e, con tono volutamente allegro, mi chiese se mi fosse passata la smania da hockey, per un po’.

Non so bene se, in quel momento, avrei voluto picchiarlo per la sua eccessiva gentilezza, o abbracciarlo per il modo in cui si prese cura di me.

A ogni modo, mi feci coraggio e risposi alle sue domande senza più tornare sull’argomento ‘bacio’.

Stranamente, dopo qualche minuto di conversazione, la sensazione di panico andò attenuandosi.

Cullata dalla sua voce pacata e profonda, mi calmai al punto che, quando infine chiusi la comunicazione, non mi stupii più di tanto che fossimo stati al telefono per più di un’ora.

La vicinanza fisica complicava le cose ma, stando al telefono con lui, tutto era più semplice, e la vita mi appariva più facile da affrontare.

Suonava anche alle mie orecchie come codardia ma, all’epoca, non vidi altre soluzioni al mio annoso problema.

Il giorno prima della sua partenza per Lincoln City, si presentò al dormitorio con un enorme quadro racchiuso da un telo di cotone.

Quando me lo offrì in pegno, perché io mi ricordassi di lui durante il lunghissimo periodo di tempo che avrei passato a Boston, non potei che sorridere impressionata di fronte alla sua bravura.

Certo, avevo saputo proprio da lui della sua bravura nell’arte pittorica, ma mai mi sarei immaginata un simile dono.

E, soprattutto, non avrei mai immaginato di vedere me stessa con abiti che, un tempo, avevo portato in altri luoghi, abbellita da larghe collane di lapislazzuli, oro e smeraldi.

Mi aveva raccolto i capelli attorno a una corona a forma di serpente e, splendente alle mie spalle, la sagoma imponente di Giza era riccamente decorata da pannelli di calcare traslucido.

In barba ai miei propositi, lo abbracciai stretto fin quasi a piangere, lo baciai su una guancia e gli augurai un buon rientro a casa.

Gli promisi che avrei vegliato sul suo meraviglioso regalo come una leonessa su sui cuccioli.

Lo vidi andarsene sorridente e soddisfatto, e quella per me fu una consolazione.

Non sapevo se lui, solo nel suo letto, nella sua casa di Lincoln City, avrebbe sentito la mia mancanza.

Di sicuro, io l’avrei sentita eccome.

Ma io potevo soffrire per lui, era uno dei miei compiti. L’importante, era che lui non patisse alcun dolore causato da me.


 
  
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