Per la prima volta dal suo inizio, questa meravigliosa storia non mi ha suscitato gioia, nè scariche d'adrenalina, nè mi ha infiammato il cuore.
Oh, no, questa volta è stata diversa. Questa volta ho fiutato la paura, ho avuto paura, mi sono sentita spenta, consumata, dolorante sia fuori che dentro, stanca.
Per la prima volta, non ho percepito alcuna luce intorno a me.
Per la prima volta, i passi di questa storia non sono cadenzati al ritmo di un valzer, di una musica malinconica, dolce, oscura e limpida come la laguna. Questa volta, leggere ha richiamato alla mia mente l'immagine di un giradischi difettoso che s'inceppa nell'esecuzione de "La Gazza Ladra". Come mai?
Perchè l'angoscia, il dolore e l'opprimente sensazione d'una mancanza di via d'uscita pervadono il cuore di pari passo con una melodia tanto rapida, incalzante e potente da otturarti le vene, da pulsarti nei timpani fino a farti dimenticare chi sei, cosa devi fare, qual è il tuo scopo, cosa vuoi. Tutto ciò su cui riesci a concentrarti sono le emozioni negative, la testa che fa male, le orecchie che pulsano, lo spazio in cui ti ritrovi a camminare avanti e indietro e che è sempre troppo angusto, per te, perchè vorresti scappare, perchè necessiti di silenzio, di un silenzio di cui, però, hai addirittura paura.
La Maschera, Marco, è un personaggio che si fa sempre più bello, che ha un lato oscuro in perfetto equilibrio con quello di luce. Equilibrio, la più grande dote di questa storia, come ti ho già detto.
Ma poi... qual è il lato oscuro? Quello umano, quello di carne e sangue che quasi si rifiuta di riconoscere se stesso, ma che lo tiene ancora disperatamente legato ai suoi antichi affetti, o quello in titanio, quello che lo fa sentire un mostro, frutto del suo sacrificio, della sua sofferenza, del suo attaccamento alla vita e del suo gesto disperato atto a salvare una vita? Marco è un personaggio che prende vita tra le righe, che scivola come mercurio tra le pagine, di cui si riesce a vedere soltanto la punta del mantello scomparire dietro l'angolo di un paragrafo. Un personaggioterribilmente bello, distorto, sofferente e che gronda sangue ma, in qualche modo, purissimo.
E in quanto ad Annie, Reiner e Berthold... non riesco a non provare una profonda pena, per loro, e timore, in loro presenza. Non odio, no, perchè non riesco a vederli che attraverso gli occhi di Marco, tanto spaventato, disperato e pietoso da non avere nè tempo nè energie per odiare. Amo la tua Annie, amo ciò che fai venir fuori dalla sua bocca, amo la sua follia, che altro non è che un eccesso di abitudine alla costrizione, di razionalità, di tristezza.
Ho una profonda avversione per il dottor Jaeger fin dall'inizio, e non soltanto perchè è reso in modo tanto impeccabile da suscitarmi la stessa immagine d'un serpente velenoso che ha nell'opera originale. Lo vedo. Vedo la sua lingua biforcuta pronunciare belle parole e consolare Jean come si farebbe con un pazzo o con un bambino sconvolto, e lo detesto. Vedo la lucidità malata dentro i suoi occhi, dentro i suoi modi cortesi. La vedo perchè tu me la mostri, come da una visuale a tratti distante, al sicuro, ma a tratti tanto vicina da provare dolore, dolore fisico.
Inutile dire che non c'è stato bisogno d'esprimere con troppe parole lo stato d'animo di Jean, e che adoro la conclusione di questo capitolo: perchè chi legge, ormai, è diventato abbastanza Jean da sapere perfettamente cosa si sente, cosa vuole, cosa pensa. E pensare come pensa Jean, uno Jean sconvolto, uno Jean distrutto fin dentro l'anima, fa venire il mal di testa.
Ho allargato le braccia, mi sono abbandonata sulla sedia, mi son sistemata gli occhiali giusto in tempo per accorgermi che la vista mi si era abbassata, sbiadita. Questo capitolo mi ha stancata, mi ha tolto il fiato... non nel senso buono, ma nel vero senso della parola.
E' sublimemente orripilante.
Ciononostante, l'ho già letto due volte. Perchè ogni volta la devastazione interiore si fa più profonda, e io ho bisogno di questa storia come il mio cervello ha bisogno dello zucchero. Ho bisogno di sentirla dentro.
Ancora una volta, un lavoro... no, non impeccabile. Impeccabilmente sporco, buio, vivo, vibrante, equilibrato.
Al prossimo, che attendo con l'ansia di sempre. |