Parlare di dei è difficile.
Lo è sempre stato. Si rischia di porli su di un piedistallo, e restare lì a guardarli, senza più nemmeno il coraggio di rivolger loro lo sguardo. Oppure si antropomorfizzano in eccesso. Si donano loro quegli atteggiamenti e quelòle moralità così umane e quotidiane da dimenticarsi che la loro, di moralità, è altra. Non migliore ma di certo nemmeno peggiore dalla nostra. E' una linea che precipita nell'abisso, tanto sottile quando loro voglio quanto invalicabile anche solo pr capriccio.
Ecco. Gli dei sono capircciosi. Come il mare; come gli sprazzi di luce fra le foglie; come i limoni, che più sono gialli e invitanti più hanno quel sapore acre che non ti vorresti aspettare.
Saori è capricciosa; come lo è Atena. E lo è Julian come lo è Poseidone.
Ma questo non è un randez-vous a quattro; al contrario. E' il dilatarsi raffinato della dua drabble in un gioco stupendo di complicità e quotidianità, sottesa nel mito.
Ci sono tanti personaggi, in questa drabble. Tanti personaggi che ormai ci sono conosciuti, ma non per questo risultano stucchevoli o banali. Al contrario.
C'è un'eco dell'Ecale di Callimaco nella nonna Melpomene, in una donna che ha la semplicità e la saggezza dei vecchi, e nello guardare Atena negli occhi non teme le conseguenze. Gli occhi di Melpomene che sono gli occhi di Milo, con la stessa forza e la stessa visione del mondo, senza incanti e senza troppe illusioni. Ed è dolce questa staffetta generazionale fra due donne (perchè Atena è anche questo: donna) per un uomo che di stare in piedi da solo è capace, ma non sarebbe sufficiente.
E poi c'è Kanon, con i suoi rimbrotti e la sua aria perennemente imbronciata, come un gatto appena caduto nell'acqua (appunto!). E immaginarselo a sfacchinare pieno di borse e borsette, insofferente, e per poi rimpiangere quella peripato di indolente shopping è stato impagnabile. Perchè diciamocelo: che Atena incontri Posideone, a Kanon, non fa granchè caldo nè freddo. Che sia lui, poi, a doverlo di conseguenza incontrare, ecco: questo è tutt'altro discorso.
Ho amato lo sguardo che si sono scambiati, la rigidità di Kanon stemperata dalla battuta sottile di Posidone e in quella conversazione che si intuisce che ci sarà dietro, fra Milo e Kanon. E il sorriso sottile che ci deve essere, lì da qualche parte, a quel è stato divertente che per Gemini può tanto avere il sapore di una medaglia la merito.
Poi c’è Phi e la sua indagine, con un Sorrento che presentato come lo presenti tu dà la distanza fra l’apparenza e la sostanza non solo del cavaliere delle Sirene, ma del mondo di Saint Seiya tutto, così incastrato senza che nessuno se ne accorga fra la realtà umana e quella autentica. Sembra quasi sentire lo strappo di quel “velo di Maya” che intercorre sottile come una nebbiolina a primavera, una cortina d’acqua pronta ad incresparsi in ogni momento.
C’è quell’attante senza nome, lì all’inizio della storia, la vox populi che fa da perfetto contraltare alla consapevolezza della famiglia di Milo riunita al Kallistè. Ed è ironica la dovizia quasi turistica in cui questo anonimo si profonde, spiegando a Julian, a un greco, ad un dio greco che quella terra l’ha vista nascere e che l’ha desiderata tanto da giocarsela in battaglia con la nipote amata (e forse amante).
Di questa Atene viva, palpabile e saporita, descritta in poche rapide pennellate, l’affresco più bello è tutto lì, in quel lungo (in sé) discorso iniziale, in quelle parole rotolate fuori veloci e lente assieme, di chi ama la propria città e la conosce.
E poi ci sono loro. Gli dei.
Posidone e Atena.
C’è il loro antico gioco di seduzione, quell’amici che sembra la concessione all’amante respinto, una porta lasciata socchiusa. C’è l’ombra dell’Australia sulla pelle di Julian, del sovrano in perenne esilio e il riflesso di Posidone nei modi, nella voce, nel timbro forte e vigoroso e negli occhi. In quegli occhi azzurri di mare, irriverente e dispettoso.
Perché in fondo Posidone è magnanimo come solo gli dei sanno essere, ma altrettanto sadico. Di un sadismo di certo diverso da quello umano, che si compiace delle schermaglie che riesce a tessere. Con Atena in particolare.
E se dietro c’è la seduzione di amanti mancati ( o forse passati, come il mito ama immaginare in una sua remota declinazione), accanto c’è la diplomazia di due sovrani che sanno e devono ben calibrare ogni azione e ogni pensiero.
Sa di necessità quell’amici. Della profonda solitudine di dei esiliati in terra che ricercano la propria passata identità, una memoria storica nel sangue, che però rischia di naufragare in quell’umanità anelata e costringente.
E alla fine quella battuta, quel rigirare il mito a proprio ironico vantaggio (o svantaggio).
Perché è innegabile che con quel cavallo la mente corre al cavallo di Atena per eccellenza (o ce lo vedo solo io?).
È come se Posidone dicesse ad Atena: “Ecco, allora mi hai battuto con una piantina; ma in battaglia è stato il mio cavallo a concederti la vittoria. Lo neghi forse?”
E nell’accetto di Atena il riconoscimento del legame che da sempre li lega e l’onore delle armi allo sconfitto (di quelle armi che, immagine stupenda, se ne intravvede il riflesso fra i limoni).
P.S.
Io ricordavo il mito, meno noto, dell’ulivo e della polla d’acqua salata (e vai a capire perché, sull’Acropoli, dovrebbe servire una fonte di acqua di mare), ma devo ammettere che la scelta dell’altra versione del mito, qui, è più che azzeccata.
Complimenti come sempre!
E continua pure a spremerli, i limoni! Montale non avrà a offendersi, al contrario.
E io di certo aspetterò altri quadretti ellenici come questo! |