Ringconposition! Io amo la Ringcomposition!
Tanto quanto, nella narrazione in sè, i cliffhanger. Sono i pistoni della storia, e soprattutto servono a chiudere. A fare quella "quadratura del cerchio" che mi avevi accennato e promesso.
Torna. Tutto torna. Da quella fame che apriva il primo capitolo, a quel gabbiano che se ne va, verso l'orizzonte, sul finale. Un gabbiano (e tu, con i gabbiani, hai un feeling particolare. No?). Un gabbiano che è un predatore, uno di quelli che nessuno guarda, che quasi trova carino. Un gabbiano. Spesso i gabbani sono associati alla libertà, al volo oltre i limiti, oltre le frontiere. Eppure. Eppure il gabbiano, nel nostro folklore mediterraneo, con questa bella immagine non ha nulla a che spartire. Il gabbiano è la morte: le anime dei morti. Il gabbiano è Ermes, è psicopompo. Il gabbiano è come la sirena. E' una creatura del mare, una creatura liminare. Vive sulle scogliere, fra mare e terra; vive sul confine. Vive di quelle regioni tradizionalmente associate ai contatti con il regno invisibile e proprio per questo il gabbiano simboleggia la comunicazione con gli spiriti. E' lo spirito dell'acqua. Non appartiene al cielo; e non può restare in eterno sulla terra. Il gabbiano è la linea. Il gabbiano è il vampiro. Ed è anche Cechov. Cechov e il "suo" Gabbiano. Quello con la G maiuscola. Quello che mette in scena un uomo e una donna. Un abito nero e un lutto. Ecco cos'è “Il gabbiano”: quattro atti di incomprensione, ricerca, scontro, arte. Nessuna personalità a dominare. Nessun vincitore. Tutti vinti. Da chi? Da che cosa?
Ecco cosa mi è venuto in mente, leggendo questo ultimo capitolo. Cechov. E il suo teatro. Quello sbatterti in faccia la realtà con una grazia di ballerina classica. Di quelle di Degas. Molto tulle e velo; e dietro al trucco quella grandissima malinconia che solo l'attore in scena conosce davvero. Che solo il Pierrot di turno conosce, nell'istante della morte. Quando l'attore non esiste più; e nemmeno il personaggio (come succedeva in quel quadro. Rammenti?).
Ecco: tu parti da qui. Da una pantomima che entrambi accettano di vivere, di mettere in scena. Lo sa Aioria; e lo sa Marin.
Lo sanno e vogliono ingannare l'istante. Perchè finchè il sole non sorgerà, finchè le parole non verranno dette, quella realtà resterà una delle mille, diecimila possibilità. Finchè l'ombra di Shura non sarà concretizzata da quel "Ero la sua donna" ci si può ancora illudere, si può ancora giocare.
Ho amato questa schermaglia, verbale e fisica, che davvero tiene in equilibrio la rassegnazione di Aioria e la determinazione di Marin con. Con una battaglia che ha la drammaticità e l'intensità di quegli scontri all'ultimo sangue da film western.
E' un duello fra due volontà, quello che metti in scena. Due volontà ugualmente forti e altrettanto concrete. C’è epicità, e dignità, in questo confronto. Non c’è il livore, la rabbia, quel grumo di disgusto e violenza da, appunto, B-movie. Non c’è la mattanza finale, ma ricorda piuttosto un sacrificio. Un rituale di cui vittima e carnefice sono entrambi consci, e di cui non possono prevedere però l’esito. Perché. Perché sullo sfondo resta comunque, resta sempre, l’istinto. Frattaglie è una storia di istinto. È la cristallizzazione, la concretizzazione dell’istinto sotto tutti gli aspetti. L’istinto di vita, di sopravvivenza, del predatore, del carnivoro che fiuta il sangue e lo segue con caparbietà.
Nella morte di Aioria risiede la cifra della differenza. La morte di Aioros è stata pianificata, preparata ed eseguita con la stessa violenza della sua vita. La morte di Aioria no. La morte di Aioria, dicevo, ricorda il sacrificio. Ricorda l’immolarsi per stanchezza, per sfinimento. Perché in quelle braccia aperte, pronte ad accogliere, Aioria esprime la sua decisione. La sua scelta. È Aioria che sceglie di morire; che concede a Marin di essere lei lo strumento, la lama, della sua morte. Non c’è passibilità, e nemmeno concessione. C’è solo il realismo di quanto fatto: Aioria potrebbe vivere, potrebbe vincere. Eppure. Eppure è un predatore. Anche di se stesso. Soprattutto di se stesso. E allora sceglie il proprio cacciatore. Una ragazzina; pardon: una donna. Una donna che vede, che sente, che percepisce. Una donna come lui, una donna che è lui stesso in un’altra vita, in un altro mondo. Una donna che avrebbe voluto fra le braccia, in una storia diversa; una donna che avrebbe accompagnato al fianco dell’amico di sempre, in un universo ancora. Io amo i multi versi e le dimensioni parallele. Sono il sale di spaccati possibili. E amo ancora di più quando restano la proiezione di un qualcosa di possibile, di vago e fantasmagorico, più ancora che una percezione reale e concreta.
Per questo ho amato il tuo spennellare lieve, con poche battute, che passano a volo (di gabbiano, appunto) attraverso altre millanta vite senza far perdere coscienza della realtà, senza nulla togliere a quell’aderenza al sangue, all’istinto e alla carne che rimane di sottofondo.
Mi è piaciuto come Aioria si difenda nonostante tutto. Come lo dica e metta sull’avviso Marin, della sua difesa. Della consapevolezza di cos’è; e del fatto che comunque non lo rifiuti. Perché anche un leone vecchio e malato resta pur sempre un leone, e anche davanti alla morte, anche nell’accettazione della morte, c’è qualcosa di viscerale, di istintivo e disperato che ci monta dentro, che ci obbliga a graffiare alla vita come animali selvatici.
Quindi no: quello di Aioria non è un suicidio. Nessuno mi convincerà mai che lo sia. Non ce lo vedo. Ci vedo invece il cacciatore che ha scelto di farsi preda, forse per quieta indolenza forse per disperata necessità. Aioria ha scelto il suo carnefice, ha scelto il suo sacerdote. Ma questo non significa che offrirà remissivo il collo alla lama sacrificale, non significa che accetterà passivamente quella morte che conosce fin nelle viscere.
Aiora è e resta volontà. È quello che è sempre stato.
Volontà di fare, volontà di eseguire. Volontà di essere volontà. Per volontà ha rincorso Aioros; per volontà disperata lo ha ucciso; per volontà si è fatto eroe in una città che lo ignora, in una città che sonnecchia con il suo fiume e si lascia consumare pezzettino per pezzettino.
Forse è anche per questo che Aioria cerca fino all’ultimo di essere quel salvatore, quell’eroe che forse avrebbe voluto sempre essere. Che forse è solo il ricordo di un fratello preso a modello. Prima che tutto precipitasse. Forse è per questo che Aioria accetta la morte da Marin, e cerca di toglierla al Santuary. Non per togliere un cacciatore in più dalle strade. No. Vuole toglierla perché vede in lei se stesso. Si rivede come era. Con la caccia nelle vene anche prima. Con la missione nello stomaco. E sa che la dedizione diventa ossessione in un istante, senza nemmeno che ci sia davvero una linea di confine. Sa che dall’ossessione alla follia il passo è quello di un piede che si alza e si abbassa, e che non ci sono sirene o campane a fartelo capire. A Marin Aioria vuol risparmiare quella vita, la sua stessa vita.
Belli i dialoghi, con quella compassata cortesia che trascinano la storia fuori dal tempo, in un altro tempo. In un momento che è qui e ora ed è sempre al contempo. Belli questi dialoghi fra due avversari che il destino (Dio? Il Fato? La sorte? Troppo difficile da sapere; anche solo da chiedere. E poi. Importa davvero?) ha messo l’uomo contro l’altro, ma che non sono nemici. Sono solo avversari. Non c’è desiderio di vendetta in Marin. E nemmeno di giustizia. Ciò che muove Marin non è ciò che ha mosso Aioria contro suo fratello. Per Marin è solo giusto. È giusto che Aioria muoia, perché è una creatura che soffre, che si dilania. È giusto perché è giusto, perché lo sente giusto. Per nessun altro motivo.
È giusto perché è così che deve andare, e bisogna metter fine a questa piaga. Anche se a Roma di vampiri ce n’è uno che si traveste da eroe, sempre di un vampiro si tratta. E va eliminato. Radicalmente.
E sullo sfondo c’è Roma. Il suo Tevere e la sua gente. La sua gente che è Pino. Un insieme di genuinità e falsa ingenuità; la faccia piena di chi le cose le vede, ed è abituato a vedere. E per questo non ha nemmeno bisogno di chiamarle con il loro nome. Con una confidenza, con una frequentazione che stupisce per la sua abitudine. Pino non si scompone per Marin, non si scompone per il pensiero di un corpo di fondo al fiume. Pino forse Aioria lo conosceva, lo aveva visto altre volte affacciarsi sulla balaustra di pietra del ponte. Come conosce il Gabbiano. Come conosce la città con i suoi orrori e gli ride in faccia, con la serena confidenza che hanno solo quelli che la vita la guardano dal fondo. Delle scale; della bottiglia; del barile.
Ho amato ogni virgola di questo capitolo. Anche se mi ha lasciato in bocca il gusto delle cose lasciate, come diceva qualcuno. Perché fremevo al desiderio di leggere il finale (che – in nota – è arrivato il giorno prima del mio esame. Dandomi la carica. Speriamo mi abbia anche portato fortuna!), e assieme avrei voluto non arrivasse mai. Per cullarmi nell’attesa. E gustarmi questa piccola per più a lungo.
L’unica incertezza che mi è rimasta (e perdona la pedanteria) è più una curiosità: se Marin era la compagna di Ruy (e cavoli! Come sa di Spagna questo nome, niente al confronto!), perché Aioria non la consceva? Non di persona, indento. Non necessariamente. Almeno per sentito dire.
Ripeto: è pedanteria (e curiosità! Da gatta!)
Grazie a te per questa perla!
Davvero. Spelndida! |