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Autore: Ever Lights    04/01/2013    7 recensioni
«Tornerai presto?»
Mi baciò la fronte, stringendomi. Sentii le guance inumidirsi contro la sua divisa militare e provai a trattenermi. Percepivo l’odore di guerra, sangue, dolore, sudore, forza e amore su quel tessuto, ma una cosa in particolare mi colpiva e volevo cancellarmela dalla mente: odore di morte.
Ogni volta che mi avvicinavo a quell’uniforme, ogni volta che la prendevo fra le mani e me l’avvicinavo al petto, in lontananza scorgevo delle urla, dei rombi, degli ordini, lo scoppiare di bombe, mitragliatrici che scoppiettavano… Senza accorgermene, chiudevo gli occhi, li serravo e provavo ad allontanarmi da quei rumori.
«Ancora prima che tu possa dirmi ‘ti aspetto’ e sarò qui, amore.» Mi accarezzò i capelli, mentre io nascondevo il mio viso preoccupato e triste sul suo petto.
[...]
«Ricordi cosa ti avevo detto?»
«Non è facile vivere questa situazione, Edward.», mormorai, guardandolo intensamente. «Non posso lasciarti andare se non ho la garanzia che tornerai.»
[...]
Posò all’improvviso le labbra sulle mie. Non era un bacio come un altro: sapeva di addio, lo percepivo come un ultimo contatto prima della fine, prima che lui mi scivolasse dalle dita.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Be still

Be still
Capitolo tre: Heaven




“Si vede che lo ami.”
“Da cosa?”
“Dagli occhi. Lo guardi come se potesse
cadere in pezzi da un momento all’altro.
Lo guardi per salvarlo”.

Bella.

«Buon Natale, amore.»
Una leggera pressione sulle labbra mi fece aprire lentamente gli occhi. Il viso di Edward era a poca distanza dal mio, e sopra vi era stampato un sorriso sghembo. I suoi occhi erano ancora lucidi dal sonno e la sua bocca impastata.
«Mh... Buon Natale.», sussurrai, stiracchiandomi per bene contro il suo petto.
«Oggi dobbiamo fare il grande annuncio.», mormorò Ed, svegliandomi così completamente e mettendomi in ansia.
«Sarai con me, a dirlo?»
Mi carezzò dolcemente a guancia, sorridendo. «Io ci sarò sempre per te...»

Nessun “buongiorno, amore”, nessun bacio o carezza, nessuna luce che filtrava appena dalle tapparelle, nessun Natale uguale agli altri.
Quel pensiero martellava la mia testa da ore, e non avevo chiuso occhio quella notte, piangendo sotto l'onda di ricordi sulle feste in cui Edward aveva partecipato a partire dal primo anno di fidanzamento.
Il primo cenone il giorno del Ringraziamento a casa dei suoi.
Il primo albero decorato assieme l'otto dicembre.
La prima vigilia fuori con gli amici.
Il primo Natale passato con le nostre famiglie ancora scettiche sul nostro rapporto.
Il primo Capodanno per i locali, a ridere e a pensare a come quell'anno fosse passato in fretta.
Il primo San Valentino, con il viaggio a Los Angeles, lontano da tutti, da soli.
Le nostre prime esperienze, le risate nate da uno sguardo solo, i fugaci tocchi in pubblico...
Quanto mi mancava tutto quello? C'era un modo o una parola per descriverlo?
Mi sfiorai la guancia e mi accorsi che era umida. Stavo piangendo, di nuovo, dopo poco tempo che ero finalmente riuscita a smettere.
La cosa più difficile da assimilare, oltre all'assenza di Edward, era il fatto che io non diventavo forte, dopo tutto quel tempo. Ogni volta che mi passavano davanti agli occhi immagini di me e lui, insieme, mi ritrovavo a singhiozzare per poi non finire più. Era snervante.
«Devo essere forte.», mormorai a me stessa, vestendomi per scendere al piano di sotto. «Non starà via in eterno, tornerà.»
Ma quella convinzione mi morì sulle labbra quando accesi il cellulare e mi accorsi che non aveva risposto al mio messaggio inviato la sera precedente.

A Kabul è già Natale, e in realtà non so che augurio scrivere, vista la situazione. Spero che tornerai presto a casa, perché io e il bambino non vediamo l'ora di vederti, e lui vorrebbe conoscere il suo papà. Ti amo, sii prudente, come sempre.
B.

Arrivai al punto di pensare che la mia “presenza” e preoccupazione gli dessero fastidio. Erano quattro dannati giorni che non si faceva sentire, ai miei SMS non rispondeva, agli squilli non richiamava, su Skype era sparito... Al campo dicevano che stava bene, quando riuscivo a contattare il suo ufficiale, ma mai una volta gli passarono il telefono per farlo parlare con me, mai.
Quindi, i fatti erano due: o era molto occupato, oppure... Oppure qualcosa fra noi era cambiato. La lontananza poteva eccome distruggere un rapporto, sgretolarlo e soffocare gli amanti fino a farli morire...
Ci saremmo ritrovati così, prima o poi? Sarebbe successo?
«Buongiorno, tesoro. Buon Natale.» Mia madre mi baciò la guancia quando arrivai in cucina e meccanicamente risposi con un «Anche a te» appena sussurrato.
«Vuoi aprire i tuoi regali o poi vuoi farlo stasera quando torniamo da casa di Esme e Carlisle, cosicché sei più tranquilla?»
Alzai le spalle e le scossi un poco, cercando di dare importanza alla questione. «È uguale.»
«Allora facciamo con calma stasera, dai. Ora mangia qualcosa, okay?»
Mi carezzò i capelli e mi mise davanti una tazza piena di tè fumante. Subito dopo, al richiamo di mio padre in garage, si sistemò la vestaglia e lo raggiunse.
Si sarebbe prospettata così, la giornata? Con finti abbracci, sorrisi, sentimenti non reali? E poi? Saremmo tornati alla solita calma ricca di indifferenza?
Sospirai e guardai le foto sulle pareti, accanto a me. Renèe aveva deciso di appendere alcuni ricordi riguardanti me da bambina... in realtà aveva sepolto i muri di casa nostra.
Lì, vicino a me, c'erano immagini della vacanza che avevano organizzato i miei genitori il secondo anno in cui io e Edward eravamo fidanzati... E ovviamente avevano fatto di tutto per far partecipare anche lui, sebbene volessimo passare due settimane da soli.
Quelle foto riscossero in me ricordi che non volevo tornassero a galla, sebbene fossero felici.
Il cellulare davanti a me vibrò per un lungo secondo e in quel lasso di tempo sperai fosse Edward, ma purtroppo non fu così.

Buongiorno, stellina! Buon Natale! Ti aspettiamo a casa nostra per pranzo ;)
Alice

Come ci riusciva? Come poteva vivere tutta la gioia natalizia quando suo fratello non c'era? Evidentemente, solo io mi facevo i complessi mentali, e non pensavo altro che a Edward...
Finii la colazione e poi ritornai in camera mia, almeno per cercare qualcosa di carino da indossare, nonostante la mia allegria fosse sotto i piedi...
Ma proprio quando passai davanti allo specchio, mi fermai di colpo. Qualcosa attirò la mia attenzione come mai prima d'ora, e lo avevo sempre avuto davanti ai miei occhi.
Mi soffermai su quella pancia che ogni giorno cresceva sempre di più, dove dentro custodivo il bene più prezioso che mai avessi potuto avere.
In quei nove mesi, mai davvero mi ero accorta di quanto fosse... meraviglioso proteggere una vita dentro di sé. Mi vergognai del fatto che, alla fin fine, non mi ero occupata così tanto di mio figlio, tanto ero preoccupata per Edward.. E, come lui, mi ero persa, in qualche modo, tutte le bellissime emozioni che si potevano provare.
«Oh... Ehi, ciao, amore...», sussurrai, tirando su la maglia del pigiama fin sotto il seno. Accarezzai il punto in cui la pelle formava un bozzo, e istintivamente sorrisi. «Buon Natale anche a te, piccolino...»
Rimasi per una mezzora abbondante a fissare quell'immagine allo specchio e a fotografare da ogni angolazione ogni centimetro di pelle testa, per catturare quegli istanti e non lasciarli mai più andare via.
«Bella, tesoro? Tutto bene?» Renée comparve sulla porta, e un sorriso fece capolino sul suo volto quando mi vide sussurrare parole dolci al mio bambino.
Arrossii quando mi accorsi della sua presenza e cercai di sembrare il più naturale possibile. «Ehm... Sì, va tutto bene. Stavo cercando qualcosa da mettermi...»
In un secondo, tornai bambina, quando all'età di quattro anni io mi sedevo sul letto e mia madre mi proponeva i vestiti per la festa. Sebbene fossero passati vent'anni, la situazione in quel momento era la stessa: scartavo senza pietà tutte le idee di Renée, che rideva delle mie espressioni abbastanza disgustate per i suoi abbinamenti dell'ultimo minuto.
Alla fine, optammo per una camicia bianca e un paio di jeans, cadendo così nella banalità ma rimanendo sempre il più comode possibile... O, per lo meno, io lo ero, visto il pancione terribile che avevo.
«Sei bellissima, Bells!», sussurrò quando finii di vestirmi. «Ma c'è qualcosa che non va?»
Scossi il capo e lasciai che mi pettinasse i capelli, fissandola attraverso lo specchio. «Va tutto bene, mamma.»
Sorrise. «Ti conosco, tesoro, so come sei fatta, e so che adesso sei giù di morale.»
«Sto...»
Non terminai la frase e abbassai il capo, sentendo le lacrime pungermi gli occhi.
«Ehi...» Renée mi strinse al suo petto e come d'incanto mi lasciai completamente andare fra le sue braccia, come facevano i bambini dopo aver combinato un guaio o detto una bugia, e si sentivano tristi.
«Mi manca, mamma, mi manca terribilmente. È come se una parte di me fosse stata strappata via e ora avessi un vuoto dentro. Mi sembra di urlare e nessuno mi sentisse... è straziante. Voglio che torni, voglio che ritorni qui, da me. Sono sola, sono persa.»
Sono persa.
Ero così da troppo tempo.
Mi sentivo persa come un giocattolo dimenticato.
Mi sentivo persa come una lettera in mezzo a un mucchio di cartacce.
Mi sentivo persa come una collana al fondo di un cassetto.
Mi sentivo persa come delle parole dette senza un'intenzione seria.
Ero persa, letteralmente.
«Ma tu amore non sei sola, c'è il tuo bambino.», mormorò mia madre, asciugandomi le lacrime, un tentativo che fu invano.
«Non è la stessa cosa, mamma! Non è la stessa cosa! Edward non c'è, non so quando tornerà, e nessuno mi può assicurare che arriverà a casa sano e salvo, nessuno!», sbraitai osservandola negli occhi. Dentro quelle pozze grigie potevo vedere tutto lo strazio che stava provando vedendomi in quello stato, e il suo cuore si stava penando perché non poteva fare nulla per aiutarmi.
«Ora basta... Sttt, amore... La mamma è qui, la mamma è qui.»

«Dove ti sei fatta male, piccola?»
Avevo quasi sei anni ed ero caduta dalla bicicletta quella mattina di aprile. Erano i primi tentativi di andare in bicicletta senza le rotelle di sicurezza; fino a che Charlie rimaneva al mio fianco, non mi succedeva niente, ma quella volta avevo deciso di provare da sola, perché mio padre era a lavorare, e mia madre era indaffarata a finire i preparativi per il compleanno della nonna.
«Al ginocchio. Mi fa tanto male, mamma!», piagnucolai, pulendomi il viso con i pugni sporchi di terra.
Renée mi acconciò una ciocca ribelle dietro all'orecchio e mi carezzò la guancia. «Stt, non è nulla, gioia.»
«Ma mi fa male!», esclamai, ricominciando a piangere. La donna mi prese fra le sue braccia, stringendomi al petto e accarezzandomi i capelli. «Stt, amore. La mamma è qui, la mamma è qui.»
Erano bastate quelle parole per farmi calmare nel giro di pochi minuti. «Ora do un bacino alla bua e passa tutto, okay?»
Annuii e lei posò le labbra sulla piccola sbucciatura sulla gamba, per poi baciarmi la fronte.
«È passato, scricciolo. La mamma è qui.»

«Ora passa tutto, ci sono io qui.»
Nonostante fossero passati anni, sapere che la situazione non era cambiata mi faceva capire che l'amore di Renée era sempre lo stesso, non era mutato.
Ero ancora la sua bambina innocente e indifesa, il bocciolo di rosa che doveva essere custodito come un gioiello prezioso. Nella sua mente, quando mi guardava, vedeva ancora la piccola che borbottava nella culla, la bimba di quattro anni al corso di danza, che si muoveva come una paperella, la peste che correva per casa strillando come un aquilotto, la ragazzina impacciata alle prese con i primi amori, la donna che si sposava con un militare.
Ma ero sempre la sua bambina.
«Ora, ascoltami: rinfrescati il viso, sciacquatelo, poi magari ti trucchi un pochino mentre io mi vesto, okay?»
Annuii poco convinta e mi asciugai le guance con il dorso della mano, provando a sorriderle. Forse quel periodo di menefreghismo era solo stato una mia immaginazione, tutti si erano preoccupati davvero per me anche se non me n'ero più accorta stufa com'ero...
«Dai, vado a prepararmi. Voglio trovarti pronta e con un sorriso stupendo stampato in viso.»
Uscì dalla stanza con la stessa velocità con cui era arrivata e dietro di sé lascio il suo profumo. L'odore di mamma, di amore, di compassione, di tenerezza... Tutto ciò che poteva servire a descrivere la donna perfetta qual era Renée.


La gioia del Natale mi penetrò la pelle poco per volta a casa di Esme e Carlisle, dove le canzoncine a tema riempivano l'aria, accompagnate dalle risate dei bambini che ospitavano.
L'animo dei miei suoceri era infinito, l'amore che donavano per dei bambini ogni anno era indescrivibile. Non erano loro nipoti, ma bambini di un orfanotrofio della zona, bambini senza genitori, senza l'affetto di qualcuno che li amasse davvero. Abbandonati perché classificati come errori, come sbagli da non ripetere mai, come oggetti da buttare via senza degnarli di uno sguardo.
Come si poteva? A quel pensiero mi carezzai il grembo, pensando a mio figlio. Io... non avrei mai fatto una cosa del genere, non quando si trattava del sangue del mio sangue, l'unione e il cuore di ciò che avevo creato con la persona che più amavo sulla Terra. Ma non l'avrei mai fatto neanche se non fosse stato lui, perché un neonato non si poteva gettare via come se nulla fosse. Non si poteva, quale essere umano ci sarebbe mai riuscito?
«Terra chiama Bella.»
Sbattei più volte le palpebre e mi accorsi che Alice mi stava fissando di sbieco. «Tutto okay?»
«Sì, va tutto bene, stavo solo pensando.», sussurrai e presi il piatto che mi stava sporgendo. «Lo porto a tavola, così poi possiamo sederci.»
Annuì e mi sorrise, per poi tornare ai fornelli. Quando entrai in sala da pranzo, vidi Esme e Carlisle ballare sulle note di una vecchia canzone, che probabilmente aveva segnato la loro giovinezza. Accanto a loro, Renée e Charlie sorridevano abbracciati l'uno all'altra.
Non era la prima volta che assistevo a una scena del genere, però ogni volta l'effetto era lo stesso: l'amore, nonostante gli anni, non si rompeva ma si rafforzava sempre più, fino a diventare un anello indissolubile.
Mio padre era visibilmente a disagio: odiava ballare, o almeno questo diceva lui, dato che mia madre mi raccontava sempre che quando erano fidanzati spesso e volentieri era lui a portarla sulla pista.
Li lasciai fare e finii di apparecchiare il tavolo. Non mancava nulla, o almeno così mi sembrava.
«Bella, vuoi aprirli dopo i regali?»
Perché lo chiedevano proprio a me? «Sì, ora mangiamo che poi si raffredda tutto.»
Quando tutti ci sedemmo ai nostri posti, mi accorsi che davvero qualcosa di diverso c'era, e da brava masochista capii che era Edward.
Quel pensiero mi perseguitò per tutto il pranzo e quasi non toccai cibo, tanto ero giù di morale. Perché non poteva essere un Natale uguale agli altri? Che male avevo fatto?
Più volte mia madre mi incitò a mangiare qualcosa, ma appena avvicinavo la forchetta alla bocca un senso di nausea mi risaliva la gola e dovevo fermarmi.
Mi estraniai dal gruppo quando il piccolo Nick mi richiamò a giocare con lui. Era un bambino bellissimo, i capelli neri erano una cascata di ricci su quel viso così candido e innocente e gli occhi azzurri impreziosivano il suo volto.
«Tochiamo?»
Mi sedetti accanto a lui e lo ascoltai parlottare fra sé e sé. Ogni tanto si girava verso di me e mi sorrideva, oppure posava la manina aperta sul mio pancione per ascoltare i movimenti del piccolo.
«Ma il bibbo ti muove?», domandò dopo un po', guardandomi con gli occhioni spalancati.
«Sì, guarda.» Appoggiai la sua mano accanto al punto in cui poco prima era arrivato un calcetto, e quando il bambino percepii un movimento sotto la sua mano, ridacchiò stupito. «Ti muove! Ma mi vede?»
Sorrisi, carezzandogli i capelli. «Vederti no, ma ti sente.»
«Mi tente?» Sul suo viso vidi tutta la curiosità e le mille domande che gli invadevano la testa. «Quindi se pallo, mi tente?»
«Certo.» Si avvicinò alla pancia e borbottò qualcosa contro la maglietta, attendendo una risposta.
«Ma non lipponde!», disse dispiaciuto. Era così tenero... Come si poteva considerare errore un angelo come quello?
Qualche minuto dopo, mentre ero ancora immersa nei miei pensieri, tutti gli altri arrivarono in salotto, ridendo e sorridendo.
«Iniziamo con i regali per i bambini.», esclamò Esme e Nick e la sorellina, Ania, strillarono avvicinandosi all'albero. Li osservammo scoppiare in lacrime quando scartarono i pacchetti e trovarono i doni che avevano desiderato. Forse mai avrebbero provato quella gioia, in orfanotrofio...
Dopo toccò a Esme e Carlisle, e successivamente ai miei genitori, che mi abbracciarono commossi. Avevo deciso di regalargli un viaggio per solo loro due, visti i sacrifici che avevano fatto per me i quei mesi per starmi accanto, per aiutarmi nel percorso e per farmi sentire meno sola.
«E ora tocca a Bella.» Alice si avvicinò a me e mi sussurrò all'orecchio che era necessario ciò che stava per fare... E mi bendò.
Mi preoccupai leggermente  per quello che stava succedendo. Perché rendermi cieca? Cosa c'era che dovevano nascondermi?
«Si può sapere il perché?», chiesi scettica e mia madre mi zittì carezzandomi i capelli.
«St, tranquilla.»
Attorno a me qualcuno iniziò a trafficare e a spostare mobili, e sentii Charlie e Carlisle ridere per chissà quale motivo.
Passarono altri minuti e la benda che mi avevano legato attorno agli occhi fu sciolta.
Davanti a me trovai un enorme pacco di cartone, quelli che si usano durante i traslochi, con tantissime scritte stampate sopra. Lo scotch chiudeva tutte le fessure e guardai i presenti come per chiedere una risposta, che non arrivò.
«Non lo apri? È il tuo regalo, su!», mi incitò Alice, battendo velocemente le mani sulle gambe.
Sospirai e ripresi a fissare quel pacco. Pensai che contenesse l'intero arredamento per la stanza del bambino, però chi poteva dirlo?
Con un paio di forbici tagliai l'adesivo che chiudeva il lato davanti a me. Non c'era carta da imballaggi o polistirolo dentro, ma il vuoto. Era uno scherzo?
Poco dopo, quando provai a sforzare il cartone ma qualcuno all'interno della scatola mi afferrò le mani, fermandomi e facendomi sussultare. Il pacco cadde a terra e trovai a pochi centimetri dal mio viso degli occhi verdi lucidi.
I suoi occhi verdi.
«Edward.», mormorai e il mio respiro si fermò.
E poi fu come incontrarlo una seconda volta. Fu di nuovo come se il centro della gravità cambiasse  nuovamente, sballottandomi e confondendomi. Fu come se il sangue scorresse in senso opposto nelle vene, come se il cervello non rispondesse più ai miei comandi e come se il tempo si gelasse.
Vedere i suoi occhi fu la goccia che fece traboccare il vaso. Risentire il suo viso sotto le dita era la più bella sensazione e niente il mondo avrebbe potuto eguagliarla, in quel momento. Il suo profumo era sempre lo stesso, non era cambiato e ora mi carezzava la pelle come stavano facendo le sue mani.
«Sei qui...»
Le sue labbra sfiorarono le mie, e la sua pelle ritornò realtà, tutto divenne reale. Tutto era tornato normale, perché lui era lì, Edward c'era di nuovo.
«Ti avevo promesso che sarei tornato...», mormorò e mi accorsi che stava piangendo esattamente come me. La sua fronte era a contatto con la mia, i nostri nasi si sfiorarono e le sue mani si posarono al lato del mio viso.
«Hai mantenuto la promessa...» Le parole mi scorrevano sulla bocca e scivolavano via assieme alle mie lacrime. La felicità era a livelli indescrivibili, incontenibile.
«Dovevo tornare, dovevo...» Si chinò all'altezza della mia pancia e nascose il viso fra le mani, singhiozzando ancora più forte.
Tutta l'angoscia che aveva vissuto in me per mesi in un instante sparì, lasciando posto a svariate emozioni contrastanti. Non mi curai del fatto che avevo alcune piccole contrazioni, che tutti ci stavano guardando e nemmeno se avessi potuto fare qualcosa di errato.
In quel momento non c'era nient'altro che noi, solo noi due, nella nostra bolla felice, estranei alla tristezza, all'odio e a tutte le altre cose negative che avrebbero potuto dividerci.


Edward. (Suggerimento musicale, ascoltatelo on repeat u.u)

L'aria che si respirava in America era formidabile, ancora meglio se si trattava di Jacksonville, a casa mia, con la donna che amavo, soprattutto se l'ossigeno aveva l'odore dei suoi capelli e della sua pelle, se sapeva di amore e di speranza... Di Bella.
Sembrava un sogno essere in un posto dove non c'erano spari, urla, pianti, bombe, sabbia che volava... Essere lontano da lì, dalla morte.
Ogni giorno, a Kabul, mi svegliavo e ringraziavo Dio se ero ancora vivo, se qualcuno non aveva attentato alla nostra tenda, se non c'erano stati attacchi nel cuore della notte.
Essere sul filo del rasoio sarebbe stato più confortante rispetto a tutto quello. Non avere la speranza di potersi svegliare ancora dopo essersi coricati era tremendo, perché in un secondo potevi perdere tutto, pure te stesso. Bastava meno di un minuto per farti dimenticare tutto, per farti finire all'altro mondo, per renderti cenere.
Era un pensiero che trovava sempre posto nella mia mente e spesso mi chiedevo cosa avrebbero fatto a casa sapendo che non c'ero più.
«Non dire mai una cosa del genere», mi ripeteva sempre Bells, quando parlavamo al cellulare e le dichiaravo quello che pensavo.
«Non potrebbe succedere niente di più brutto.», continuava sulle lacrime. Non riuscivo mai a finire davvero un discorso, soprattutto se lei si metteva a piangere; non potevo neanche rimanere lucido sapendo che stava male per me, per una mia decisione.
Allontanarmi da lei a marzo fu problematico, ma lo fu ancora di più non tornare indietro e ritirarmi quando mi inviò un sms, una sera, mentre io mi stavo preparando per una nuova giornata.

Averti qui adesso, sarebbe la cosa più bella del mondo. Dovrei parlarti, chiamami appena puoi.
B.

Inutile dire che smisi subito ciò che stavo facendo e digitai il suo numero, con il groppo in gola e l'ansia a mille.
Appena sentii la sua voce, capii che era incrinata e c'era qualcosa sotto.
«Adesso però non ti arrabbiare, e non decidere di lasciare il tuo posto, okay?», aveva sussurrato e io avevo solo chiesto di dirmi cosa c'era che non andava. Le sue parole furono un colpo al cuore e dovetti tenermi al letto per non cadere,
«Sono incinta. Aspetto un bambino...»
Il respiro mi si era mozzato in gola e non sapevo più cosa dire, cosa fare, cosa pensare.
«Però sto bene! Stiamo bene... Domani prenoto una visita, devi solo stare tranquillo, okay? Andrà... tutto bene, sono fiduciosa.»
Non avevo più la forza per risponderle, perché in quel momento mi sentii come preso sotto da un treno a centinaia di chilometri all'ora, percepivo il mio corpo maciullato.
La mia risposta non fu quella che veramente desideravo comunicarle. Sembrai un mostro, mi sentii tale tanta era la cattiveria e la rabbia che fecero trapelare le mie parole.
«Cosa? Cristo santissimo, Bella! Ma come? Come fai a dire che andrà tutto bene? COME FAI?! Io sono qui, a rischiare di morire, non so se il giorno dopo sarò ancora qui o meno... E tu mi dici che sei incinta? Dio, non ci posso credere! Ti amo, io voglio un figlio, ma non ora! Non quando non ho la sicurezza di poterti abbracciare di nuovo! Come potrei tirare avanti i giorni qui sapendo che dentro di te cresce mio figlio e io non lo potrò vedere, seguire le visite, sentire i suoi primi movimenti.. nascere? Come potrei, come?!»
Un animale, messo a confronto, avrebbe avuto più amore e delicatezza.
«Tu... non lo vuoi?», aveva mormorato lei, singhiozzando. «È questo?»
Dopo quelle frasi, non sapevo se aveva ancora un senso dirle davvero quello che pensavo.
«Certo che lo voglio! Dio, ho sempre voluto una famiglia con te, lo sai... Ma non in questo modo. Non ora.»
Aveva continuato a ripetermi che tutto sarebbe andato bene, che quella volta non sarebbe successo niente. Io avevo chiuso la conversazione capendo che non ero nulla, in quel momento. Non potevo diventare padre se mi perdevo la prima gravidanza e la nascita di mio figlio, non lo sarei davvero stato.
Erano passate notti in cui pensavo di finirla e fare ritorno a casa, tornare ad abbracciare Bella e condurre con lei una vita normale, passare con lei ogni attimo di quell'attesa. Però spesso mi dicevo che comunque non avrei fatto la cosa giusta, se avessi mollato il mio lavoro, il mio incarico. Lei non sarebbe stata felice, e non volevo ferirla ancora di più.
Ancora mi chiedo come avessi fatto a passare otto mesi lontano da lei, da loro... Dalla mia stessa vita.
«A cosa pensi?»
Averla nuovamente vicino, sentire la sua voce non solo attraverso un telefono, percepirla finalmente sotto il mio tocco sembrava irreale, ancora non potevo immaginare di essere di nuovo accanto a lei.
Scossi il capo, sorridendole e sfiorandole con la punta delle dita la guancia ancora umida. L'idea del regalo era stata mia, non avevo trovato modo migliore per presentarmi davanti a lei, ed era stato un pensiero carino. Avevo fatto ancora centro, perché aveva passato le due ore seguenti a piangere ininterrottamente. «A nulla.»
«Ancora non riesco a crederci che sei di nuovo qui, accanto a me.», mormorò e strusciò il viso contro la mia spalla. Era un vizio che mai si era tolta, e adoravo quel suo particolare che la faceva sempre arrossire.
«Mi sei mancata tantissimo...», sussurrai baciandole la fronte, assaporando di nuovo il suo profumo, che per mesi mi aveva fatto lottare per riaverla.
«Pure tu, amore... Pure tu.» Dolcemente, avvicinò le labbra alle mie e lasciai che quel contatto continuasse fino all'infinito, anche se dopo qualche secondo dovette staccarsi per riprendere fiato.
Le sue mani erano intrecciate alle mie, legate sopra quel pancione prominente. Per tutto il tempo, non avevo fatto altro che guardarlo e chiedermi se davvero potesse esserci qualcuno lì dentro.
«Voglio andare a casa...»
Le carezzai i capelli, aiutandola ad alzarsi. «Sei stanca?»
Annuì e mi sorrise raggiante. «Colpa tua e della tua folle idea.»
Fu difficile riuscire a uscire da casa dei miei genitori. Esme e Carlisle ci misero venti minuti abbondanti a lasciarmi andare, dato che continuavano ad abbracciarmi, e Alice... Be', Alice non smetteva di sorridere, fissandomi. Era stata la mia complice, lei sapeva tutto da mesi ormai. Era stata la prima persona a venire a conoscenza del mio progetto, era rimasta attaccata al filo del telefono per ora a parlare con me per dirmi che ero un pazzo, che non potevo farlo davvero. Eppure avevo convinto i caporali e gli ufficiali, e insieme avevano deciso un grande piano per me, che però ancora tenevo segreto.
Arrivare a casa nostra – nostra, com'era strano dirlo, fu l'apice della giornata. Tutto era come l'avevo lasciato: la cucina era ancora l'angolo speciale con quell'odore onnipresente di cannella, il salotto brillava alla luce del caminetto, la nostra camera profumava ancora di tutte le notti passate insonni ad ascoltare il respiro dell'altro, a rincuorarla e ad asciugarle le lacrime... Il nostro paradiso era sempre lo stesso.
Quando entrai nella nostra stanza mi accorsi che sul comodino dalla parte di Bella c'era il mio braccialetto, le nostre foto e una piccola collana con un angelo e la Madonna.
«Hai...»
«È stato un modo, per me, per sentirti ancora vicino. Non... sapevo come aiutarti, e guardarti mi sembrava un ottimo metodo per salvarti, per farti rimanere forte laggiù.»
La strinsi a me, cullandola dolcemente. «È... una cosa meravigliosa. Anche io avevo al campo, accanto al letto, una tua foto.»
Sorrise contro il mio petto e poi si tirò su, come scottata. «Cosa c'è?», domandai allarmato, e lei spostò il proprio sguardo verso la porta che dava sul corridoio.
«Posso farti vedere una cosa?»
Annuii deciso, e lasciai che mi trascinasse fino al mio studio, o almeno quello che era fino a otto mesi prima. «Non arrabbiarti però, okay?»
Spalancò l'uscio e davanti a me si parò una stanza vuota, senza finestre alle tende, il soffitto e le pareti bianche, un parquet chiaro poggiato a terra, decine di scatoloni, piccoli e grandi, che seminavano l'intera camera.
«Avevo... avevo pensato di arredarla per il bambino, ma ogni volta che entravo qui mi mancava la forza. Non ci sono mai riuscita, non ho fatto nient'altro a parte riempire le scatole delle tue cose, ma non volevo farle sparire. Volevo rendere questo posto perfetto per il nostro bambino, però appena prendevo in mano qualcosa di tuo, non trattenevo le lacrime e dovevo scappare da qua dentro. Ho versato così tante lacrime su questo pavimento... Non puoi immaginare.»
Il mio sguardo vacuo vagava lungo i muri, per terra, accanto a tutte quelle cianfrusaglie che l'avevano ferita ancora più di me...
«E... ora manca poco tempo alla nascita del bambino, e potrebbe accadere anche stanotte... Non abbiamo un posto adatto a lui, non abbiamo le cose necessarie per la sua cura. Okay, abbiamo i pannolini, le tutine... ma ci mancano i biberon, i ciucci, il carosello con le apine da appendere sopra la culla... Non abbiamo nulla, ci manca tutto. Non siamo pronti.»
I suoi occhi rimbalzarono contro i miei e d'impulso le presi le mani. «Ma non ci manca la forza di volontà, amore. Possiamo ancora fare tutto, forse arriveremo un po' in ritardo, ma con lo spirito giusto ci riusciremo, siamo in grado di riuscirci.»
Il suo sorriso mi fece capire che le mie parole avevano fatto breccia dentro di lei. «Posso sempre chiedere alle ostetriche di tenerlo un po' di più dentro, non è un problema.»
Ridemmo entrambi, lei contro di me, e mi fermai quando vidi in un angolo un oggetto che per me era di grande valore.
«Non hai... Perché non hai impacchettato la chitarra?», domandai incuriosito, aggrottando le sopracciglia. Senza accorgermene, mi ero già diretto verso lo strumento e Bella mi fissava interdetta.
«Non.. non ne avevo il coraggio.», ammise, stringendosi nelle spalle. «Lasciandola lì mi sembrava di avere un pezzo di te sempre vivo in questa camera, come a badare che nessuno ci entrasse.»
Presi la chitarra in mano e con lei mi diressi di nuovo in camera da letto, dove ci sedemmo e le dissi di stare in silenzio.
Mi sorpresi di quanta naturalezza mi nacque quando feci scorrere le dita contro le corde, lungo il legno scuro e presi a suonare. Guardavo Bella sorridere davanti a me, ammirata, con le lacrime sul bordo degli occhi, a stringersi le mani tremanti contro la pancia.
In quelle note racchiusi tutto ciò che provavo per lei, tutto il mio dolore per la lontananza, tutto la paura di poter perdere lei e il bambino, tutta il terrore di lasciarla per sempre, tutto l'amore che provavo e avevo provato durante quel lungo periodo, tutta la speranza di rivederla ancora, tutta la gioia di riaverla fra le braccia.
Non mi lasciò terminare il pezzo che si era rifugiata sul mio petto singhiozzando e tremando come una foglia.
«Oh, Edward...», sussurrò e il suo bisogno d'affetto la spinse a fermare le lacrime posando le labbra sulle mie. Sotto le dita riuscivo a sentire tutta l'angoscia che aveva tenuto dentro di sé uscire fuori e farla finalmente sfogare. «Ho avuto tanta paura di perderti...»
«Ehi, stt... Amore, Bella, ora sono qui, sono qui...» Le massaggiai la schiena con gesti lenti e circolari, percependo la calma crescere in lei.
«Non mi abbandonare più...», mi implorò. La sua fu una supplica, un appello, un richiamo di aiuto, un bisogno. Una necessità.
«Non lo farò mai più. Non ti lascerò mai, per niente al mondo. Sarò sempre con te, al tuo fianco.»
Tirò su con il naso e mi guardò intensamente oltre la coltre di lacrime. «Me lo prometti?»
«Te lo giuro su cosa ho più grande al mondo. Non mi allontanerò mai più, non ho bisogno di tutto quell'odio per capire cosa sia davvero l'amore.»
Strofinò gli occhi sulla mia camicia, mormorando un grazie appena udibile.
«Se ci sei tu, non ho bisogno del paradiso.», risposi e nei suoi occhi vidi una luce brillare come poche volte era successo.
«Tu sei il mio paradiso... Sei tutto quello che ho sempre voluto.», continuai e sulle sue labbra lasciai traboccare tutti i miei sentimenti verso di lei.
Era lei, era nostro figlio, era la nostra vita assieme. Era tutto ciò che ci riguardava ad essere il mio posto perfetto, e se avessi potuto scegliere un luogo dove passare il resto dei miei giorni, sarebbe stato quello.
«Sono qui... Per sempre.», promisi, e in quell'istante tutto divenne eterno e perfetto, soprattutto se c'erano in ballo Bella, mio figlio... la mia stessa vita, la mia stessa anima.



Angolino tutto mio :3        
Oddio... Oddio oddio oddio...
Sto piangendo, è la prima volta che pubblico l'ultimo capitolo di una ff, devo farci l'abitudine, vah.
Avete vistooooo? EDWARD IS BACK! Mi pareva un po' ovvio che l'avrei fatto tornare a casa u.u E ora sono insieme *^*
Io avevo avvertito dei fazzoletti, eh eh u.u
Sono serviti? A me sì, taaaaaaaaaaaaaaaanto. Ho pianto come non so cosa scrivendo il capitolo, non è stato facile, ma ci sono riuscita.
Che dite, com'è? Ditemi ditemi ditemi *^* Magari con una recensioncina?
A proposito... Vi rendete conto di quanto siete cresciuti? ç__ç Insomma, venti persone nelle preferite, più di 40 nelle seguite...
Incredibile! Vedere così tanto entusiasmo per questa schifezzina qui... wow! Davvero. Non saprei come sdebidarmi!
Allora, io non vi so dire quando posterò l'epilogo, spero molto presto - prima dell'inizio della scuola (cavolo). Però domenica è il mio compleanno quindi xD Un po' di riposo posso meritarmelo, vero? u.u
Btw, spero che abbiate letto il pov Edward con il suggerimento musicale (non molto indicato, i know) perché mi ha aiutato a scriverlo (:
Ora... niente. Siamo quasi giunti alla fine, e per questo aspetto numerose le vostre recensioni... PLEEEEEEEEEEEEEEASE!
Cmq, ci leggiamo all'epilogo (che brutta parola çWç)
Attendo i vostri commenti <3
Besos,
Giulia.

   
 
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