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Autore: RubyChubb    20/02/2008    10 recensioni
Spinse con forza la porta di vecchio legno scuro e vetro. Una serie che pareva infinita di scricchiolii e mugolii accompagnò quel breve momento e, non appena anche l’ultimo centimetro del suo corpo fu all’interno, la richiuse. Uno tintinnio sottolineò la sua presenza: attaccati sulla porta, piccoli e di bronzo, delle piccole campanelle avevano suonato fin dal primo istante in cui la sua mano si era appoggiata sulla nera maniglia esterna.... -RubyChubb-
Genere: Generale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 9

Dream a dream, and what you see will be

 

 

Aprì gli occhi.
La luce glieli fece pizzicare pesantemente, si mise a stropicciarli.
Doveva essersi appisolato.
….
Intorno a lui sentì una sensazione strana, di torpore, non sapeva spiegarla bene, ma comprese che si stava trovando in un sogno.
Sì,  gli capitava spesso di sognare e di esserne perfettamente consapevole.
Era questo il bello dei sogni.
Ed anche l’amaro.
Perchè viveva la sua fantasia, sapendo però che era destinata a finire, da un momento all’altro, con uno schiocco delle dita.
Si guardò intorno.
Tutto era bianco.
Indefinito.
Era dentro ad una stanza vuota e bianca, di cui non vedeva né le pareti, né il soffitto sopra di sé.
C’era solo quel grande bianco che lo avvolgeva tenuemente.
“Georg…”, lo chiamò una voce dietro a lui.
La riconobbe, non ci fu bisogno che si voltasse per sapere che apparteneva a Mondenkind.
Solo allora il posto in cui si trovava prese forma.
Apparvero le pareti: stondate, come se la stanza fosse stata circolare, continuavano intorno a loro curvilinee, per unirsi poi qualche metro sopra le loro teste. Decorazioni su di esse, linee sinuose che partivano dalla base del pavimento ed arrivavano fino in cima.
Camminava su una grandissima lastra di marmo bianco: quel pavimento che vedeva sotto i suoi piedi non aveva un’imperfezione, una macchia.
Un grande letto, o forse un divano. Anch’esso bianco, tondo, ripieno di cuscini e di coperte bianche che scendevano morbide e toccavano terra. 
Su di essi lo aspettava Mondenkind.
“Ciao…”, le disse Georg, “Che piacere vederti sveglia...”
Lei sorrise, con le dita che andarono a coprire una parte di quella smorfia gioiosa. Abbassò impercettibilmente la testa, come imbarazzata da quel gesto di poco rispetto. Dileguò gli occhi felici altrove, prima di ripristinare la sua serietà.
“Mondenkind…”, le fece, ma lei lo interruppe con un cenno di mano.
“Non più.”, disse lei, scuotento lievemente la testa.
Georg ammutolì ma poi, in un lampo di ricordi, comprese.
“Sì... è vero!”, disse Georg, “Nel gioco che abbiamo fatto ti ho dato il nome di Mitternacht. Ti piace?”, le domandò. 
L'assurdità dei sogni: essere in una fantasia e tenersi sempre attaccati alla realtà.
“A te piace?”, domandò lei a sua volta, senza rispondere.
“Beh... è il titolo di una canzone ed è tanto strano quanto Mondenkind. Quindi è perfetto!”, scherzò Georg.
Mondenkind, o meglio, Mitternacht non rispose. Né sorrise. Non parlò nemmeno: stava semplicemente seduta sul suo letto, con le gambe piegate di lato sulla comoda rivestitura e coperte dalla lunga veste bianca. Un alone impercettibile contornava la sua figura, rendendola quasi evanescente, simbolica. 
Si stupì di come la sua immaginazione potesse averla trasformata da bibliotecaria bruttina a regale figura a lui sconosciuta. 
Sì, la Mitternacht del suo sogno sembrava veramente una regina. E quella doveva essere la sua camera privata. Chissà per quale assurdo motivo si stava trovando in quel sogno. Chissà a quale immagine nascosta nel suo inconscio aveva attinto la sua mente...
Poi, per uno strano processo mentale che non era riuscito a controllare, avanzò un'ipotesi.
“E quindi, in questo mio sogno,”, disse Georg, rendendosi conto della situazione in cui si stava trovando, “tu saresti l’Imperatrice Bambina… e io magari sono Atreiu. E adesso sono qui da te perchè ho trovato il Bastian di turno che sta per salvarti!”
Gli venne da ridere e lo fece molto volentieri. Ripensandoci, non stava poi tanto male con la divisa di quel personaggio...
Mitternacht scosse la testa.
“Tu sei Georg.”, disse lei, sorridendo, “E questo non è un sogno.”
Ah sì certamente, sbottò dentro di sè Georg. 
Sarebbe stato come chiedere ad un pazzo se pensasse di esserlo veramente. Era ovvio che quello rispondeva di no, che non era matto.

“E allora che cos’è?”, fece Georg, continuando nell'ilarità del momento.
Mitternacht poggiò i piedi sul pavimento freddo, si alzò e gli venne incontro. La sua veste, lunga fino a terra, era così bianca che pareva splendere di luce propria. Era larga e la copriva interamente, fermata con una fascia intorno alla sua esile vita. Un passo dopo l’altro, le punta delle piccole dita spuntavano dall'ampia gonna. I lunghi capelli neri, conosciuti sempre in una treccia, stavano liberi, lievemente mossi lungo la schiena. Un paio di ciocche invece le ammorbidivano le spalle fino al petto, mentre un fine nastro bianco le contornava la fronte.
Gli occhi, chiari come non mai, sembravano di vetro.
“Grazie per avermi dato un nuovo nome, prima che fosse stato troppo tardi.”, disse Mitternacht.
La sua voce suonava limpida e cristallina, non c’era l’ombra della timidezza che l’aveva contraddistinta quando l’aveva conosciuta.
Gli tornò a mente quando aveva immaginato suo nonno rincorrerlo con il giornale arrotolato e gli venne da sorridere ancora. Ma nessuna smorfia divertente trasparì sul suo volto: era totalmente frastornato dall'aura potente di Mitternacht. Poco più bassa di lui, lo sovrastava con la potenza che la sua esile figura sembrava emanare.
In quel momento, si sentì proprio come l'Atreiu che aveva citato con ilarità pochi attimi prima: sconfitto dinanzi a lei, non era riuscito a portarle il Figlio d'Uomo che doveva darle un nuovo nome, aveva fallito la Grande Ricerca. Si sentiva... inutile. E provava un terribile senso di sconforto.
Che sogno… 
“Beh… prego...”, disse Georg, ammutolendo.
“Per la prima volta ho davvero pensato che sarebbe svanito... Tutto..”, disse Mitternacht.
La sua voce riflettè una profonda tristezza che colpì molto Georg.
Da una parte, sapeva di essersi addormentato sulla sedia vicino al letto di Mondenkind.
Dall'altra gli pareva quasi che quell'immaginazione fosse troppo vivida per essere, appunto, un'immaginazione. L'empatia non era una caratteristica del suo carattere, anzi... ma era come se una sottile linea collegasse invisibilmente il suo cuore a quello di Mondenkind. Ed adesso che lei era triste, anche lui lo era.

“Perchè dici così?”, domandò, impaurito nel sapere la risposta.
In fondo, la conosceva bene.
“Le altre volte bastava che qualcuno leggesse il libro. Ed al momento giusto, tutti avevano saputo darmi un nome.”, disse Mitternacht, con la delusione dipinta sul suo volto.
Da pallido e senza vita, era di nuovo roseo. Di porcellana. Gli occhi così cristallini sembravano quasi finti, come quelli di una bambola.
“Come ho fatto io in ospedale?”, si azzardò a dire Georg, con ironia.
Meglio mantenere il contatto con la realtà.
Lei gli sorrise.
“Sì, proprio come hai fatto tu, Georg… Ma non mi sono mai dovuta esporre così tanto per attirare la tua attenzione.”
Attenzione? 
“La mia attenzione?!?”, sbottò il ragazzo, con aria perplessa.
Mitternacht annuì mestamente.
“Sì… è stato difficile... Tu non volevi starmi a sentire.”
Georg la guardò stupito.
“Beh… io….”, borbottò, sforzandosi di comprenderla.
“Rubasti il libro, come doveva succedere.", disse Mitternacht, "Iniziasti a leggerlo, ti appassionasti… ma poi lo riportasti nella libreria…", si preoccupò, "Fortunatamente tornasti a riprenderlo, ma comunque non capivi…”
Aveva ripercorso in un istante gli avvenimenti strani che lo avevano coinvolto.
“Non è stato facile lasciare il mio posto per stare vicino a te. Stavolta la Grande Ricerca del Figlio dell'Uomo che doveva darmi un nome nuovo non è stata compiuta da Atreiu. Stavolta Atreiu ha veramente fallito il suo compito... ed ho dovuto portarlo avanti io stessa, lasciando Fantàsia.”, disse poi.
Posto? Quale suo posto?

“Un momento!”, esclamò Georg, mettendo le mani in avanti, come per fermarla sul serio, “Se ho capito bene… e questo sogno non può essere più assurdo di così… tu, Mitternacht... sei... l'Imperatrice di Fantàsia?", era pazzesco, "E hai lasciato il tuo posto per stare accanto a me?!?", sbuffò divertito, "Dio mio… devo smetterla di mangiarmi la pancetta a colazione! Fanno male ai miei pisolini!”
Rise con forza. 
Di sogni strani ne aveva fatti… ma quello li batteva tutti!
Lei lo guardò.
Seria, risentita. Offesa.
Ma poco di tutto questo trasparì sulla sua faccia.
La sua figura, benché all’apparenza fosse piccola e fragile, trasmetteva un fortissimo senso di autorità e di importanza, ma soprattutto di regalità. Georg poteva vederlo, poteva sentire tutto questo. Lo notava nei suoi sguardi, nelle sue parole, nei suoi gesti e nel suo muoversi.
Quel sogno era terribilmente reale.
Era un viaggio mentale veramente sopraffino.
“Ho dovuto farlo. Tu non mi volevi ascoltare ed io avevo bisogno del tuo aiuto.”, disse Mitternacht, con voce profondamente solenne.
Non voleva darle spago. Avrebbe sentito solo assurdità fin troppo insopportabili anche per un sogno. 
Ma era mosso da una curiosità irrefrenabile.
Era sempre diviso tra due Georg: uno estremamente realista, consapevole del momento di sonno che stava vivendo. L'altro, invece, si attaccava alle parole di Mitternacht e pendeva dalle sue labbra. Voleva saperne di più a tutti i costi. 
Una sintesi portò Georg a continuare quella conversazione onirica, cercando però di rimanere il più distaccato possibile.
“Va bene… e perchè proprio del mio aiuto?”, disse, arrendendosi.
“Perchè tu eri l’unico che avrebbe potuto farlo. Avevi bisogno di me così come io di te.", gli disse, sorridendogli, "Ti ho osservato per tanto tempo, Georg. Ti ho visto perdere la speranza. Ti ho visto commettere errori, sono sempre stata con te.”
“Con me? Ma se io non ti ho mai visto!”, protestò lui, che adesso voleva davvero liberarsi di questo incubo.
Basta, era troppo.
“Ero con te quando hai preso il libro. Ero con te quando hai iniziato a leggerlo. Ero con te quando ti arrabbiavi. Sono stata con te sempre.”, disse Mitternacht, “Tu sai perchè sono dovuta venire in questo mondo. Tu lo sai.”
Georg si toccò la testa, come se quel gesto potesse aiutarlo a capire.
E perchè doveva saperlo?
“Dovrei saperlo davvero?”, fece.
“Sì… lo hai letto tu stesso nel libro…”, disse Mitternacht, abbozzando un sorriso, “Ogni minuto che passava, per colpa del fiume di menzogne che usciva da Fantàsia e si riversava sul mondo degli uomini, i nostri mondi si allontanavano sempre di più… e con questo anche la possibilità che tu mi aiutassi. Ho contravvenuto a delle regole immemorabili per venire qua, non volevo che i nostri due universi venissero distrutti per sempre. E mi sono sottoposta a rischi inimmaginabili. Ma alla fine ne è valsa la pena.”
Era inutile dire quanto tutto quello era suonato incredibile alle orecchie di Georg.
“Perché… perchè avresti scelto proprio me… non leggo, non mi piacciono le cose fantastiche!”, disse il ragazzo.
“Ho scelto te perchè sei speciale, Georg. Perchè tu hai la fiducia.”, gli rispose Mitternacht, “Forse pensi di averla persa, ma è ancora dentro di te.”
“Fiducia in cosa?”, fece lui, “Mitternacht, spiegati meglio!”
“Hai fiducia in ciò che sei. In ciò che vuoi essere e in quello che sarai. Ma stavi vivendo in un mondo mangiato dal Nulla. Qua, dove vivo io, le mie terre stavano scomparendo. Da voi, nel mondo umano, stavano mancando i sentimenti, le emozioni, rimpiazzate da bugie e da menzogne. Eppure tu, così come tantissime altre persone, in fondo al tuo cuore non demordevi, hai sempre sperato in qualcosa di meglio per te... E per il tuo gruppo...", disse Mitternacht, intensificando voce e sguardo, "Ed io avevo bisogno di qualcuno come te.”
No... non lui...
“Perchè non gli altri? Magari un bambino come Bastian!”, fece Georg, “Con qualcuno così sarebbe stato più facile!”
“Ma sei stato tu a volere entrare nella libreria…”, disse Mitternacht, sorridendo con semplicità.
Georg guardò intorno a sé, cercando un appiglio a cui aggrapparsi. Una folla di domande, di punti interrogativi, aveva saturato la sua mente. Non sapeva più quale di queste porre in un senso minimamente logico. Tirò fuori la prima esclamazione che gli salì in bocca.
“Tu... Tu sei una persona reale! Mi  hai toccato, ho sentito il calore della tua mano! Sei vera! E tuo nonno! Anche lui è vero,  è vivo!”
“Mio nonno? Il signor Metternich?”, fece Mitternacht.
“Sì, proprio lui!”, confermò Georg, con sicurezza.
“Io non ho genitori.", disse Mitternacht, "E questo tu, in fondo, lo sai... Tu sai che io esistevo anche prima di Fantàsia stessa. Lo hai letto nel libro... E se non ho genitori, non ho nemmeno dei nonni.”
Georg rimase allibito.
“Non è vero, l’ho visto con i miei occhi! Tu e lui siete di carne ed ossa, non siete immaginari!”, dichiarò Georg, parlando così velocemente da confondersi per un pazzo, "Nella realtà tu sei Mondenkind e sei in un lettino d’ospedale, in attesa che ti curino… e ti ho dato un nuovo nome solo per scherzo, perché avevo la canzone di LaFee in testa!"
La faccia di Mitternacht si fece lievemente dubbiosa. Ma era come se fosse aspettata da sempre quella reazione di totale incredulità.
Non si scompose e tornò a parlare.
“Quando entrasti nella libreria… e vedesti la poltrona voltata…", disse lei, "Pensasti subito ad un vecchietto, grassoccio, con la pipa ed anche un po’ antipatico. Non è vero? Poi la poltrona si voltò... Ed ecco il signor Metternich. Tu volevi che il signor Metternich avesse quell’aspetto", e si preparò con un sospiro, "E tu hai creato la libreria… un pezzo alla volta…”
Georg non capiva, non comprendeva niente di tutto quello che Mitternacht diceva. Gli ci vollero diversi secondi prima di potersi raccapezzare di nuovo. Era totalmente frastornato.
“Un momento…", realizzò poi, "Come fai a sapere che io ho veramente immaginato un libraio del genere prima di vedermelo apparire davanti… tu non puoi leggermi nella mente!"
Mondenkind gli sorrise.
“Il mondo di Fantàsia si costruisce di sogni, desideri e di volontà. Tu volevi un libraio fatto in quel mondo e lo hai avuto. Io te l’ho dato. Sogna un sogno, e quello che vedrai diventerà realtà. Per venire qua ho dovuto creare un varco, un pezzo di Fantàsia in cui poter stare. E, come ti ho appena detto, Fantàsia vive delle voste fantasie. La libreria era un piccolo frammento del mio mondo dentro al vostro e tu, grazie alla tua immaginazione, lo hai formato, gli hai dato vita. Non posso entrare nella vostra vita umana se non siete voi a volerlo. Questa è la legge fondamentale che regola i nostri rapporti.”
“Ma tutto questo non ha senso!”, sbottò Georg, portandosi le mani tra i capelli.
“La libreria… il libraio… sono fatti come vuoi tu , Georg. Li hai inventati tu. Noi siamo del mondo di Fantàsia e prendiamo la forma che voi umani volete farci avere.”, gli ripetè nuovamente Mitternacht.
“Ma la libreria è vera! Esiste veramente!”, protestò Georg, con forza.
Mitternacht scosse la testa.
“Se vuoi che esista, essa esisterà. Tu volevi un riparo per fuggire da quelle ragazze che ti stavano inseguendo. E io volevo che qualcuno come te venisse ad aiutarmi, ma non potevo farlo da sola, avevo bisogno che tu lo volessi. Io ho fatto la libreria, tu ci sei voluto entrare dentro per salvarti…. E così hai salvato anche me. La mia volontà non si concretizza finchè essa non coincide con la vostra.”
Mio dio, quel sogno stava sfidando le leggi dei Freud.
Sentì il cuore impazzirgli nel petto. Lo sentiva rimbombare nelle orecchie, nel cervello. Le vene gli pulsavano nelle mani, diventate improvvisamente calde.
“Mitternacht…”, disse Georg, “Devo essere sincero… io voglio svegliarmi.”
“Lo vuoi veramente?”, fece lei.
La risposta tardò ad arrivare. 
Georg non sapeva cosa fare, né cosa dire. Aveva ancora tantissime domande che sbattevano nella sua mente.
Cercò di appellarsi al poco di razionalità che sapeva di avere ancora in sè.
“Se voi di Fantàsia siete fatti come noi vogliamo…”, disse poi, “Allora anche tu sei come io voglio che tu sia… Io ti vedo come ti voglio vedere. Il tuo aspetto, quello vero, è del tutto diverso… ”
Mitternacht scosse la testa.
“Questa sono io.”, disse.
“Ma nel libro i capelli dell’Infanta Imperatrice sono talmente biondi da sembrare bianchi… e poi è una bambina… e tu sei una ragazza.”, le fece notare Georg.
“In passato mi hanno descritto come un drago. Come un mostro. Una sirena, un falco, una stella. Persino come una dea. Ma io ho sempre avuto questo aspetto. Io esisto così.”, disse Mitternacht.
“In passato?”, chiese Georg, sempre più in difficoltà.
 “Il libro è soltanto uno dei mille modi per entrare in contatto con voi.”, gli spiegò Mitternacht, “Prima di quello ce ne sono stati altri, centinaia di altre storie come quella. E tutte avevano la stessa funzione. Catturarvi per aiutarci. Le parole sono il mezzo che abbiamo per stregarvi, se così si può dire. Scritte o parlate, sono magiche. Una parola, presa da sola, non ha tutto questo potere. Ma un insieme continuo ed ordinato di lettere, parole, frasi, capoversi e capitoli può fare questo. E molto altro.”
Georg ascoltava tutto quello che usciva delicatamente dalla bocca di Mitternacht.
E comprese.
Lei, con quelle parole, lo stava stregando.
Gli stava facendo credere che ora, come in passato, Fantàsia era stata salvata più volte da persone come lui, che le avevano dato un nome nuovo.
Gli stava facendo credere che la libreria non era mai esistita prima del momento in cui lui, inconsciamente, aveva voluto che comparisse davanti ai suoi occhi, per entrarci dentro e sfuggire dalle fans che lo inseguivano, e che era stato lui a particolareggiarla, con la sua fantasia.
Gli stava facendo credere che il signor Metternich, suo nonno, era come lo vedeva perché lui, prima di veder voltare la poltrona, se lo era immaginato in quel modo. Vecchio, piccolo e burbero.
Gli stava facendo credere che lei, Mitternacht, prima conosciuta come Mondenkind, era l’Imperatrice Bambina ed era venuta nel suo mondo reale per riuscire ad avvicinarlo e fargli dire il nuovo nome che l’avrebbe salvata, perché altrimenti lui non ci sarebbe riuscito.
Gli stava facendo credere che lui, Georg Moritz Hagen Listing, era stato da lei stessa scelto perché aveva la fiducia, come lei l’aveva chiamata, perché aveva la speranza…
Doveva svegliarsi…
“Ma che bella storia!”, esclamò Georg, “Veramente! Non ho mai fatto un sogno così reale e ben dettagliato. Se mi svegliassi e mi ricordassi di tutto questo, potrei dedicarmi alla scrittura invece che alla musica!”
Mitternacht tornò ad offendersi per le sue parole e si incupì.
“Scusami… no volevo farti arrabbiare…”, disse Georg, vedendola corrucciarsi.
Ma ci si poteva sentire in colpa per aver offeso qualcuno in un sogno?
“Adesso vuoi ancora andartene?”, gli chiese Mitternacht.
Ancora Georg esitò nel darle una risposta.
Mitternacht, vedendolo indeciso, gli si avvicinò ancora di più.
Gli prese le mani.
Georg sentì ancora il calore pervaderlo, dalle mani fino al cuore.
Era un caldo profondo, indescrivibile, vero, come quello che aveva percepito quando lei l’aveva toccato, qualche giorno prima, nella libreria.
Era un caldo che riempiva tutti i vuoti.
Era un caldo cosciente di esserlo.
Un caldo che… stregava.
“Hai dato un nuovo barlume di speranza ai nostri due mondi.”, disse Mitternacht, “Te ne sarò infinitamente grata.”
Gli sorrise ancora, come aveva fatto tantissime altre volte, in quell’immaginazione. Poi alzò gli occhi, verso la cupola di quello strano posto e la indicò, con la punta del suo dito.
Georg seguì titubante la direzione del suo sguardo e vide come un piccolo buco aprirsi sulla sommità del soffitto. Le pareti, silenziose come non mai, si mossero. L’apertura prese ad allargarsi e le mura intorno a loro si abbassarono, come i petali di un fiore che stava sbocciando, in primavera.
Il bianco candore che aveva illuminato la sua vista lasciò lo spazio alla notte. Non vide altro che stelle sopra la sua testa, grandi, incredibilmente luminose, ed un plenilunio lucente. Poi abbassò lo sguardo e intorno a loro apparvero, nella penombra lunare, montagne innevate, deserti roventi, pianure desolate e colline ondeggianti.
“Wow…”, fu l’unica parola che uscì dalla sua bocca.
“E’ tempo per te di svegliarti, adesso.”, disse Mitternacht.
“Ma dove siamo…”, fece Georg, estasiato dalla vista di tutti quei punti luccicanti nel cielo, tanti finissimi diamanti gialli.
“Secondo te?”, chiese retoricamente Mitternacht.
La Torre D’Avorio per caso?”, cercò di indovinare, ma non ricevette alcuna risposta, né di assenso, né di diniego.
“Ricordati Georg.”, disse poi Mitternacht, “Fa ciò che vuoi.”
“Ok…”, disse lui, sorridendo vagamente.
I contorni di Mitternacht diventarono sempre più labili e inconsistenti, finchè sparì completamente dalla sua vista. Così accadde anche al posto in cui si trovava e anche a…

 
“Signore… signore si svegli!”, disse qualcuno, che nel frattempo lo stava scuotendo per le spalle.
Georg alzò il viso e, con qualche difficoltà, aprì gli occhi impastati.
“Signore, l’orario delle visite è terminato, deve lasciare la stanza.”, lo informò di nuovo l’infermiera.
“Ah…”, disse lui, quando ebbe recuperato le sue facoltà mentali.
Realizzò di essere nella camera di Mitternacht… di Mondenkind.
Era ancora distesa sul letto, davanti ai suoi occhi. Sempre nella medesima posizione. Controllò il suo respiro, si accertò che stesse bene. Le toccò la fronte, come se volesse sapere se aveva la febbre. Almeno quello sarebbe stato il segno che dentro di lei quella strana e sconosciuta malattia si stava agitando, invece di rimanersene nascosta.
E si ricordò del sogno appena fatto…
Un insieme di circostanze fortuite avevano portato a farlo vivere quel viaggio onirico senza precendenti. Mondenkind che stava male, il libro sul comodino… tutte quelle analogie e così via.
Nel mentre che concretizzava il suo stato, l’infermiera lo esortò ancora a lasciare la stanza e Georg, con educazione, salutò Mondenkind con un gesto di mano ed un sorriso. Con il libro tra le mani, si riavviò verso casa.
 

***

Concluse la lettura in pochissime ore.
Appena tornato a casa, prese il libro e lo bevve, letteralmente. Una lettera dietro l’altra, una parola dietro l’altra, una pagina dopo l’altra. Arrivò alla conclusione.
Ma il libro non sembrò dissetarlo, affatto.
Bastian, con al collo Auryn, ridette vita a Fantàsia attraverso i suoi desideri ma, paradossalmente, si perse dentro di essa, insieme ai frammenti della sua memoria. Quello che lui creava, attraverso la propria volontà, diventava vero, nel presente e nel passato di Fantàsia… In altre parole, quando lui desiderava una cosa, essa esisteva e sarebbe sempre esistita, anche nel passato stesso della cosa.
Concetto difficile da capire per Georg, ma non potè fare a meno di collegare questo difficile concetto con quello che gli aveva detto Mondenkind nel sogno… Lui aveva voluto un posto in cui nascondersi per liberarsi dalle fans che lo inseguivano? Ed esso era esistito.
Era spuntata fuori la libreria.
‘Sogna un sogno e questo diventerà realtà…’, aveva detto Mondekind.
Un’altra cosa lo aveva colpito abbastanza…
Negli ultimi paragrafi del libro, quando Bastian ritornava dal signor Koreander, scopriva che anche il vecchio libraio aveva conosciuto, a suo tempo, l’Imperatrice Bambina e le aveva dato nuovo nome. E Koreander gli spiegò anche, come aveva fatto Mondenkind, che c’erano tantissimi altri libri che avevano il potere di portare il lettore nel mondo di Fantàsia… Dipendeva solo da chi li leggeva, perchè non in tutte le mani essi diventavano magici.
L’ultima importante riflessione. Forse la più fondamentale.
In un prologo immaginario, Georg si ricordò alcune cose che aveva studiato alle scuole superiori per la materia psicologia. I sogni spesso andavano a scavare nei meandri dei ricordi e quindi tutto quello che ci si immaginava, durante la notte, era qualcosa che era rimasto impresso nella mente, ma accantonato. Quindi, per essere coerenti, quello strano sogno/incubo doveva aver fatto riferimento a dei ricordi dimenticati, a dei concetti che doveva aver trovato nel libro ma di cui non rammentava.
Eppure, Georg si era fermato a metà lettura. E tutto quello che era uscito dalla bocca di Mondenkind era impresso nelle pagine da lui ancora inesplorate prima di quel sogno... e che solo ora aveva letto.
Non aveva potuto quindi sapere quelle cose.
Il sogno era il suo, lo aveva partorito la sua mente. Se non aveva letto quei capitoli, e sapendo anche che non aveva tutta la fantasia per inventarsi cose del genere, come poteva Mondenkind, o Mitternacht, avergliele raccontate per filo e per segno?
Era tutto così complicato ed indecifrabile, tanto da farlo pentire di non essere diventato psicologo come avrebbe voluto da piccolo…
Ma era stato solo un sogno.
E tale doveva rimanere, per quanto razionalmente assurdo.
Il cellulare squillò, riportandolo alla realtà. Era David.
Senti Georg…”, gli fece, dopo che ebbe risposto, “Ho bisogno che domani veniate in studio… tanto per metterlo in chiaro.”
Già.
Metterlo in chiaro.
Scrivere nero su bianco che erano finiti.
Arrivederci e grazie.
“Va bene.”, disse, sospirando le parole, “A che ora?”
Le undici?”, suggerì l’altro.
“Perfetto.”
E riattaccò.

***

“Hey, Georg…”, lo prese alla sprovvista David, “Sei malato di Parkinson?”
Era arrivato con circa una mezzora di anticipo all’appuntamento stabilito e stava aspettando che tutti gli altri arrivassero.
Seduto in sala relax, rimuginava su tantissime cose… e su nessuna di queste.
Basta pensare, basta riflettere, si era detto un attimo prima che David lo interrompesse, esaudendo il suo desiderio.
“No…”, disse lui, interrompendo il tic alla gamba, “Sono solo un po’… nervoso.”
“Sì… lo siamo tutti.”, disse David, sedendosi di fronte a lui con aria stanca, a braccia conserte.
 “Mi dispiace per quell’intervista…”, disse Georg, sentendosi totalmente mortificato.
Se c’era stata una possibilità di salvezza per il gruppo, era stata totalmente infranta dalla sua ingenuità.
“Scusa la finezza ma… Helen te lo ha messo mezzo metro nel culo!”, sbottò David, in uno sprazzo di triste ironia.
“Sì… hai proprio ragione, David… ma almeno tu mi credi, gli altri tre non ne vogliono saperne.”, fece Georg, affondando nella comodità del sofà.
David annuì mestamente.
“Non ci rimane altro che aspettarli.”, disse poi.
L’attesa durò solo una decina di minuti. Gustav e di Kaulitz arrivarono quasi contemporaneamente.
Le bocche totalmente inespressive dei gemelli, con gli occhi tappati dai loro occhiali da sole, sommate alla completa piattezza della faccia di Gustav, fecero temere a Georg il peggio. Cioè una nuova litigata.
Erano lì per guardarsi negli occhi e dire: È finita?
Perché girarci intorno facendo le facce incazzate?
Lunghi momenti muti seguirono l’entrata dei tre e continuarono per tutto il tempo in cui si sedettero di fronte oppure accanto a lui.
Georg si rischiarì la voce con l’intenzione di parlare, di scusarsi ancora, ma poi ritrasse le sue intenzioni. Meglio lasciar parlare loro, anche se non sembravano intenzionati a farlo.
“Ragazzi, ho convocato una conferenza stampa per l’una, nella sala conferenze dell’Hilton.”, disse David, esortando l’inizio di una conversazione.
“Mh, bene.”, disse Bill, stuzzicando l’occhio destro sotto il suo occhiale.
“Comunque… insomma, prima di arrivare là… formalizziamo la cosa tra di noi.”, disse David.
Georg non volle ammetterlo, ma David aveva la voce lievissimamente rotta. Solo una lieve increspatura, quando aveva detto ‘la cosa tra di noi’.
“Sì, mi sembra giusto.”, disse Gustav, con aria apparentemente rilassata.
“E’ finita?”, chiese retoricamente Tom.
Cinque paia di occhi che si muovevano, in cerca del fatidico segno di approvazione sulle facce altrui.
Ma né un sì orale né uno scritto sulle espressioni del viso risuonò tra quelle quattro mura.
Bill si alzò e, incrociando le braccia, uscì dalla sala relax.
Georg si toccò stancamente le tempie. Aveva un mal di testa pazzesco.
Tom sospirò e dopo un frettoloso ‘scusateci’, raggiunse il fratello.
“Ehm… allora ci vediamo all’Hilton all’una?”, domandò Georg.
Dopo aver ricevuto un cenno di testa positivo da David, lasciò lo studio.  

 

Scansò l’accettazione, sapeva dove si trovava Mondenkind, non se lo era certo dimenticato in una notte. Incrociò il dottore che aveva conosciuto il giorno precedente e lo salutò con un salve e con un sorriso, ricambiato gentilmente dall’uomo. Era l’ora delle visite, i corridoi erano solcati non solo dai passi dei dipendenti della struttura sanitaria, ma anche da quelli dei parenti, con i loro fiori, i loro pupazzetti ed i cioccolatini a portata di mano.
Eccola, la stanza di Mondenkind era quella di fronte a lui.
Bussò, attese che qualcuno rispondesse, poi ne aprì uno spiraglio. Intravide il letto.
Vuoto.
Vuoto
Aveva sbagliato camera.
Si guardò intorno. Era sicuro che la camera fosse la dodici ed infatti sulla porta troneggiava quel numero.
Magari Mondenkind era stata trasferita... forse le sue condizioni si erano aggravate…
Fermò il primo infermiere che si trovò sotto tiro.
“Mi scusi?”, gli domandò, “La ragazza che stava in questa stanza… dove si trova adesso?”
L’infermiere riflettè un attimo.
“Chiedo al dottore.”, disse e si congedò con un sorriso.
L’ansia stava salendo dentro Georg.
E se fosse peggiorata?
E se la stessero operando?
E se fosse… fosse…
“E’ proprio sicuro che cercasse il paziente della dodici?”, gli fece uno dei dottori del reparto, avvicinatosi a lui dopo la segnalazione dell’infermiere.
“Beh… sì, a meno che non abbia sbagliato stanza. La paziente comunque si chiama Mondenkind…”
“Cognome?”
Cercò di ricordarselo, ma non ci riuscì.
Io non ho genitori… rimbombò quel frammento di sogno nelle sue orecchie, scacciato immediatamente.
“Non me lo ricordo.”, disse Georg rammaricato.
“Beh… che io sappia nessuna Mondekind senza cognome è stata in questo reparto. Nemmeno per una notte sola.”, disse il dottore, facendo spallucce.
“Ma come?!”, esclamò Georg, “E’ stata ricoverata qui proprio ieri, era in coma, non si sapeva che cosa aveva di preciso…”
“Guardi che questo è il reparto geriatrico.”, disse il dottore, “Non la rianimazione. Provi a vedere se la trova lì, è al decimo piano.”
“No, dottore, sono sicuro che si trovasse in questo piano, alla stanza dodici.”, ripetè Georg, con fermezza.
“Senta, non so cosa dirle. Vada giù in accettazione e chieda a loro. Sicuramente le banconiste lo sanno meglio di me.”, disse l’uomo, lasciandolo ai suoi dubbi per tornare a camminare lungo il reparto.
Come un razzo, Georg  si precipitò al bancone.
“Proviamo a cercare questa Mondenkind…”, disse la ragazza svogliata all’accettazione, mettendosi la penna in bocca. Digitò il nome, attese qualche attimo il caricamento della pagina, “Niente. Nessuna Mondenkind è mai stata curata in questo ospedale.”
“Riprovi! Non può essere!”, tentò ancora Georg.
La ragazza lo fissò asetticamente, poi premette di nuovo un pulsante nella sua tastiera.
“Com’è che Georg Listing desidera tanto vedere questa Mondenkind?”, chiese poi lei, appoggiando i gomiti sul legno della sua scrivania, con fare ammiccante.
“E’ una mia amica…”, la seccò lui.
La ragazza lanciò una nuova occhiata allo schermo.
“Niente.”, disse poi, “Ancora nessuna tipa dal nome strano in questa clinica.”
Lasciò la banconista prima ancora che potesse finire il suo discorso.
Pazzia.
Quella era tutta una pazzia.
O Mondenkind gli aveva dato un nome falso… E perchè mai avrebbe dovuto farlo?
Era stata trasferita in un altro ospedale? Ma allora perchè non risultava nei registri dell’accettazione?
Perchè una ragazza in coma era sparita nel nulla, volatilizzata?
Si era lamentato dell’incomprensibilità del sogno che aveva fatto, ma quello che stava vivendo era addirittura surreale. Fino al giorno precedente Mondenkind era stesa su quel lettino, ora non c’era più e nessuno pareva si fosse accorto del suo passaggio. Poteva una persona passare inosservata in quel modo?
In quel momento l’unica spiegazione plausibile era che Mondenkind non era il vero nome di quella ragazza. Ma perchè? Perchè aveva dovuto mentirgli? Per quale motivo?
Salì frettolosamente in macchina, doveva andare alla libreria.
Infranse diversi limiti di velocità, un paio di volte passò con il semaforo che da giallo era appena diventato rosso.
Parcheggiò in divieto di sosta. Correndo come un matto, ripercorse i vicoli conosciuti finchè si ritrovò in quello giusto, in quello della libreria.
Prese un profondo respiro e fece un passo dopo l’altro.
Si avvicinava sempre di più alla metà del vicolo.
Ma ad ogni movimento, la constatazione di quello che pulsava nella sua testa lo rendeva incredulo. Era impossibile.
Toccò il muro nel preciso punto in cui, fino al giorno prima, c’era stata la porta della libreria.
Adesso, invece, c’erano solo mattoni, impilati sfalzatamente uno sopra l’altro, e circondati di collante calcestruzzo.
Un muro.
Nient’altro.
Non c’era nulla.
Doveva aver sbagliato vicolo. Era ovvio.
Tornò indietro, verso la macchina, sicuramente nella corsa aveva confuso le strade fitte. Con tremolante calma, ripercorse il labirinto.
Di nuovo, il muro.
Solo rossi mattoni e alcune finestre ai piani superiori.
Pazzo. 

Era totalmente pazzo.


Faccio il salto nel buio sperando che nelle vostre menti ci siano pochissimi dubbi sul viaggio all'LSD di Georg...

Beh, ad ogni modo vi ripeto la solita cosa: se non capite, chiedete, sarò felice di rispondere!

Questo è il penultimo capitolo, il prossimo porterà quiandi la dicitura FINE. Lascio i ringraziamenti alla prossima volta, sperando che nessuno dei vostri cervelli si stia accartocciando nell'incomprensione!

Alla prossima,
RubyChubb

   
 
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