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Autore: Nicky Rising    04/02/2015    1 recensioni
L'autobiografia della più grande rockstar degli anni '90, Minnie, in arte Aree Monroe, diventata famosa grazie al suo produttore Axl Rose e alle sue molteplici collaborazioni con i Guns N' Roses. Ripercorriamo insieme alle sue stesse parole le emozioni, e la strada che l'ha portata al successo insieme agli uomini che lei stessa, ancora oggi, definisce come i più importanti della sua vita.
Aree sono io e siete voi: prendendo spunto solamente dai sogni, un personaggio e una storia, che spero vi possano appassionare. Mia prima long degna del termine!
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Axl Rose, Quasi tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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1991,  Marzo  “Kansas – Carry On My Wayward Son”
 
Mi svegliai, sudata, in un oceano di coperte in cui mi sentivo soffocare. 6.30. La sveglia avrebbe suonato dopo circa un’ora, ma era inutile riprovare ad addormentarsi, temevo che mi sarebbe ricomparsa l’immagine di quel sogno orribile. Una folla di persone grigie, tutte uguali, che si muovevano perfettamente insieme sulla stessa strada che non portava da nessuna parte. Una di quelle persone ero io, inutile, come le altre. Non c’era colore. Né su di me, né sugli altri. Poi, d’improvviso, il sole pallido in quel cielo triste, scompariva. Buio, nero. Solo il mio respiro, una risata, un urlo, un viso grigio che avanzava sempre di più verso di me, sempre di più …
Maddalena entrò nella mia stanza: undici anni appena compiuti, ma dimostrava così poco con quell’orsetto tra le braccia e il broncio sul volto.
“Ehi?”
“Ehi..”, le sorrisi, per rassicurarla “Ti ho svegliato?”
“Hai urlato”
“Brutto sogno.. Torna a dormire Maddy..”
Annuì e sparì come un ombra nel pigiama troppo grande di mio fratello maggiore.
Di nuovo sola, immersa nella fioca luce dell’alba. Odiavo quei sogni, troppo realistici, troppo simili al futuro che mi terrorizzava. Sedici anni e ancora non ero riuscita a dimostrare nulla, troppi sogni nel cassetto e nessuno che potesse aiutarmi a tirarli fuori.
Troppi pensieri, troppe speranze.. Nulla di concreto, paura.. e poi perché mia sorella aveva il pigiama di Jack..

La sveglia trillò puntuale, facendomi istintivamente allungare un braccio verso il comodino per spegnerla. Scuola, di nuovo. Poi a casa, pranzo veloce, compiti, lezioni di musica, cena, letto. Routine. Persona grigia che cammina su una strada sempre dritta e senza meta. Come nel mio sogno.
La voce di mamma che mi chiama, l’odore di cappuccino nell’aria.
La prima cosa a cui pensai, mentre bevevo la mia tazza di caffè a fianco a mio fratello che non la smetteva di rubarmi i biscotti, fu il concorso di canto di cui, il giorno prima, il direttore della mia scuola di musica mi aveva parlato: avrei avuto delle selezioni la settimana seguente, ed ero stata avvisata circa due giorni prima, ma ormai ero abituata a tutte quelle informazioni che arrivavano all’ultimo minuto, non mi stupivo né preoccupavo più, funzionava così: ti preparavi una canzone in due giorni, se convinceva, ok, se no, eri fuori. Davi il massimo di te stesso per poi sentirti dire che non era abbastanza da sconosciuti presentati come “Giudici Esperti”. Questo era il “mondo dei concorsi”, dove ero sempre arrivata ad un punto interessante senza mai vincere, senza mai aver guadagnato nulla da nessuno di essi, ma non potevo rifiutare. Se l’avessi fatto mi sarei pentita per mesi pensando ad un’altra opportunità mancata per diventare qualcuno.
L’unico aspetto che, però, mi affascinava di questo nuovo concorso, era che ci sarebbe stato un giudice straniero di fama internazionale, di cui ancora non avevano rivelato il nome, probabilmente perché ancora loro non avevano trovato nessuno, ma qualsiasi cosa esterna alla mentalità chiusa italiana, mi rendeva piuttosto curiosa.

Non volevo andare a scuola. Avrei potuto non andarci, farmi lasciare da mamma vicino all’ingresso e poi farmi un giro altrove. Il giorno dopo avrei falsificato una firma ed era fatta.
Peccato che, semplicemente, non ero quel tipo di persona. Io facevo quello che gli altri volevano: studentessa modello, ragazzina cortese, grande studiosa sia a scuola che per la musica. Intanto, però, coloro che erano andati contro le più importanti regole del sistema, erano i miei più grandi idoli e sognavo di diventare come loro.
Pensieri contorti in una vita che non si capiva se era facile o difficile, ero stanca.
Musica nelle orecchie, “Paradise City”, Guns N’ Roses, di nuovo. Sparii nel mondo che quella canzone descriveva: la Città del Paradiso, dove le ragazze sono carine e l’erba è verde.  
Quando quel mercoledì partecipai alle audizioni, c’era solo una giurata. Una donna, capelli grigi, corti, ma stranamente giovane. A provare quelle selezioni eravamo in venticinque, provenienti da tutta la mia regione. Ventiquattro avrebbero finito subito il loro percorso.
Entrai nella stanza, mi posizionai su un piccolo palco allestito per l’occasione.
“Nome?”
“Minerva”
Lanciai un’occhiata allo specchio che si trovava in fondo alla stanza, davanti al palco. Che cavolo ci facevo lì? Quello non era il mio posto, non volevo cantare per una persona sola, tra l’altro annoiata e corrotta, volevo cantare per centinaia di persone, in lacrime, stanche, distrutte, ammaliate, incantate e unite nell’unica cosa che gli interessava in quel momento: la mia voce.
“Quanti anni hai, Minerva?”
“Sedici”
Lei prese nota su di quaderno alzando un sopracciglio. Sono troppo piccola? Non dimostro sedici anni? Lo so. Però almeno lasciami cantare..
“Comincia pure”
Cantai You Give Love a Bad Name, dei Bon Jovi, così come mi avevano chiesto, senza trasgredire regole, senza stupire in maniera eccessiva. Ero io, con la mia voce, ero brava, ero molto brava, ma non lasciavo mai abbastanza il segno.
Quella volta, però, alla fine delle selezioni, la giurata uscì con in mano i risultati e lesse il nome della ragazza che sarebbe arrivata in semifinale.
Il mio.

Non succedeva mai, non era mai successo. Io ero quella che aveva tutte le carte per riuscirci, ma non ci riusciva comunque. Io ero sempre stata quella che piaceva, ma non stupiva, e non capivo il perché. Semplicemente, c’era sempre qualcuno che era migliore di me. Poi parlavo con qualcuno che mi diceva che avrebbero dovuto scegliere me, che ero ad un passo dal riuscirci.
Invece, quella volta ero al primo posto, e mi avevano chiamato. Probabilmente, quello che mi fece passare fu il fatto che, per la prima volta, avevo scelto una canzone che amavo, che sapevo di poter cantare, in cui mi rispecchiavo. You Give Love a Bad Name era un brano uscito nel 1986, dove il cantante urlava contro la ragazza che gli aveva rovinato la vita, che aveva dato “Un nome cattivo all’amore”. Per quanto quella band non mi avesse mai più di tanto appassionata, avevo scelto quella canzone perché mi ricordava l’ultima storia seria che avevo avuto con un ragazzo: risaliva circa due anni prima, quando ne avevo quattordici, e ancora riuscivo a pensare a quanto fosse stato orribile condividere un periodo della mia vita con una relazione sbagliata. Ero piccola sì, ma ci avevo creduto sul serio, e, poi, semplicemente, lui mi fece capire come invece non gliene importasse niente. Io ero la bambina innamorata e lui il ragazzo più grande che si comportava da uomo vissuto e che, una volta trascorsi più di un paio di mesi con la stessa ragazza, passava ad altro. Mi sentii così tradita dai miei stessi sentimenti, da non accettare più nessun altro, per paura che fossero tutti così. E quella canzone, era per lui, era tutta per lui. Era un’arrabbiata richiesta di ascolto, in cui lo accusavo di avermi presentato l’amore come una cosa sbagliata.
E, forse, con questa rabbia, riuscii a passare. Quindi forse dovevo anche ringraziare quel ragazzo, perché finalmente ero riuscita a comunicare qualcosa che ai giudici era piaciuto. Grazie.
Raggiunte le semifinali fu tutto più difficile. Eravamo troppe, ragazze di tutte le età provenienti da tutt’Italia. Quattro giudici, cinque minuti ad esibizione: nome, età, canzone, saluti, avanti il prossimo. Così. E la gente si aspettava che qualcuno riuscisse a trasmettere qualche emozione in un clima del genere, così freddo, ostile verso le stesse concorrenti. Ma era ovvio: i giudici diventavano cordiali solo con quelle che arrivavano in finale, quando ormai il loro lavoro era finito, quando potevano semplicemente godersi uno spettacolo con delle belle voci e delle belle canzoni e, poi, sceglierne una a caso perché era quella raccomandata. Semplice.
Ma quello che successe in semifinale fu l’inizio della fortuna sfacciata che mi fece raggiungere i miei sogni, perché anche qui, dopo la mia breve comparsa sul palco, mi selezionarono per la finale.

Non credevo al destino. Pensavo che se una persona voleva fare qualcosa la faceva e basta, che non dipendeva dalle decisioni degli altri, che eri solo tu. La sola idea che il libero arbitrio, in realtà, fosse tutta una finzione, mi spaventava, mi faceva pensare ad una prigione lunga quanto la vita stessa. Pensavo che se non potevo avere libertà nemmeno su di me, allora era tutta un’immensa fregatura. Da quel momento, però, quando riuscii a passare anche quella selezione raggiungendo la finale, iniziai a pensare che se quel dannato destino esisteva e se gli veniva voglia di farti diventare qualcuno, allora ci riusciva, punto.
E il mio destino sembrava essersi straconvinto di poter avverare il mio sogno.
Allora ignara del vero motivo per il quale passai tutte quelle selezioni, iniziai ad elaborarmi ipotesi e teorie sempre più complicate: per esempio, iniziai a pensare al fatto che i sogni non si avverano mai, che sono un traguardo e che se tutti li raggiungessero smetterebbero di sperare in qualcosa, smetterebbero di faticare per raggiungere quello che vogliono, smetterebbero di vivere. Ecco perché i sogni non si realizzano. Allo stesso tempo, però, l’uomo potrebbe rendersene conto, così, smetterebbe di lottare comunque, perché ormai sa di non poterci riuscire e il problema è lo stesso. Ecco perché arrivai alla conclusione che un sogno ogni tanto si realizza, per cercare di mantenere accesa quella speranza. Quindi: io ero colei che era stata scelta dal cielo per far brillare quella luce  di speranza per gli altri. Ed un’ulteriore prova di questo mio ruolo, mi arrivò pochi minuti dopo, quando mi dissero chi sarebbe stato il giudice straniero, di fama mondiale che ci avrebbe ascoltati alla finale.
“Ok, voi quattro andrete a Milano, i miei complimenti. Vorremmo comunicarvi l’ultima importante informazione prima di salutarci.
Finalmente, abbiamo trovato il quinto giudice e mai un concorso ha avuto l’onore di ospitare un personaggio di tale importanza. Il signor Axl Rose, cantante dei Guns N’ Roses, sarà l’ultimo che valuterà il vostro potenziale, il suo voto varrà moltissimo, il suo parere sarà quello che, sommato ai nostri, vi porterà alla vittoria”
Svenni.
Sì, come quelle ragazzine idiote che durante i concerti di Frank Sinatra crollavano dopo avergli visto schioccare le dita, facendogli guadagnare il soprannome di Swoonatra.
Divenne tutto nero e crollai a terra. L’ultima ricordo che ho di quel momento sono un giudice che si alzava in piedi dal tavolo da cui stava parlando e le altre tre finaliste mettersi le mani davanti al viso. Poi, nero.

Quando mi risvegliai ero stesa sui sedili posteriori dell’auto di papà.
“Minnie?”
Borbottai qualcosa, rotolandomi su me stessa per trovare una posizione più comoda.
“Ehi, sei sveglia.. Siamo quasi arrivati a casa.”
“Cos’è.. non..”
“Calmati, hai avuto un calo di zuccheri improvviso, quelle selezioni erano così stancanti.. Pensa a quelle che non sono state prese, ore di attesa per sentirsi dire solamente no.”
In un attimo, mi tornò alla mente il vero motivo per cui ero svenuta:
“Ma.. Axl..?”
“Sì, è il quinto giudice. Sei felice eh? Se sapesse che la tua camera è tappezzata di sue foto ti farebbe vincere subito, non credi?” Rise.
Mi guardai le mani: erano di un colore più simile alla neve che ad altro. Ma non quella neve candida che si vede nei cartoni animati, quella vera, fredda.

Tornata a casa mi ritrovai circondata dal resto della famiglia: la metà voleva farmi i complimenti per essere riuscita a passare, l’altra cercare di capire se rischiavo di accasciarmi a terra nuovamente. “E’ così debole e fragile..”, già, quel dettaglio descritto dai medici aveva ricominciato a farsi vedere da un paio d’anni: a volte mi svegliavo, la mattina, e persino l’alzarmi in piedi mi sembrava un’impresa impossibile. Dettaglio che probabilmente era anche stata la causa di quel crollo. Troppe emozioni, troppa stanchezza, troppo esercizio per dare il meglio e troppe ore passate ad aspettare i risultati con un insopportabile vuoto nello stomaco.
Comunque, ero ancora viva, e anche la serata di quella finale, arrivò.

Era giugno. Ultima settimana di scuola. Non che me ne importasse molto, della scuola. I miei compagni erano solo persone annoiate, come me, ma, a differenza loro, io avevo un obiettivo ben definito, i loro sogni erano, invece, semplicemente l’andare a ballare il sabato sera su quelle dannate canzoni orecchiabili che infestavano la radio.
Il giorno della finale, dovetti presentarmi a Milano nel primo pomeriggio, anche se lo spettacolo si sarebbe svolto alle otto di sera. Sarebbe andato in diretta in tutta Italia, tutti i vecchietti che si addormentano a metà trasmissione, l’avrebbero visto. Mi accompagnarono mamma, papà, Andy, mio fratello maggiore di diciassette anni, con cui mi trovavo sempre d’accordo su tutto, Maddalena di undici e Cristiano di otto.
Il rapporto che avevo con Andy era una semplice vera amicizia. Quando eravamo piccoli, all’incirca a otto e nove anni, a volte, durante i temporali, io, spaventata dai tuoni, mi infilavo nel suo letto, nella stanza accanto. Lui si svegliava, e dormivamo insieme, abbracciati. Divenne quasi un’abitudine per me: temporale, uguale letto di Andy, tant’è che, con il passare del tempo, mamma e papà dovettero dirmi che non era opportuno che io dormissi con mio fratello. Me lo spiegarono come se il problema fosse la mia paura per i tuoni, non che una bambina non potesse dormire con il suo fratellino, maschio, maggiore. Quello non era “opportuno”, no, ma allora non potevo capirlo. In realtà, i miei genitori, non sapevano che, a volte, mi infilavo ancora nelle sue coperte, per esempio quando ero preoccupata per qualcosa, o quando mi venivano in mente cose spaventose che non mi lasciavano dormire. Allora andavo da lui, e parlavamo, tanto, lui mi raccontava qualcosa e io ascoltavo fino a quando non cadevo addormentata.

I giudici mi fecero fare una brevissima prova sul palco e poi mi indicarono i camerini in cui avrei aspettato fino a sera, i miei parenti potevano farsi un giro per Milano, io sarei stata lì, segregata in quegli stanzini.
Rimasi per un po’ nella mia camera, per ambientarmi, e un po’ anche perché, come situazione, mi ricordava moltissimo i backstage delle rockstar, dopodiché, uscii nei corridoi. Sentii delle voci, delle risate di ragazze, probabilmente altre concorrenti che avevano già socializzato. O meglio, che fingevano di volersi un mondo di bene quando ognuna di loro, in realtà, sperava solo di vincere su tutte. Volevo andare anche io con loro, salutarle, essere cortese e ammazzare un po’ il tempo, ma le mie gambe non mi ascoltarono e girarono per un altro corridoio. Sapevo cosa stavano cercando. Dopo aver perso più volte l’orientamento, arrivai, finalmente, a quel camerino. Sulla porta, in lettere maiuscole, era scritto “W. AXL ROSE”.
Sentii parlare da dentro, americano stretto, non capivo, ma la voce era la sua, così come l’avevo sentita per tutto quel tempo nelle sue canzoni. La maniglia scese, qualcuno stava per aprire la porta dall’interno, senza neanche pensarci mi allontanai velocemente e mi appostai dietro ad un muro, come una bambina.
La porta si aprì. Pantaloni di pelle, maglietta a maniche corte bianca, cintura borchiata, stivali che tintinnavano ad ogni passo per via dei fronzoli metallici. I capelli rossi, lunghi, un po’ spettinati che gli scendevano fin sotto alle spalle. Una bottiglia in mano. Si voltò, mi vide. Io ero ferma immobile a fianco di una parete, che lo guardavo. Alzò la bottiglia nella mia direzione, come per un brindisi, e sorrise dietro agli occhiali da sole specchiati. Io rimasi immobile, lui riabbassò la bottiglia e si allontanò in un altro corridoio, barcollando leggermente.

“Wow, deve essere stato magnifico, anch’io non vedo l’ora di vederlo!”
“Anche tu sei una sua fan?”
“Beh, non proprio, non ascolto molto, sai, quel genere di musica, ma, insomma, è così bello!”
Sorrisi, anche se avrei preferito correre il più lontano possibile da quel dialogo. Le altre ragazze continuavano ad annuire e a fingere delle espressioni stupite mentre raccontavo del mio incontro con Axl.
Il tempo passò così, tra chiacchiere futili di ragazze provenienti da tutta Italia: la maggior parte erano più grandi di me e sapevo che la mia giovane età non mi avrebbe aiutato a vincere.
Iniziarono le esibizioni delle altre, io mi sarei esibita per ultima, classico.
La tensione continuava a crescere, fino a quando non chiamarono il mio nome.
Salii sul palco, riflettori puntati sugli occhi, intravidi Axl tra quella luce insopportabile, stava giocando con delle penne sul tavolo dei giudici, gli occhi bassi, sembrava assolutamente fuori posto.
Nella platea, invece, vidi delle braccia sventolare, la mia famiglia.
C’era più gente del solito, c’era troppa gente.
“Buonasera Minerva”
Mi voltai verso la giuria. Sorrisi.
“Come stai?”
Silenzio. Non ci voleva molto a rispondere “Bene, grazie”. Ma non ci riuscii. Guardai Axl, che ora mi guardava e sembrava divertito dal mio imbarazzo.
“Direi che sei emozionata! Beh, è normale quando si è così giovani..”
Primo avvertimento che non avrei vinto, troppo piccola e sensibile. Non smisi di sorridere, ma abbassai lo sguardo, ci stavo facendo un’orribile figura.
“Che brano ci proponi stasera?”
“You give love a bad name dei Bon Jovi”
Questo lo seppi dire. Qualcuno nella folla applaudì urlando. Grazie Rocker.
“Prego..”
La band che ci avevano dato a disposizione per suonare le canzoni cominciò, le luci scesero, ed io iniziai a cantare. Ritrovai immediatamente la grinta di cui avevo bisogno per intonare quel pezzo. Appena cominciai il primo ritornello, Axl alzò lo sguardo da sotto gli occhiali da sole e iniziò a prestarmi attenzione.
Finii la canzone, il secondo passaggio dell’esibizione consisteva nel cantare un altro brano proposto sul momento dalla giuria, se lo conoscevi lo cantavi, se no te ne proponevano un altro, ma togliendoti punti utili per la vittoria.

Bene, bene, bene. Splendido direi. Pagato profumatamente per fare questo lavoro del cazzo, e guarda un po’ cosa mi ritrovo davanti. Insomma, effettivamente, non so cos’abbia di così particolare, ha una voce fuori di testa è vero, ma se cercassi troverei di sicuro persone più brave, eppure..
Cosa? No, dai , illuminami. Eppure cosa? E’ una brava bambolina, tutto qui!
No, è una ragazza. Ed è anche molto bella.
Finiscila!
Ma la sua voce e.. sono gli occhi, sono gli occhi quell’eppure.
Hai bevuto troppo. Questa ragazza è per te come la musica dei Pink Floyd dopo una pasticca di LSD. Ti sembra solo meglio di quello che non è..
Se solo avessi modo di provare a capirla di più.. Un modo per metterla alla prova.
Oh, ma che cazzo ci faccio in questa giuria. Soldi, mi faccio sempre ingannare dai soldi, non ho nessuna voce in capitolo qui. Ma se non avessi accettato non avrei.. Sentito la sua voce.. E ora.. Basta, ora ci divertiamo un po’. Fottiamo il sistema.


Uno dei giudici prese la parola sorridendo sicuro:
“Benissimo, Minerva, la prossima canzone che vorremmo che tu cantassi è..”
“Civil War, Guns N’ Roses.”
Axl si era avvicinato al microfono ed aveva parlato con una fermezza spiazzante.
Il pubblico si voltò verso di lui, con espressione stupita, stessa cosa fecero gli altri giudici.
Ma lui continuava a guardare me. Il giudice che aveva parlato per primo riprese la parola ridendo forzatamente:
“Signor Rose, i brani per i concorrenti sono decisioni prese da..”
“Le canzoni vengono scelte in base alla loro voce, credo che Civil War sia perfetta. Vai bimba, comincia.”
Il forte accento americano, i modi scortesi con cui aveva interrotto il giudice al centro del tavolo, quel nomignolo, bimba e la canzone, tutto mi aveva lasciato spiazzata. Civil War era uno degli ultimi brani dei Guns, uscita come singolo nel giugno del 1990, estratto dal loro nuovo album che sarebbe uscito a settembre di quell’anno.
“Minerva, perdonaci, ora risolveremo..”
“Io so la canzone. La canto. Va bene, per me.”
Avevo trovato il coraggio per reagire. Non potevo sprecare quell’occasione.
I giudici si guardarono, Axl continuava a fissarmi, avrei voluto guardarlo negli occhi, ma non ci riuscii.  Dopo qualche minuto di attesa, Axl si riavvicinò al microfono.
“Quanto altro ci vorrà? Anch'io sono un giudice! Cominciate a suonare Civil War e non parliamone più..”
Sembrava stufo: gli altri giurati si diedero un’ultima occhiata e alla fine sospirarono e annuirono.
Lui, sembrò soddisfatto e si riappoggiò allo schienale della poltrona.

Cantai Civil War quasi meglio dell’altra canzone, intravidi gli occhi di Axl rimanere puntati su di me, sorrideva. O forse me lo stavo solo immaginando. Non capivo più nulla.
Era bellissimo, tutte quelle persone mi stavano ascoltando.
Finita anche questa performance ascoltai i verdetti, i primi tre giudici più o meno dissero la stessa cosa: “Hai una voce veramente potente, forte, che ascolterei per ore, riesci a trasmettere grandi cose, ma.. Sei giovane, puoi migliorare ancora, diventare più brava, tornerai quando sarai sicura e pronta per vincere”
Prevedibili.
Fu la volta di Axl:
“Non capisco. Questa ragazza ha una voce incredibile, ed è piccola.. Quanti anni ha scusa? Diciassette? E questo non le dà ancora più.. merito, si dice? Ok, quindi, bimba, non ascoltarli, davvero.. Se migliori da come sei adesso, diventi Aretha Franklin..”
I giudici fulminarono Axl, ma il pubblico si alzò in piedi ed applaudì. Mi fecero un cenno veloce da dietro alle quinte: la situazione non si stava evolvendo come avrebbero voluto, quindi tornai nel backstage.
Mi chiusi nel camerino. Non me ne fregava niente di niente della mia esibizione, del fatto che non avrei mai vinto. Axl aveva detto che cantavo bene, cazzo. L’aveva detto sul serio. Axl Rose. Dio.
Sentii bussare alla porta, dopo non so quanto tempo in cui ero rimasta a fissare il soffitto sorridendo e ripensando alle sue parole. Ogni tanto avevo sentito qualcosa dal presentatore della serata, probabilmente, erano giunti alla pausa che precede il verdetto finale. Ancora seduta a dondolare su quella sedia girevole, risposi tranquilla, pensando che si trattassero dei miei genitori.
“Si?”
“Posso entrare, bimba?”
Mi alzai di scatto. Quella voce.. Non sarà che.. Aprii la porta. Me lo ritrovai davanti a pochi centimetri di distanza, la mia altezza mi costringeva a guardarlo dal basso, la mia fronte arrivava al suo mento.
Axl entrò. Si sedette sulla poltrona in cui prima mi ero accomodata io e appoggiò la sua fedele bottiglia sul pavimento.
“Ciao”
Sì, era nel mio camerino, si era messo comodo e mi aveva appena salutato. Avrei dovuto ringraziarlo per quello che aveva detto dopo la mia esibizione, dirgli quanto amavo lui e le sue canzoni, quanto i Guns fossero il mio gruppo preferito, ma me ne uscii semplicemente con un sorriso imbarazzato, senza nemmeno ricambiare quel saluto, troppo emozionata per reagire diversamente.
Si tolse gli occhiali, finalmente riuscii a guardargli quegli occhi verde chiarissimo da vicino. Non riuscivo a smettere di sorridere.
Parlò lentamente, cercando di fare meno errori possibili in quella lingua per lui così diversa.
“Mi dispiace che non hai vinto”
“Ah, beh, non..”
“Tu hai tanto talento, più di tutti quegli altri.”
Di nuovo sorrisi, incapace di rispondere. Lui si chinò e raccolse la sua bottiglia, bevve l’ultimo sorso, poi ne guardò il contenuto controluce e fece una smorfia quando si accorse che era vuota.
“Sai cosa? Ti voglio con me.”
“In.. in che senso?”
“Vieni con me. Los Angeles. No?”
Risi, forzatamente, pensavo fosse una battuta, ma lui mi guardò, era serio.
“Senti, ti impari l’inglese e ti insegno qualcosa, un anno e poi ti lascio andare: famosa, superstar, rockstar. Prodotta da me. Io ci guadagno soldi, tu ci guadagni fama, mi pubblicizzi un po’ la band e io ti mando a calci in culo nel mondo della musica.”
Rimasi senza fiato. Ma cosa stava succedendo? Era tutto così fuori luogo. Perché Axl non era con gli altri giurati a decidere il vincitore? Perché era nel mio camerino a farmi proposte folli?
“Senza parole, bambolina?”
Annuii sconcertata:
“Signor Rose, posso chiederle una cosa?”
“Certo, bimba, quello che vuoi, ma chiamami Axl”
“Lei.. è ubriaco, vero?”
Mi sorrise, un sorriso storto, ma il suo sguardo era buono.
“Tesoro, dovrai imparare una cosa:
io sono sempre ubriaco.”
  
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