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Autore: DonnaEliza    23/10/2015    1 recensioni
"La verità è che a colui che gli dèi vogliono distruggere, ma distruggere davvero, non viene data in dono la follia, bensì l’immortalità.
Ma immagino che Euripide non potesse saperlo."
"Mi chiamo Julian. Sono morto a trentadue anni. Da allora, perdonatemi la battutaccia, tiro a campare."
Genere: Introspettivo, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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So che lo state aspettando: un uomo solo da mezzo secolo, una donna che non si sente amata da quasi dieci anni; la letteratura vi ha allattato con storie di vampiri sentimentali, sensuali, spregiudicati. Sono legati al sangue, alle pulsazioni nelle vene. Sensibili al calore dei vivi. Le loro labbra fremono sulla pelle degli uomini, bevendo il calore del desiderio. Bramano, vogliono, addentano. Quando un vampiro si nutre, il suo corpo si contrae e freme, gli occhi si girano nelle orbite e la sua vittima gode con lui. Il sangue è la vita, cibarsene è un orgasmo. Tutti vogliono quel morso.
Non funziona così. La nostra sete non è spasmodica, somiglia più al cerchio alla testa che viene quando non si è bevuto in una giornata di intenso sforzo fisico: magari non vi sentite assetati, ma il vostro corpo vi dice forte e chiaro che qualcosa non va. Vi sentite opachi, di malumore, come dopo una sbronza. E bere non è l'estasi, solo il reintegrare elementi che vi mancavano. La mente si schiarisce, gli ingranaggi vengono oliati. Io sento il petto che si dilata; non so come sia per gli altri, non l'ho mai chiesto, né loro a me. Sono sicuro che fra di loro ne parlino, ma con me no: mi trattano da eminenza grigia, presumono che io abbia tutte le risposte e di conseguenza non mi pongono domande; vogliono scoprire le risposte da sé. Anche Doris, che non aveva che me con cui rapportarsi, si limitava ai quesiti sulla meccanica. Forse per educazione, non chiedeva mai nulla che potesse essere intimo, e per anni non ha raccontato niente di sé. Io  non ci vedevo niente di strano: ero cresciuto e vissuto in un'epoca in cui le donne erano congegnate per apparire come affascinanti enigmi, perfettamente funzionanti eppure imperscrutabili, e quando ero morto il loro mistero era passato ben più che in secondo piano nei miei interessi. Il trasporto che sentivo per Doris era dovuto al mio bisogno di non essere più solo, ma a ben guardare non mi interrogavo sul suo più intimo sentire. Oggi, passerei per egoista. Nel millenovecentocinquantasette, come nel millenovecentododici, non c'era niente di strano nel mio comportamento. Quando Thom ci trovò, una delle prime cose che ci chiese fu se Doris fosse la mia ragazza. Ricordo che Doris non disse nulla. Io la guardai, cercando un indizio nel suo silenzio, e il suo viso era perfettamente immobile nel collo di pelliccia del soprabito, modellato in un'espressione cortese. Non mi guardava, ma non guardava neanche Thom. Mentre cercavo qualcosa da dire, lui cambiò argomento e noi seguimmo la sua scia come sul pelo dell'acqua. Thom ha spesso quest'effetto sulle persone intorno a lui, le manipola anche quando non vuole, e in quel momento eravamo comunque più incuriositi da lui che dalla natura del nostro rapporto. Ma, Doris era mai stata la mia ragazza? Certamente no: noi non eravamo ragazzi. Lo siamo forse adesso, per i tempi che corrono, quando i trentenni dividono ancora gli appartamenti come tanti studentelli e cominciano appena a prendere in considerazione il matrimonio, ma io e Doris per la nostra età eravamo adulti a tutti gli effetti, sposati da anni. Avevo avuto la mia prima figlia a ventun anni; nella mente mia e di Doris il tempo dei fidanzati, degli spasimanti, era passato da un pezzo. “Ragazzo” e “Ragazza” erano due termini moderni per relazioni ancora più fatue e superficiali: in nessun mondo possibile Doris sarebbe mai stata la mia ragazza. Non è però questo, che mi state chiedendo; lo so, ma vi prego di capire che non ci sono spiegazioni semplici, nella nostra condizione. Siamo impossibili scherzi della natura: persone che sono morte eppure si aggirano ancora sulla terra, da anni. Ognuno di noi ha subito il trauma più surreale che si possa immaginare: avete idea del giardino botanico di nevrosi che può germogliare nella mente di una persona che ha sperimentato quel che è capitato a noi? Siamo stati educati nella nostra epoca, e poi abbiamo continuato ad esistere al mondo senza poter invecchiare. Pensate agli anziani: viene un momento in cui smettono di tenersi al passo e si abbandonano alla comodità di poter dire “ai miei tempi...”. A noi non succede: siamo costretti ad aggiornarci continuamente, a recitare per sempre l'età che dimostriamo, ma i nostri vent'anni sono passati da decenni, ormai, e per quanto possiamo far nostri gli ideali della contemporaneità, sotto sotto saremo sempre uomini del nostro tempo, di quando eravamo vivi. Siamo paradossi in carne ed ossa, incatenati alla manutenzione del nostro corpo mentre ci alleniamo a riconoscere sentimenti che ormai proviamo solo col cervello, e non conosciamo altre persone che i nostri simili. Voi vi state chiedendo se sono mai stato innamorato di Doris: quanto tempo avete, per la risposta?

Per quattordici anni, non ho conosciuto che lei. Siamo vissuti insieme da quando ci siamo incontrati; il suo viso è quello che ho guardato più a lungo e più spesso, in più di cento anni. Le ho scattato centinaia di fotografie e ho schizzato il suo ritratto altrettante volte, per il semplice motivo che lei era lì. Era sul piccolo divano color carota del soggiorno, con le gambe raccolte sotto di sé mentre leggeva una delle riviste di moda che non ha mai smesso di accumulare da quando l'ho portata via con me. Era in bagno, protesa verso lo specchio sopra il lavello mentre si passava il filo interdentale. Era al tavolo della cucina mentre si sottoponeva ad uno dei suoi interminabili trattamenti di bellezza, con la faccia e le mani coperte di crema cosmetica, i capelli avvolti nella pellicola per la cucina. Lei era la mano che saliva ad aggiustare l'orlo del fazzoletto al mio collo quando rischiava di scivolare scoprendo la cicatrice; ha riattaccato i miei bottoni e preteso che imparassi ad intendermi d'idraulica. La mia esistenza, per quattordici anni, ha compreso la sua. Non abbiamo mai concepito un'alternativa, non ci è mai passato per la mente di vivere separati, allo stesso modo in cui ad una rondine non verrebbe mai l'idea di scavarsi, per nido, un buco nella terra. Eravamo simili; c'eravamo solo noi. Dovevamo stare insieme, era questa la nostra natura: l'avevamo deciso noi. Quanto altro ci restava, di cui fossimo in controllo?
Certo che mi piaceva: era acuta, e con gli anni diventò brillante. Era ignorante, ma diventò colta. Era graziosa, e la mania per la moda che sviluppò negli anni la rese elegante. Avrei potuto essere molto più sfortunato, nella lotteria del mio primo compagno, ma so che sarebbe andato bene chiunque. In molti imparano ad amarsi, all'interno di un matrimonio combinato.
Abbiamo ballato insieme centinaia di volte - quickstep, tango, swing: nominate un ballo, noi l'abbiamo imparato. Facevamo pratica nel nostro salotto, ascoltando la radio o un disco comprato appositamente, prima scalzi e poi con le scarpe. Quando eravamo abbastanza sciolti, andavamo a ballare fuori. Truccata, Doris non era diversa da qualunque donna: abbiamo passato i nostri primi anni insieme in un periodo in cui il make up per una serata mondana era tutto fuorché leggero, e il colorito di Doris scompariva sotto fard e ciglia finte. Io, sfortunatamente, continuavo a sembrare un malato di tisi, ma questo semmai contribuiva a tenere la gente alla larga da me, piuttosto che ad osservarmi con attenzione.
E' facile divertirsi ballando, quando non ti viene mai il fiatone. Durante i lenti Doris appoggiava il viso sul mio petto; con i suoi capelli sotto il naso la facevo ridere bisbigliando descrizioni poco lusinghiere delle chiazze di sudore che ornavano le camicie degli altri ballerini o della ragazza che si stringeva al suo partner senza sapere di essersi cancellata mezzo sopracciglio strofinando teneramente il viso sulla spalla di lui. Quando diventavo troppo perfido, lei si scioglieva dall'abbraccio e mi dava un colpetto di rimprovero sulla spalla destra – sempre la destra, sempre tenendo la mano ben tesa, con tutte le dita unite - e mi diceva che avevo una linguaccia velenosa. E sempre, io ribattevo “tranne che con te”. Allora ci sorridevamo, io le facevo un complimento e lei si fingeva imbarazzata.
Tornavamo a casa tenendoci a braccetto: le regole dell'intimità erano diverse, in quegli anni. Se c'era una cosa su cui una donna poteva contare erano le galanterie, spontanee o artefatte che fossero: cedere il passo, tenere aperta la porta aperta e aiutare una donna a scendere da una vettura erano gesti che venivano compiuti in automatico e non sottendevano a niente. Io, che venivo da un'epoca ancor più cerimoniosa, ne ero anche più prodigo della media degli uomini. Chiamavo Doris “cara” e “mia diletta” e con cento altri nomignoli. Lei, invece, mi chiamava sempre per nome: sembrava provare un autentico piacere nello scandirlo, e faceva cadere pesantemente l'accento sulla prima sillaba: Juuulian. Le facevo il verso di rimando.
Una volta rientrati, seguiva sempre un meticoloso rituale durante il quale lei si svestiva, indossava una vestaglia e passava poi in bagno, restandoci quasi un'ora: si toglieva il trucco, riponeva le ciglia finte dopo averle lavate e pulite minuziosamente e si lavava i capelli, su cui poi applicava una maschera che teneva in posa nel turbante di un asciugamano. Nel frattempo anche il viso veniva coperto da qualche impacco, a volte oleoso, a volte di un'argilla che seccando conferiva al suo viso la rigidità di un gesso mal modellato. Io restavo a guardare affascinato, seduto sul bordo della vasca da bagno. Aveva cercato di tenermi fuori dal bagno un'infinità di volte, ma alla fine si era arresa e come pegno da pagare mi costringeva ad ungermi le mani di vaselina e a tenerle infilate in un vecchio paio di guanti di cotone per almeno venti minuti, per ridare sollievo alla pelle indurita da settant'anni di incurie. Aveva cercato di convincermi ad adoperare il suo trattamento per i capelli (lo comprava in farmacia e aveva un odore di petrolio che la profumazione aggiunta non riusciva a coprire del tutto), ma io avevo resistito, votandomi tenacemente alla mia brillantina. Con gli anni, avrei capitolato, quando l'esigenza del restauro avrebbe tolto di mezzo i pretesti della vanità.
Venivo cacciato dal bagno solo quando tutti gli impiastri sul corpo di Doris erano maturi al punto giusto per essere lavati via. Allora, mentre l'acqua cominciava a scorrere dietro la porta chiusa, andavo in camera e mi toglievo gli abiti della serata, puzzolenti di fumo e di tutti gli odori che una sala da ballo gremita poteva appiccicarci addosso. Restavo in maniche di camicia in attesa che Doris emergesse dal bagno, minuscola nell'accappatoio di spugna e con un nuovo asciugamano intorno alla testa. Quando lei finiva le sue abluzioni io iniziavo le mie, e nel giro di due ore ci ritrovavamo vestiti da capo di tutto punto. A quel punto, uscivamo di nuovo. In abiti comodi, con i piedi calzati in scarpe morbide che non facessero rumore, andavamo fuori città, nei prati lasciati a maggese al limitare dei boschi. Camminavamo anche un'ora o due, a seconda delle stagioni, per uscire a sufficienza dall'area urbana. Poi, continuavamo a camminare, molto adagio, dando ai nostri occhi il tempo di abituarsi all'assenza di luce elettrica. Passeggiavamo cauti nei boschi, evitando fronde e rami caduti, o li costeggiavamo vagando per i campi azzurri di luna. Sedevamo sulla riva di stagni e laghetti, muovendoci meno dei giunchi che crescevano attorno a noi. Aspettavamo, pazienti, il nostro spettacolo personale.

Cervi che spuntavano dal bosco in un silenzio fantastico per venire a brucare nei prati, muovendosi con la lentezza di un sogno -e com'erano grandi! Alti quanto una mucca a volte, e con musi lunghi quanto il mio avambraccio; i loro piccoli, nella stagione delle nascite, erano minuti come statuine e sgambettavano nell'erba come caprette, sconcertati dalla lunghezza delle loro zampe. A volte, una volpe o due attraversavano il nostro campo visivo, tanto veloci da lasciare quasi una scia arancio pallido nell'erba. Nei boschi, ci  sorprendevamo sorvegliati da gufi, allocchi e barbagianni, che seguivano il nostro passaggio ruotando la testa come automi ben oliati; se ci soffermavamo a sostenere il loro sguardo, ci squadravano con aria di rimprovero. I tassi transitavano rumorosamente, senza curarsi dell'etichetta, come tanti vecchi brontoloni; a volte abbiamo visto una femmina seguita dalla nidiata, un pugno di fagottini soffici che trotterellavano ordinatamente al seguito della madre. Il nostro odore non allarmava gli animali, che ci giravano al largo per decenza, più che per precauzione. Sedendo nei prati, imbambolati dal placido vagabondare dei conigli al pascolo notturno, più volte siamo stati annusati indifferentemente. Vedevo Doris mordersi le labbra per la voglia di allungare una mano e accarezzare il naso di un daino o dare una grattatina tra le orecchie di una volpe, ma era troppo pericoloso: un morso da un animale selvatico avrebbe potuto cacciarci in guai seri. Così Doris si torceva le dita, e quando la bestiola di turno si era allontanata, con un sospiro di desiderio frustrato si lasciava cadere contro il mio fianco. Io la abbracciavo consolandola con esagerata sollecitudine e baciandola in fronte o sul naso.

Prima o poi, andavamo a letto. Il nostro era un appartamento da sposini, e il letto era uno, di quelli che ai nostri giorni passerebbero a malapena per una piazza e mezzo, con la testata e la pediera impiallacciate in radica, lineari e delle assurde zampette coniche divaricate che non ispiravano alcuna fiducia. Non ci siamo mai infilati sotto le coperte, tuttavia Doris cambiava le lenzuola puntigliosamente ogni settimana; pure, dai cuscini e dal materasso esalava tenacemente un odore di pensionato, di soggiorni brevi. Ogni volta che mi alzavo controllavo di non aver lasciato niente di mio sul copriletto o sotto il cuscino, con l’inconscio timore che la donna delle pulizie potesse intascarlo. Per anni abbiamo usato il letto a turno, per pudore: Doris dormiva quando io ero al lavoro, probabilmente con la testa costellata di bigodini. Col passare degli anni, la confidenza ha avuto la meglio: ci mettevamo a letto a leggere insieme finché uno dei due non si addormentava o trovava altro da fare. Ascoltavamo la radio. Era anche il luogo in cui ci raccontavamo dei nostri passati; lì Doris venne a sapere di quando, pochi mesi dopo essere morto, il bisogno di compagnia mi aveva spinto a frequentare gli ospedali, tenendo compagnia ai malati come una crocerossina volontaria; di come poi me ne fossi servito per evitare l'arruolamento nella prima Guerra e di cosa mi ero inventato per scampare anche alla seconda; di come mi avesse sconcertato osservare, negli anni, l’evolversi della moda femminile, i capelli che si accorciavano, i corpi che venivano rivelati come alberi spogliati da un autunno irriguardoso. Parlavo quasi sempre io: Doris aveva così poco da raccontare! L’impressione della prima sigaretta fumata, l’invidia per i bei capelli della sorella minore, un paio di corteggiatori con i quali non si era mai decisa a fare coppia fissa; il matrimonio, la luna di miele in una località sciistica con l’inconveniente di una storta alla caviglia durante una passeggiata in alta montagna. L’aborto e quel pugno d’anni prima di morire e questo era tutto. Non sapeva di cosa parlarmi, di fronte ai trentaquattro anni di avventure post mortem che potevo vantare io, finiva a raccontarsi con tono di scusa, spesso chiudeva il discorso spazzando via le parole con il gesto di una mano, “dimentica tutto, sono solo sciocchezze”. Certo che lo erano, ma che importava?  Le stringevo la mano, fissavo il soffitto e aspettavo che continuasse. A volte lo faceva, altre volte no. A volte, mi addormentavo.
Una di queste volte, successe.
   
 
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