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Autore: delilaah    09/01/2016    1 recensioni
Dietro ad un nome si possono nascondere molte cose: un viso, un carattere, un lavoro, un'anima. In questa storia tutto ruota intorno ad un nome elegante e aggraziato ed alla ragazza che porta quel nome. Ma in fin dei conti si può mentire su tutto, non trovate? Soprattutto quando quel nome nasconde dei segreti che non possono essere raccontati.
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4. Miraggio

 

 
“Ho passato tanti anni in una gabbia d' oro, si forse bellissimo, ma sempre in gabbia ero. Ora dipenderò sempre dalla tua allegria, che dipenderà sempre solo dalla mia, che parlerà di te, e parlerà di te. E’ solo che quando non ritorni ed è già tardi e fuori è buio, non c'è una soluzione questa casa sa di te. E ascolterò i tuoi passi e ad ogni passo starò meglio e ad ogni sguardo esterno perdo l'interesse, e tanto ti amo”
(E fuori è buio – Tiziano Ferro)








Stando a quello che viene scritto nei vocabolari, il miraggio è “quel fenomeno ottico dovuto a rifrazione e riflessione totale di raggi luminosi sugli strati più bassi dell'atmosfera, per cui oggetti lontani appaiono come librati nell'aria o come riflessi in uno specchio d'acqua”. Ancora, in senso figurato, “illusione, speranza effimera”.
Era successo tutto un po’ in fretta, quasi all’improvviso: la telefonata, le valigie, il taxi, l’aeroporto, il volo d’andata. Louis se n’era andato nell’arco di un paio di giorni, forse tre. Non avevano nemmeno parlato granché durante il periodo di lontananza: non che lei se lo aspettasse o lo esigesse, per carità, però le sembrava quantomeno doveroso metterla al corrente degli eventuali spostamenti, dei progressi – se c’erano stati – e delle litigate che era sicura avrebbe intrecciato con gli altri ragazzi. E invece niente, silenzio stampa o quasi.
A pensarci bene venticinque giorni alla fine non sono un periodo di tempo lunghissimo o insopportabile o inaccettabile: sono poco più di tre settimane. Ma lui sarebbe dovuto tornare prima. La cosa che forse la rammaricava di più era la sensazione che il tempo le stesse letteralmente scorrendo davanti agli occhi, come una specie di pellicola invisibile, che procedeva lenta ma inesorabile. Parecchie volte in quei venticinque giorni avrebbe voluto premere l’immaginario pulsante “Pausa” per prendere fiato e capire la situazione. Invece tutto quello che poteva, o doveva, fare era aspettare. Aspettare che lui chiamasse, aspettare che lui rispondesse, aspettare che lui tornasse, aspettare che tutto finisse.
Mentre inseriva la chiave nella toppa a colpo sicuro ripensava a quando quel mazzo di chiavi le era stato consegnato ed alla sicurezza con cui aveva affermato che non le sarebbe mai servito. Si sbagliava.
 
*
 
«Quindi insomma, io parto» le disse Louis con lo sguardo basso e le mani in tasca, mentre si stringeva forte nel suo giubbino in jeans ben foderato, «Non che mi piaccia o che voglia farlo, però ci andrò, credo tu lo sappia già.»
Lydia sorrise, stringendo la sciarpa che le cingeva il collo. Il mese di Dicembre a Londra era forse il mese più critico dell’anno per quanto riguardava il freddo: niente di quello che indossava sembrava darle sollievo contro il freddo pungente, da nativa americana. Avesse dovuto chiedere a Louis invece, il freddo che le indolenziva le ossa sarebbe semplicemente stato definito “arietta”, come diceva spesso.
«Perché ridi?» domandò il giovane, voltandosi a malapena.
«Non rido. Sto ascoltando in silenzio, elaboro.»
«Elabori? Già lo sapevi, sai che novità.»
Lydia sorrise di nuovo senza rispondere. La sua non voleva essere una mancanza di educazione, era solo che, molto spesso, risultava difficile trovare qualcosa da dire in risposta: Louis aveva quella caratteristica vena polemica e vagamente acida che rendeva la conversazione difficile, ma non impossibile.
«Sì, lo immaginavo, ma con te non si può mai sapere. Prima dici bianco, e poi diventa nero. E’ faticoso starti dietro, sai com’è.»
«Mah, non saprei.» rispose lui frugando nella tasca dei pantaloni. In effetti non poteva darle granché torto, dopo una vita passata a sentirsi dire quant’è lunatico, imprevedibile ed infantile. Nel corso degli anni, infatti, si era accorto di aver sviluppato una sorta di esasperata insofferenza per le cose più disparate che, una volta verificatesi, gli procuravano delle incazzature memorabili, come ad esempio gli spaghetti di soia per asporto senza gamberetti quando lui aveva espressamente richiesto che ci fossero; le persone che alla domanda “Cos’hai?” rispondono “Niente” anche se sono chiaramente infastidite da qualcosa; i messaggi da lui mandati, sicuramente ricevuti, letti e mai risposti. Dopo una lunga ricerca, alla fine, riuscì ad estrarre l’accendino dalla tasca ed accese una mezza sigaretta che aveva spento qualche giorno prima, non avendo avuto tempo di fumarla per intero.
«Ma tu non eri quello che aveva smesso?»
«Brava, infatti. Avevo.»
Lydia lasciò cadere l’ennesimo lungo silenzio, come se percepisse che entrambi stavano in realtà continuando la conversazione solo nella loro testa. Un lungo brivido le attraversò le ossa, scuotendola. Nel vedere quei movimenti Louis si voltò, come se in quel momento riuscisse finalmente a percepire l’effettiva aria gelida che li circondava.
«Senti...» riprese tra un tiro e l’altro, «stavo pensando di darti le chiavi di casa, la mia intendo. Non perché vado via per tanto, cioè chissene di quello, ma perché nel caso avessi bisogno di qualcosa che magari non trovi in giro o nel caso tu voglia dare un super festone o altro, tu sappia dove andare. E’ pieno di roba, là dentro: tazze, tazzine, cuscini, letti, robaccia. Ammetto di abitarci poco, forse Harry la abita di più... in senso lato intendo, la sente più casa. Io non so, dopo anni passati a vivere in hotel, l’unico posto in cui sto bene è camera mia a casa di mia madre...»
«Non c’è bisogno che tu mi dia le chiavi. Davvero, credo che starò bene.» gli disse Lydia, riavvolgendo mentalmente il lungo monologo del ragazzo appena terminato.
«Insisto, voglio partire e sapere che le hai tu. Il secondo mazzo lo porterà Harry, non saremo chiusi fuori, se è quello che ti preoccupa. Quando torno me le ridai, mi fido.»
A quel punto Louis, anziché frugare nei pantaloni, iniziò a rovistare nelle tasche interne del suo giacchetto. Qualche secondo dopo tirò fuori un piccolo mazzo di chiavi, lasciandolo penzolare dal dito indice. Era spoglio, con più portachiavi che chiavi effettive, dove tra tutti capeggiava un ciondolo a forma di pallone da calcio bianco e nero. Lydia porse la mano, lasciandola esposta alle intemperie, e prese il mazzo di chiavi.
«Grazie,» disse a bassa voce, «prometto di non perderlo e ti dico già che non mi servirà.»
«Mai dire mai. La mia raccolta di Breakfast Tea è invidiabile.» scherzò lui, gettando a terra il mozzicone che aveva rigirato fra le dita fino a quel momento, «E comunque ti dona.»
«Mi dona? Un mazzo di chiavi mi dona?» domandò Lydia molto confusa. Forse era esattamente a questo che si riferiva prima: prima bianco e poi nero, su tutto.
«No, il tuo fiocco. Mi piace.»
Portandosi una mano ai capelli Lydia sfiorò il piccolo ornamento di raso color rame che indossava e poi scostò una ciocca di capelli che si era liberata dallo chignon, evidentemente un po’ allentato.
«Grazie, piace anche a me. E’ stata Ginevra a regalarmelo, per Natale. Immagino di non essere mai stata un tipo da fiocchi finché non me ne hanno regalato uno.»
«E’ un peccato, ti sta bene» ribadì Louis alzandosi finalmente dal muro che l’aveva finora sostenuto, «Forse è meglio rientrare, adesso. Credo tu sia in ipotermia.»
«Sì, è probabile!» scherzò Lydia imitando i suoi movimenti, per poi seguirlo all’interno dell’edificio.
 
*
 
Per questo motivo, spesso, si era ritrovata a pensare che il suo ritorno potesse essere paragonato ad un miraggio, a qualcosa che le sembrava di vedere ma che allo stesso tempo non era reale. Eppure non capiva: l’aver condiviso momenti, dialoghi, situazioni, cosa implicava? Ed era strano, strano da morire, perché non credeva di essere quel tipo di persona abituata a cogliere determinate cose, come ad esempio il modo di sbattere le palpebre, le parole usate di frequente, la lunghezza di un respiro o quale angolo della bocca si alza durante un sorriso. Ma, stranamente, lo era diventata.
Entrando nella penombra della casa e chiudendo la porta dietro di sé si accorse con grande dispiacere che Louis aveva ragione quando l’aveva definita “poco vissuta”: nell’aria mancava il sentore del suo profumo, non c’era disordine e tutto era perfettamente riposto, come se la casa dovesse essere venduta da un momento all’altro e ci fosse la necessità di farla trovare immacolata in qualsiasi momento di qualsiasi giornata. Lydia poggiò la borsa sulla penisola della cucina, tolse il cappotto, lo appese ad una sedia e spalancò la finestra lasciando che il clima gelido la colpisse in faccia. D’istinto incrociò le braccia, quasi a volersi coprire. Uno strano senso di abbandono e tristezza la avvolse mentre gettava uno sguardo fugace qua e là, dalla cucina al salotto. Decise, a quel punto, di prepararsi un the ed usufruire della collezione di bustine di cui Louis spesso si vantava.
Mentre l’acqua bolliva lavò l’unica tazza sporca rimasta nel lavello, prese il telecomando da sopra il divano e lo avvicinò alla tv, girovagò un po’ a vuoto per tutta la casa, spalancando qualche finestra per scacciare l’aria fastidiosamente satura. Aprendo la porta della camera da letto di Louis sorrise, ricordando l’ultima volta che l’aveva visto all’interno della stanza, chiaramente trafelato.
 
*
 
«Louis?» domandò a voce alta Lydia entrando in casa, «Harry mi ha lasciata entrare. Louis?»
«In camera! Seconda porta a destra, fine corridoio!»
Seguendo le indicazioni la ragazza giunse davanti alla porta, la aprì quel tanto che bastava per infilarci il naso e osservò la situazione, temendo di trovare qualcosa di poco conveniente davanti agli occhi.
«Pensavo di trovarti nudo, meglio così.»
«No, sei sfortunata, quello era stamattina. Harry aveva sbagliato a puntare il termostato e mi sono ritrovato in camera con venticinque gradi: mi sono svegliato in un bagno di sudore.»
«Magari voleva aiutarti, darti un assaggio della temperatura che troverai in America. Sai, per acclimatarti.»
«No, figurati, è semplicemente un pirla! Ha impostato la temperatura così per tutta la casa, ho dovuto tenere le finestre aperte tutta la mattina per rendere questo posto vivibile!»
Lydia si lasciò scappare una risata e si avvicinò a lui, osservandolo incuriosita mentre fissava la cabina armadio con le braccia ai fianchi. Non c’era dubbio che fosse un tipo particolarmente insensibile al freddo, ma mai avrebbe immaginato di trovarlo a piedi nudi e con una maglietta a maniche corte in pieno inverno.
«Posso sedermi?» gli domandò poi, dirigendosi verso il letto a baldacchino. Mentre aspettava la sua risposta si prese qualche istante per guardare la camera nel suo complesso, pienamente illuminata dalla luce esterna: era tutto sommato una camera semplice, anche se il mobilio era di alta qualità. I muri erano color verde pistacchio e davanti al letto, al di sopra di un comò, era stato dipinto uno skyline della città di Londra di colore nero; sul comodino, una cornice rossa racchiudeva una foto di famiglia che sembrava datata ma, nonostante tutto, molto bella.
Non sentendo più nessun movimento, Louis si voltò e la trovò intenta a guardare la foto, mentre scorreva con l’indice ogni volto raffigurato nella foto. Con una coda morbida che le raccoglieva i capelli, Lydia indossava un vestito in maglina rosso bordò e un paio di stivali neri che le arrivavano fino al ginocchio. Si chiese per quale motivo fosse così elegante e poi concluse che forse, per gelosia, sarebbe stato meglio non saperlo.
«Certo, siediti. Ho quasi finito.»
«Sono molto belle le tue sorelle, tutte e quattro.»
«Cinque in realtà, gli ultimi gemelli sono un maschio ed una femmina ma ammetto che era difficile da capire. E comunque grazie, ne sono consapevole purtroppo.»
«Non ti facevo protettivo.»
«Infatti non lo sono! Intendevo che forse sono un po’ troppo spavalde per i miei gusti, ma deve essere una cosa di famiglia.»
A quel punto Lydia ripose la foto al suo posto e si accomodò sul letto. Non c’erano valigie né trolley nella stanza ma un unico borsone riempito a metà ai piedi del letto. Si chiese cosa sarebbe mai potuto entrare in un borsone così striminzito, considerando che sarebbe rimasto per un po’ di tempo.
«Sarebbe la tua valigia?» chiese a quel punto, richiamando la sua attenzione.
Louis si voltò, lanciò una occhiataccia al borsone e poi alzò le spalle con noncuranza, raggiungendo il letto per andare a sedersi vicino a lei. Poi le regalò un sorriso e sospirò, cercando con la mano la felpa che era sicuro di aver gettato più in là poco prima.
«Che posso dire, mi piace viaggiare leggero. E poi se dovesse mancarmi qualcosa la posso sempre comprare in giro. Almeno quelli, i soldi dico, non mi mancano.»
«Perché, cos’è che ti manca?»
Lydia si rese conto di aver fatto un passo falso quando, dopo quella domanda, lui s’incupì e non rispose. Ma non era sua intenzione renderlo triste né tanto meno chiedere qualcosa di fuori luogo; semplicemente a volte le capitava di sentirsi vicina a lui, quasi intima, e questo la portava a voler sapere cosa pensasse, cosa sentisse, cosa lo preoccupasse. A forza di passare del tempo ad osservare lui e la sua vita, i suoi amici e gli eventi che gli capitavano, si era in un certo senso sentita autorizzata a stargli vicino nella maniera più discreta e dolce di cui era capace, sempre se lui glielo avesse permesso.
«Bella domanda,» rispose lui fissando i suoi piedi a penzoloni, «ci penso spesso e a volte lo so, a volte non lo so. Però a dirti la verità non stavo pensando a delle cose materiali, ma a te. Pensavo che domani parto e so già che tornerò, ma non so quando. E se non dovesse esserci più tempo non la prenderei molto bene, anzi ci rimarrei malissimo. Sono egoista, lo so, mi spiace.»
«Non dovresti.»
«Perché?»
«Perché avrai un sacco di cose a cui pensare, un sacco di cose da fare, e dovresti essere libero di concentrarti su questa nuova fase della tua vita. Lo so che non ti fa impazzire, però è positivo, o per lo meno lo sarà.»
«Cosa c’è di positivo nel non parlarti più? O nel non vederti più?»
«Louis…» sospirò Lydia, spostando lo sguardo verso il muro intonacato di verde. Avrebbe voluto dirgli così tante cose che la testa le faceva quasi male, ma non poteva e non doveva farlo. Così si voltò, lo guardo negli occhi e poi prese fra le mani l’orlo del vestito, iniziando a stropicciarlo.
«Lo so, non serve che tu lo dica. Ti dispiace, pensi che potremmo comunque sentirci ogni tanto, magari bere un caffè insieme. Ma nonostante tutto mi auguri il meglio e, questo lo aggiungo io, continuerai ad osservare la mia vita tramite i tabloid, ammesso e non concesso che scrivano qualcosa su di me. Bella prospettiva, non ti pare?»
Questa volta invece fu lei a rimanere in silenzio, colpita un po’ nell’orgoglio. Non si era mai accorta che mentre lo osservava, quasi a volerlo studiare, lui stava in realtà facendo lo stesso con lei. Sì, queste erano le cose che avrebbe dovuto pensare ma non di certo quelle che avrebbe voluto dire. Ad ogni modo ne apprezzava il tentativo: dubitava infatti che lui avesse mai detto qualcosa del genere per qualcun altro nel corso degli anni. Così si voltò di nuovo verso di lui, aspettò che i loro sguardi si incrociassero e poi, senza rispondere, si avvicinò alla sua mano poggiata al letto e la strinse, continuando a sorridere.
Louis la guardò e sospirò, accennando un sorriso in risposta. Forse percepiva tutte le parole nascoste dietro al sorriso che gli era appena stato rivolto, forse quasi le comprendeva, ma per egoismo scelse di nuovo la schiettezza al posto del silenzio. D’altra parte aveva sempre faticato a mordersi la lingua.
«Mi mancherai. Anzi, mi manchi già, anche se sei ancora qui, con me.» le disse infine, decidendo di lasciar finire così la conversazione.
 
*
 
Sentendo la teiera sbuffare richiuse la porta dietro di sé con forza, come se volesse chiuderci dentro anche tutte le cose che le tornavano in mente. Una volta in cucina aprì una delle numerose ante a colpo sicuro, come aveva fatto molte volte prima di quel momento. Prese un the nero alla vaniglia, da sempre il suo preferito, ed assorta attese che il filtro rilasciasse la sua essenza. Pensò che avrebbe potuto chiamarlo ma che non l’aveva mai fatto, che avrebbe potuto scrivergli ma che di nuovo non l’aveva mai fatto, che avrebbe potuto dirglielo ma che non l’aveva mai fatto. E le ore erano diventati giorni, venticinque per la precisione, e ormai non c’era più tempo. Odiava ripensare a quel dannato contratto, al fatto che alla loro relazione fosse stata imposta una data di scadenza prima ancora che cominciasse, ma non poteva ignorare la realtà. “Mai mischiare il lavoro con i sentimenti” erano le parole all’ordine del giorno che si era ripetuta incessantemente, mentre si accorgeva che più passavano i giorni e più diventava difficile staccarsi. Per questo motivo aveva deciso di farlo in maniera decisa, netta, come se fosse una terapia d’urto: al ritorno di Louis lei gli avrebbe chiesto di terminare il loro rapporto in anticipo, raccontando una bugia su un qualche cliente importante che non poteva permettersi di perdere, sottintendendo che questa persona in realtà era più importante; più importante di lui. Ma poi gli eventi avevano fatto il suo corso e avevano scombussolato i suoi piani, rendendo queste intenzioni del tutto vane. Si era ritrovata a fare da sola le cose che erano soliti fare assieme, prendere il caffè nel suo posto preferito, visitare casa sua a giorni alterni sperando di trovarlo dentro a sua insaputa. Non era stato un fulmine a ciel sereno, ad ogni modo: in cuor suo l’aveva sempre saputo che si stava affezionando in un modo che non le era permesso, ma aveva soffocato quella consapevolezza per molto tempo. La sua prolungata assenza non aveva fatto altro che rafforzare questa consapevolezza e, in un certo senso, l’aveva condotta al suo personale limite di sopportazione. Un taglio netto era d'obbligo, quindi.
Bevendo l’ultimo sorso di the si rese conto che non avrebbe più dovuto farlo e che vi era la necessità di fermare queste brutte abitudini. Mentre s’infilava il cappotto si mise a frugare nella tasca, in cerca delle chiavi; una volta trovate osservò il portachiavi a forma di pallone oscillare, e poi le posò sulla penisola. Chiuse le persiane e le finestre che aveva aperto e, di nuovo, perse qualche istante in più in camera di Louis dove, vergognandosi un po’, prese l’unica maglia lasciata sopra al letto. Davanti la porta d’entrata sospirò ed uscì, consapevole che non sarebbe più potuta rientrare.
Strinse la sciarpa attorno al collo e la borsa alla spalla, e si avviò a piedi. Un lembo di maglia penzolava fuori dalla borsetta perché troppo piccola. Anche se in ritardo, con il nuovo anno doveva iniziare ad avere un nuovo modo di passare le giornate, tenendo bene a mente che non avrebbe mai più potuto vederlo senza incorrere in problemi. Appena svoltato l’angolo dell’edificio il telefono trillò, facendola quasi spaventare.
 

“Torno fra 4 giorni, quindi ne rimangono 3.
Non mi sono dimenticato di te.
Aspettami.”



 













Sono perfettamente consapevole di quello che ho, diciamo, pubblicato qualche tempo fa, ma come ho detto in quell'occasione, mai dire mai. Quindi un po' è arrivata l'ispirazione, un po' mi sono fatta "aiutare" e questo è ciò che ne è uscito. Ci tengo a dire solo due cose: la prima è che credo che sia il capitolo finale ed è stato progettato per esserlo, quindi come al mio solito, lascio un finale aperto alla vostra immaginazione ed interpretazione; la seconda è che questa è l'esatta idea che ha dato il via a tutto. Questa storia era stata pensata per avere questo determinato titolo con questi determinati personaggi, questa determinata conclusione ma soprattutto questa determinata canzone che faceva da contorno. Perchè nella mia testa pensare che la frase "E ascolterò i tuoi passi e ad ogni passo starò meglio" fosse un perfetto abbinamento per il titolo "Il rumore dei tuoi passi" aveva molto più che senso, e mi piaceva tantissimo.
Quindi grazie per l'attenzione, vi ringrazio tantissimo e anche se immagino che questa sia veramente la fine, vi saluto con un altro arrivederci. 
A presto.

 
  
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