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Autore: killer_joe    27/01/2016    4 recensioni
Sanji è un informatico che vive solo per il suo lavoro, immerso nel tran-tran quotidiano e nel rimpianto di aver perso l'unica cosa che lo rendeva felice.
Ma non si sa mai cosa può riservarti la vita, a volte può capitare una seconda occasione e bisogna essere in grado di coglierla.
Sarà capace, Sanji? O rovinerà di nuovo tutto?
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Il titolo è penoso, lo so... concedete alla mia storia il beneficio del dubbio!
La Sanji/Zoro è presente nelle tematiche ma non è descritta nelle azioni.
Attenzione, Sanji a volte impreca in maniera colorita!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Portuguese D. Ace, Roronoa Zoro, Sanji | Coppie: Sanji/Zoro
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: non posseggo One Piece, purtroppo... tutti i personaggi sono di proprietà del sensei Oda!


Buonasera a tutti! Sono fiera(?) di presentare l'ultimo parto della mia mente, ovviamente una Sanji/Zoro (ma no? sul serio?). Metto subito le mani avanti, comunque, temo che stavolta i miei personaggi siano un pelo OOC. Intanto Sanji non è un cuoco ma un informatico (come da introduzione), e Zoro non è uno spadaccino ma un hacker (sì, so che sembra ridicolo, ma concedetemi il beneficio del dubbio!). E per coloro che hanno aperto questa storia convinti di leggere una appassionante avventura ambientata tra virus e PC, devo disilludervi subito perché invece si tratta di una malinconica storia d'amore tra due disadattati anche abbastanza cretini.
Questo è quanto. Per chi decide di proseguire, ci si vede a fine capitolo! ;)




“E’ fragile come una CPU… non farlo a pezzi ”

 


Se continua così giuro che mi ammazzo.
Lavoro casa, casa lavoro, lavoro… ogni benedetto (si fa per dire) giorno. Ogni mattina tornare in questo posto asettico, circondato da robot concentrati sul fare carriera e immerso in file e file di monitor luminosi.
Mi chiamo Sanji, sono un ingegnere informatico e lavoro per una delle più grandi multinazionali del mondo. Qui si produce ogni tipo di supporto elettronico del mondo intero. Personal computer, tablet, cellulari, smartphone, lettori mp3 e mp4… e-book reader, console per videogames fissi o portatili e qualunque cosa vi possa passare per la mente. Ma non solo. Anche software, programmi, sistemi operativi. Siamo noi che vi permettiamo di fare la spesa con la carta di credito, e siamo anche la causa del prelievo automatico dal vostro conto corrente per saldare la rata del mutuo. Siamo quelli grazie ai quali potete inviare email mentre viaggiate in treno e quelli che monitorano ogni vostra visita in internet. Siamo capaci di facilitarvi la vita o di rendervela un inferno. Abbiamo in mano le redini del mondo.

Che figata, starete pensando. Col cazzo.

Per tenere in pugno la tecnologia internazionale è necessario un dispendio di tempo ed energie di cui non avete neanche idea e un numero di dipendenti che è quasi impossibile da controllare. Io non sono parte del consiglio di amministrazione e tantomeno un proprietario. Sono solo un tecnico, anche se piuttosto bravo, che sta ai vertici del sistema. Con la mia squadra ci occupiamo di proteggere la sicurezza dell’azienda da ogni possibile attacco informatico. Credetemi, non indovinereste mai il numero di hacker presenti in questo maledetto mondo e nemmeno la quantità di chiamate che ricevo ogni giorno e ad orari improbabili per ripulire il sistema. Ecco perché sembro perennemente un cadavere e sono solo come un cane.
Beh, forse l’essere solo come un cane non è colpa del mio lavoro, ma mi fa comodo pensarlo. Tutti cerchiamo giustificazioni, no?


Incredibilmente oggi sto andando al lavoro in orario d’ufficio, alle otto in punto. Già, perché di solito mi chiamano in anticipo. Magari oggi sarà una giornata tranquilla, anzi lo spero dato che stanotte non ho praticamente chiuso occhio. E si vede che sono suonato, ho sbagliato addirittura piano… meno male che sono riuscito a raggiungere l’ufficio. Adesso devo solo guadagnare la sedia e fissare un monitor, fingendo di lavorare. Pare un bel programma.
“Sanji-kun, meno male che sei arrivato! Stavo per chiamarti, abbiamo un problema”
Ottimo, ho parlato troppo presto. Di solito sarei stato felicissimo di venire accolto dalla dolce Nami-swan, il miglior direttore di settore che chiunque possa desiderare sia per capacità manageriali che per lato B.
Ecco, lo sapevo che mi sarebbe scappato. Ok lo ammetto, sono un depravato: io lo sapevo già, ora lo sapete anche voi.
Oggi comunque non sono in vena di smancerie, anzi non sono proprio in vena per nulla. Senza contare che non ho sentito la sveglia e mi sono fiondato fuori di casa senza nemmeno il caffè. Uno zombie sarebbe messo meglio.
“Dimmi, mia dea. Cosa succede?”
“Un attacco, sembra serio. Usopp dice che non sa cosa fare e Chopper ha ammesso che non ha mai visto una cosa simile. Siamo nelle tue mani.”
Che meravigliosa notizia. Se Usopp non sa che fare sarà bene che mi dia una mossa.
Usopp e Chopper sono ottimi ingegneri, assolutamente preparati. Chopper è praticamente appena uscito dall’università ed è stato assunto e assegnato a questa squadra per validissimi motivi, è laureato con il massimo dei voti e ha una mente sopraffina. Usopp è mostruoso nel suo ambito, con lui formo un team affiatato e davvero imbattibile. Se lui sta dando di matto vuol dire che il problema è grave.
Appena entro nella stanza vengo quasi assalito da un tecnico riccioluto.
“Saaanji ti prego! Risolvi la situazione!”
Mi divincolo dalla stretta per dare un’occhiata al monitor, e quello che vedo mi lascia esterrefatto. Effettivamente non è facilissimo capire che sta succedendo, anzi… mi siedo e immediatamente comincio a lavorarci.
Dietro di me, la squadra osserva il mio lavoro. Mi considerano un genio ma non sanno quanto abbiano torto. Io sono preparato, ho esperienza e capacità, ma nient’altro. Ho talento, ma niente più. E ne sono sicuro. I geni in questo mondo sono poco più del 2% della popolazione, e potrei anche avere la presunzione di considerarmi parte di questa minuscola percentuale se non lo conoscessi, un genio.
Lui è incredibile. Accanto a lui divento un pivellino.
Che altro dire, io sono normale. Nel senso che ho una vita di merda, come fossi un genio, ma sono normale. Mi viene da piangere.
“Allora Sanji-kun?”
“Hai capito il problema?”
“Riesci a risolvere?”
Basta! Cristo, lasciatemi in pace almeno un secondo! Come diavolo faccio a concentrarmi se devo lavorare con le vostre urla nelle orecchie? Se potessi tirare un pugno allo schermo e staccare la spina del computer… Uff, calma. Conta fino a dieci e ricomincia a respirare…
“Ci rispondi?”
“Sanji!”
Oddio, credo che dovrò contare fino a cento… Non riesco a focalizzare, i pensieri volano da tutt’altra parte. Allora, è un attacco al software, un virus probabilmente. Cerca di copiare i codici di accesso, per fortuna il mio sistema di sicurezza è abbastanza sofisticato da riconoscere l’intruso e negargli ogni ingresso. Però temo che non sia finita qui. Dovrei cancellarlo… ma non ho idea del come. Mi cadono le palpebre e neanche sbadigliando apporto abbastanza ossigeno al cervello, cazzo, non dovevo stare fino alle cinque di mattina a farmi seghe davanti a quel porno e… NO! Concentrati idiota, il virus!
“Non so come risolvere, dovete darmi un po’ di tempo” mi trovo ad ammettere con un sospiro. Le espressioni dei miei colleghi non mi lasciano per nulla tranquillo. Chopper è disperato, Usopp è terrorizzato e Nami è incavolata nera.
“Sanji-kun, non ce l’hai un ‘po’ di tempo’! L’azienda perde 13 milioni di dollari l’ora e ne sono già passate tre! Ti risparmio calcoli più precisi” mi sbraita addosso la nostra affascinante direttrice. D’accordo, ero in grado da solo di capire la gravità della situazione ma non per questo mi cadrà dal cielo la soluzione. Sbuffo per la frustrazione. D’un tratto Usopp si inquieta e indica verso la parete a vetri del nostro ufficio. Guardando nella direzione del suo indice riesco chiaramente a vedere il consiglio d’amministrazione dell’azienda in delegazione. Grandioso, di bene in meglio. Nami impallidisce ma, da perfetta ed impeccabile donna d’affari, deglutisce e si avvia ad accogliere i nostri superiori. Senza dimenticarsi, ovviamente, di sibilarmi un amorevole “Vedi di muoverti o saranno guai” che mi provoca brividi gelidi lungo la spina dorsale. Senza una parola, mi volto verso il monitor.

Tutta la maledetta mattinata passa così, a cercare una soluzione per la cancellazione di quel virus di merda e a dare soddisfacenti spiegazioni agli ignoranti che amministrano anche la nostra sezione. Di buono c’è che sono riuscito a far ripartire tutto o quasi. Di terribile c’è che non sono riuscito neanche a toccare il virus, sembra che ogni volta che riesca ad individuarlo scompaia nel nulla.
Non ho alternative, ovviamente. So dove devo andare nella pausa pranzo. Avverto Usopp di non aspettarmi tanto presto perché devo ‘riflettere’, lui non risponde ma annuisce complice. Nessuno sa come faccia a tornare sempre con la soluzione a qualunque problema, ma ormai non fanno più domande. È per quello che mi hanno etichettato come genio, ma sono liberi di pensarla come vogliono, non m’importa. Quello che conta, ora come ora, è tenersi il lavoro. Anche perché è l’unica cosa che mi permetta di dare alla mia vita una parvenza di realtà, se dovessi venire licenziato sarebbe come se firmassero la mia condanna a morte.
Buffo, senza lavoro sarei un cadavere a pieno titolo; con il lavoro sono un morto vivente. Credo che solo Patty sentirebbe la mia mancanza.
Ah, Patty è la mia tartaruga, vive con me e mi conforta nelle ore di solitudine.
Non dite niente, per favore, me ne rendo conto anche da solo.

Faccio una sosta in gelateria, mi sentirei uno schifo altrimenti. È una vita che non mi faccio vedere, praticamente dall’ultima volta che ho avuto un problema che non sapevo risolvere. Poi del cibo per lui va sempre bene, non oso immaginare come si sta nutrendo. Rabbrividisco ogni volta che mi rendo conto delle sue abitudini alimentari, ma ormai non mi ostino più a cercare di istruirlo, so riconoscere una causa persa quando ne vedo una. Credo che gliene porterò un chilo, di gelato.
“Che gusti le metto, signore?”
“Faccia lei, tranne il cioccolato”
Non gli piace il cioccolato, me lo ricordo bene anche se di solito non sto attento ai dettagli. O forse gli piace, ma mi ha detto di no solo per farmi incazzare. Gli avevo preparato la torta per il compleanno… al cacao. Merda. Forse dovrei tornarmene a casa e rassegnarmi a perdere il lavoro.
“Ecco a lei. Fanno 12 dollari e 20”
Prendo in considerazione l’idea di mangiarmi da solo dodici dollari di gelato, con la possibilità poco probabile di dividerlo con Patty e l’eventualità molto probabile di vomitarlo tutto nel lavabo per lo stress. No, non posso permettermi di assecondare le mie debolezze adesso. E devo ammettermelo, in fondo lui mi manca.
Cammino, forse un po’ troppo lentamente considerando i milioni che sfumano ogni istante in cui io me la prendo comoda. L’autunno sta lasciando il posto all’inverno, il vento si fa più gelido e devo sollevare il colletto della giacca. Ho dimenticato a casa la sciarpa, è un sacco di tempo che non cammino per la città e non mi ero nemmeno accorto che fosse cambiata stagione. Ecco come gli impegni riescono a scinderti completamente dalla realtà, creando una spaccatura tra la vita e quello che tu consideri vita tale da lasciarti senza fiato quando te ne rendi conto. Se te ne rendi conto. Da un certo punto di vista sono felice di esserne consapevole, significa che sono ancora qua. Anche se mi sento morto dentro.
Mi allontano dalla zona di Manhattan e mi addentro nel Bronx, il grigio della nebbia si confonde con il colore spento dei muri sberciati. Con tutti i soldi che ha potrebbe abitare in una zona più bella, se non nei quartieri di lusso almeno in un’area residenziale. Ma anche questa è una battaglia persa, io mi sono rassegnato tempo fa.

Raggiungo il palazzo dal portone rosso, non hanno ancora aggiustato la serratura. Meglio per me, non devo suonare e posso tergiversare ancora mentre salgo le scale. Quasi non mi accorgo che sto rallentando ancora. Sempre più piano… Cosa gli dirò?... più piano… Cosa mi dirà?... piano… Mi sbatterà la porta in faccia… pianissimo… Ora torno a casa…
Busso, ovviamente. Abbastanza leggero da poter credere che non abbia sentito, abbastanza forte da essere sicuro che verrà a rispondere. Sono davvero patetico.
Sento dei passi dall’altra parte della porta e per un attimo mi viene il dubbio che non abiti più qui. Se non dovesse essere lui? Valuto l’ipotesi per qualche istante, potrei nascondermi dietro alla pianta rinsecchita all’angolo del pianerottolo e guardare senza essere visto chi aprirà la porta. Oppure potrei assumermi le mie responsabilità e andare con coraggio incontro ad una monumentale figura di merda. In quel caso potrei regalare allo sconosciuto il gelato, di sicuro lo gradirà più di Patty. O del lavabo.
Dall’altro lato del corridoio sembra che si sia messa in azione una cassaforte, si sentono cigolii e ingranaggi che stridono come se non fossero stati utilizzati di recente. Dopo quasi cinque minuti di rumori, il silenzio. Si apre uno spiraglio, legato dalla catena. Cos’è, paura dei ladri?
Nel fascio di luce che viene dalla porta, riconosco una fisionomia nota e una familiare testa di capelli verdi. Abita ancora qui, in questo posto da schifo. Una parte di me esulta, l’altra se ne dispiace. Non cambierò mai. Lo osservo, per quanto mi è permesso dalla porta semichiusa; non è cambiato di molto, solo i capelli un po’ più lunghi e la pelle un po’ più pallida. Anche lui mi guarda, con i suoi occhi che paiono buchi neri in cui devi stare attento a non cadere e perderti per sempre. Ero solito scivolarci dentro e bearmene per ore, tempo fa. Adesso devo stare attento a camminarci nel bordo, come un equilibrista. Vorrei sorridere ma ho paura che esca un ghigno quindi non ci provo nemmeno, non che lui stia facendo grandi sforzi per mettermi a mio agio, mi guarda come fossi un’apparizione. La voce mi è morta in gola, non riesco nemmeno a salutare. Fortunatamente ci pensa lui a rompere il ghiaccio.
“Ah, sei tu.”
Ho per caso detto ‘fortunatamente’? D’un tratto mi sembra di aver recuperato tutto il mio coraggio e la mia strafottenza.
“Mi fai entrare?”
Mi squadra un’altra volta e mi punta di nuovo quelle perle nere che ha al posto degli occhi dritte in faccia. Sostengo lo sguardo per un tempo che mi pare infinito. Poi lui alza gli occhi al cielo e sbuffa. La porta sbatte per poi riaprirsi, libera dal catenaccio.
“Entra” mi dice, il tono piatto.
Lo seguo attraverso l’ingresso, la casa è esattamente come la ricordavo. Vuota, se non si conta il numero esagerato di personal computer e congegni elettronici che giacciono ovunque, dal salotto alla camera. Ha due semplici stanze praticamente semivuote; un tavolo, la cucina con solo il gas e il lavandino e, nella seconda stanza, il letto, il comodino e i pesi. Cavolo, quel comodino l’ho comprato io… non riesco a contenere una stretta di commozione.
“Non l’hai buttato” gli faccio notare, indicando il mobiletto in noce. Guarda distratto verso l’altra stanza.
“Perché avrei dovuto?” mi chiede ingenuamente, sembra che abbia detto una colossale idiozia. Scuoto la testa, non mi serve davvero una risposta. Mi porge una sedia e crolla con malagrazia sulla sua, il volto già immerso nello schermo sul tavolo. Le dita danzano febbrilmente sulla tastiera, come stesse componendo una melodia. Lo guardo ammaliato per qualche minuto, dimentico di quello per cui ero venuto. Mi fa sempre questo effetto, è più forte di me, e credo che anche lui non abbia dimenticato la sensazione di sentirsi osservato.
Non gli ha mai dato fastidio, di questo sono sicuro.

E’ lui a riscuotersi per primo. Parla senza staccare gli occhi dal monitor, il suono esce dalle sue labbra come fosse lontano anni luce da lì e non nella stessa stanza accanto a me. Certo, ormai è questo che siamo diventati… due galassie diverse. E devo farmene una ragione.
“Di cosa hai bisogno?”
Che brutta domanda da sentirsi rivolgere, ti scarica addosso tutta la pochezza di spirito che senti di avere nel petto ma che avevi tentato di nasconderti fino a quel momento. Percepisco la mia meschinità come una seconda pelle, ma inutilmente cerco di celarmi dietro ad una maschera.
“Cosa ti fa pensare che abbia bisogno di qualcosa?” chiedo, la voce falsamente sarcastica e leggermente distorta. Ottengo un effetto inaspettato, si volta verso di me. Erano anni che la mia voce non conquistava questo risultato, ma non so se esserne stupidamente felice o terribilmente spaventato. Si è reso conto della situazione disperata in cui mi ritrovo?
Dall’espressione capisco esattamente cosa sta pensando, di solito ti ripresenti quando il tuo minuscolo cervello non riesce a penetrare i misteri della vera informatica. Ma non mi umilia così, si limita alla riflessione. Poi lo sposta lo sguardo sulle mie ginocchia.
“Oh, gelato…”
Prende la vaschetta che avevo ancora in mano, me ne ero dimenticato. In quel momento, quasi come un riflesso incondizionato, mi guardo intorno alla ricerca d’indizi su come e cosa mangia, quanto può essere difficile da sopprimere l’abitudine. Con orrore mi rendo conto delle confezioni di cibo in scatola e cinese take away, delle lattine di birra e bottiglie di pepsi cola. Sento un brivido su tutto il corpo.
“Magari la prossima volta ti faccio la spesa, sembri averne bisogno…”
Non commenta nemmeno stavolta, la cosa suona strana alle mie orecchie. Una volta non mi risparmiava nulla, anzi. Lo sento scartare il gelato e armeggiare con coppette e cucchiaini. Poi, una risatina divertita.
“Ma guarda, niente cioccolato…”
Ecco ricomparso lo stronzo che conosco.

Mangiamo in silenzio, lui ancora lo sguardo perso nel computer, io fisso su di lui. Come al solito indossa vecchi jeans trasandati e una t-shirt scolorita. Non ha perso il suo fisico atletico, anzi sembra aver aumentato la massa muscolare, d’altra parte le occhiaie nere e il colorito pallido mi suggeriscono che non esce molto di casa. La sua salute fisico-psichica non sembra molto migliore della mia, ma come sempre è ‘mal comune nessun gaudio’. Guardo da sopra le sue spalle che cosa sta facendo al computer e, al solito, non capisco una mazza. Sta configurando qualcosa, inserisce caratteri ma di più non riesco a decifrare. Sembra che mi abbia letto nel pensiero perché, d’un tratto, comincia a spiegarmi.
“E’ un virus invisibile; lo programmo in modo che si, come dire, “nasconda” dentro ai server e che si riproduca quando vengono riconfigurati i codici. Lo spedisco in coppia con un virus esca e, quando disattivano e riattivano i programmi per cancellare l’esca… mi danno accesso a tutti i loro server, esattamente come ora”. È sempre stato un filo saccente nelle spiegazioni, mi tratta come un laureato di primo pelo e la cosa mi ha sempre mandato in bestia. Ho tutte le intenzioni di farglielo notare ma riprende a parlare prima che riesca a lamentarmi.
“Ciò significa che, ora, posso scaricare ogni informazione da tutte le loro catene di archiviazione elettronica… cosa che ho intenzione di fare, ovviamente” continua, gli è spuntato un sorrisino furbetto a lato della bocca. Rapido, inserisce una chiavetta USB nel portatile.
“vuol dire che conosco ogni minima notizia e relazione di quest’azienda e che posso farne uso in qualunque momento per qualunque scopo. In sintesi, li tengo per le palle” conclude, il sorrisino trasformato in un ghigno sghembo di pieno appagamento e considerazione di sé. Maledetto hacker del cazzo, sapesse come si stanno dannando in questo momento gli informatici che si occupano della sicurezza del sistema che si è appena divertito a smantellare. Ora come ora gli tirerei un schiaffo da capogiro. Credo che si sia reso conto del mio pensiero spontaneo, perché mi guarda divertito.
“Non picchiarmi, non è la tua azienda che ho hackerato…” mi dice, candido come una colomba appena caduta in una stiva di petrolio. Lo guardo malissimo, non è certo questo che mi preoccupa e ormai mi sono rassegnato anche del fatto che si diverta a delinquere, il mio problema ora è quel virus che…
Cazzo. Oh, cazzo.
No, non posso aver fatto un errore così clamoroso ed eclatante. Non posso aver passato l’intera mattina a cercare di distruggere una semplice esca mentre il vero virus, invisibile, stava copiando i dati comodamente da dentro il server. Se dovesse essere così… non oso nemmeno immaginare la possibile stima dei danni, altro che licenziamento, quelli mi fanno la pelle. Si accorge subito del mio repentino cambio di umore e mi guarda un po’ preoccupato.
“Stai bene? Sei impallidito” mi fa notare, gli ricorderei che lui è talmente bianco da potersi mimetizzare con il muro ma, francamente, ora ho altro per la testa. Sposto lo sguardo da lui al suo computer un paio di volte prima di recuperare l’uso della parola. La voce mi esce flebile dalla gola, vorrei non dover pronunciare niente del genere. Ma se c’è una persona che può aiutarmi a sistemare la situazione, quello è lui.
“Potrei… potrei aver subito un attacco simile al mio sistema, stamattina” comincio cauto, evito di guardarlo in faccia. Sento comunque che si è raddrizzato sulla sedia, vuol dire che è interessato. Allora continuo.
“E… potrei aver passato la giornata a cercare la presunta ‘esca’, dopo aver riattivato il programma”. Sento la gola secca e il respiro pesante. No, non può essere vero, deve essere un incubo.
Non mi risponde subito, il silenzio diventa pesante. Risollevo lo sguardo su di lui, ho bisogno di sapere, ma lo trovo concentrato, una mano a sorreggersi il capo e l’altra che picchietta sul tavolo, gli occhi chiusi. Quando riapre le palpebre mi fissa, il suo sguardo quasi mi trapassa. Mi sento male.
“L’hai cancellato il virus?” mi chiede semplicemente, ma intuisco che la risposta a questa domanda è la chiave per la mia tranquillità.
“No… non sono riuscito nemmeno a vederlo. È per questo che sono qui” rispondo, credo che la verità sia l’arma migliore. Si rilassa subito, ha addirittura il coraggio di sorridere davanti alla mia espressione terrorizzata. Gli rivolgo uno sguardo sdegnato.
“Non preoccuparti, il problema è un altro. Se fosse stata una semplice esca, anche tu saresti riuscito a cancellarlo” mi tranquillizza, ricominciando a lavorare sul suo PC.
Si è accorto che mi ha appena insultato?


Al mio ritorno in ufficio so esattamente come comportarmi. Mi rinchiudo nel mio antro e, con le due dritte di Zoro, risolvo il problema in meno di due ore. La direttrice è al settimo cielo, gli amministratori sono soddisfatti, il calcolo dei danni è alto ma non insostenibile e io ho ancora il lavoro. Per l’ennesima volta, grazie a lui.
Ho a malapena il tempo di andare a farmi una doccia e a cambiarmi d’abito e vengo letteralmente trascinato fuori, a bere sopra lo scampato pericolo. Dovrei essere felice di passare una serata in compagnia, io che mi lamento sempre del fatto che faccio coppia con Patsy. Eppure mi sento vuoto e stanco, stasera vorrei solo stendermi sul divano e smettere di pensare.

Di pensare che io non merito di sedere qui.
Di pensare che l’unica persona che ci permette di avere ancora un lavoro e uno stipendio è da un’altra parte, sola.
Di pensare che quella persona mi manca da morire.
Di pensare che la mia solitudine e la sua sono uguali.
Di pensare che, in fondo, è solo colpa mia.

Nami parla ininterrottamente da ore ormai, ma io non recepisco nemmeno una parola. Usopp è ubriaco fradicio e balla sul tavolo, sparando panzane assurde a cui solo Chopper può ancora credere. C’è anche il ragazzo di Nami, sono insieme da circa due mesi. Io non lo sopporto, è un cafone idiota ed arrogante, ma lei sembra stare bene, era da tanto che non la vedevo ridere così felice. O forse è su di giri perché, nonostante il rischio di oggi, non ci hanno abbassato lo stipendio. Quella ragazza è impossibile da decifrare.
Alla fine è lui che le tappa la bocca, meno male non ne potevo più. Siamo tutti alticci ormai, lei e il suo bello cominciano a strusciarsi addosso e a limonare nel bel mezzo del locale e io mi sento ancora più solo.
Non che mi piaccia Nami, chiariamo, anche se è una gran bella ragazza e non disdegnerei certo. Il mio tormento è molto più interiore, si potrebbe definire platonico. Se non fosse che sono anche morto di fame e non scopo da un anno. Ecco, mettiamo in piazza tutti i problemi, chissenefrega della dignità…
Tiro fuori dalla tasca il cellulare, tanto per fare qualcosa e distogliere lo sguardo non perché abbia effettivamente qualcuno da chiamare. Pigramente scorro le dita sul display leggendo i numeri della rubrica; sono tantissimi contatti, che però non sento più da tempo immemore. Compagni di liceo, qualche amico delle vacanze estive, colleghi di università… arriva anche il suo contatto: marimo idiota. Devo riconoscere che non sono mai stato granché carino, con lui.
Potrei chiamarlo e chiedergli come sta, se non temessi di fargli venire un mezzo infarto per averlo contattato due volte nella stessa giornata. E inoltre, chiamarlo da non esattamente sobrio non mi sembra una grande idea. Comincio a scrivere un SMS:

“Cretino, non stare da solo tutta la sera e vieni a bere qualcosa”


Leggo due o tre volte, indugiando sul tasto ‘invio’. Aggiungo una cosa:

“…che questa vittoria la dobbiamo a te”.

Rileggo. Non mi convince.

“la devo a te”


Così è perfetta. Chiudo lo schermo con uno scatto.

Sarebbe perfetta, se non fossi un codardo.






Angolo dell'autore:

Eccoci qui! Allora, che ne pensate?
Questa fic è un piccolo esperimento, tutta in prima persona e con il punto di vista di Sanji. Aspetto vostri commenti, vorrei sapere se l'idea ve gusta o se invece trovate la narrazione pesante.
La storia è già pronta e confezionata, consiste in due capitoli lunghetti (quello che avete appena letto e il prossimo) più una specie di epilogo, che invece è cortino. So che è OOC ma spero non troppo, mi scuso per quanto è sboccato il mio Sanji (ci provo in tutte le maniere ad insegnargli l'educazione, io, ma è impossibile, è peggio di uno scaricatore di porto!).
Zoro è un disadattato. Evviva.
La tartaruga si chiama Patty perché nemmeno Sanji avrebbe potuto chiamarla Carne, e avevo paura a chiamarla Zeff (non ci tengo a ritrovarmi morta con una gamba di legno a perforarmi la schiena).
Il rating è giallo e rimarrà tale.


Un bacione, alla prossima!

killer_joe




 
   
 
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