Anime & Manga > Inazuma Eleven
Segui la storia  |       
Autore: Lila May    22/11/2017    2 recensioni
/ Sequel di Disaster Movie / romantico, slice of life, comico (si spera) /
-
10 anni dopo la terribile, anzi, mostruosa convivenza con i ragazzi della Unicorno, Esther Greenland passeggia per le strade di New York a tacchi alti e mento fiero. Il suo sogno più grande si è finalmente realizzato, e tutto sembra procedere normale nella Grande Mela americana.
Eppure, chi l'avrebbe mai detto che proprio nel suo luogo di lavoro, il gelido bar affacciato sulla tredicesima, dove non va mai nessuno causa riscaldamento devastato, avrebbe riunito le strade con una delle persone più significative della sua vita?
Il solo incontro basterà per ribaltare il destino della giovane, che si vedrà nuovamente protagonista del secondo disastro più brutto e meraviglioso della sua esistenza.
-
❥ storia terminata(!)
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bobby/Domon, Dylan Keith, Eric/Kazuya, Mark Kruger
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Chapter two.

Eyes

 

Mark le aveva giurato che si sarebbero tenuti in contatto, suggellando quel piccolo patto con un bacio turgido di pioggia e gonfio di passione.
L’aveva schiantata contro il muretto, l’aveva guardata con ardore, troppo per un quattordicenne.
E poi l’aveva fatta sua con un semplice tocco delle labbra.
Era stato bellissimo, magico.
Il miglior bacio che avesse mai avuto, dalla miglior persona che avesse mai potuto incontrare nella sua vita.
Per un breve periodo il biondino dei suoi sogni aveva rispettato la promessa, sottolineando spesso e volentieri quanto le piacesse, quanto le mancasse e quanto sognasse di baciarla ancora e stringerla contro il muro più vicino. Passavano le notti a scriversi, come due rincoglioniti.
Le aveva raccontato del trasloco, di come gli era sembrata New York a prima vista, di come era iniziata male la scuola.
Delle litigate col padre, Johann, e tutto il resto.
Però poi, a nemmeno un mese di conversazione, Mark aveva smesso di mandarle e-mail.
Aveva smesso di chiamarla, scriverle messaggi e intasarla di foto.
Niente più sfoghi, niente più “ti amo”. Niente di niente.
Esther aveva subito pensato ad un problema temporaneo, ma i mesi divennero presto anni, e i messaggi senza risposta si trasformarono in un cumulo di inutili lacrime stroncate nel cuscino.
Aveva creduto di non andargli più bene.
Aveva creduto che si fosse trovato un rimpiazzo migliore, meno noioso, meno brutto, meno sbagliato.
Con un seno della taglia giusta e lunghi capelli profumati di vaniglia.
Per fortuna era riuscita a chiudere tutto in un cassetto, e ad ignorarne il contenuto per il resto degli anni a seguire.
Ma ora il cassetto si era spalancato all’improvviso.
E rivedere Mark Kruger così, dopo tanto tempo… dopo tanti anni di silenzio, mesi di speranze, rassegnazione, lacrime… le aveva smorzato il fiato, letteralmente.
Era passata una settimana da quell’incontro casuale, e da una settimana non smetteva di pensarci.
Mark era diventato un chiodo fisso nella testa, un arrovellamento di pensieri confusi, emozioni strane che le tenevano il cuore in gola e lo stomaco in subbuglio
Il colore fulgido dei suoi capelli sbarazzini, la giacca a vento nera, quella frangia calata sugli occhi… quelle scarpe. Mark.
Mark Kruger.
Cristo.
Quel giorno Mary non c’era. Il venerdì era il suo day-off, e ciò significava che se per caso l’americano si fosse fatto vivo una seconda volta, avrebbe dovuto fronteggiarla tutta sola.
E lei, beh… non era di certo pronta a scontrarsi con gli occhi celesti e orgogliosi del biondo.
Si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, facendo tintinnare l’orecchino a forma di goccia che penzolava poco più su della spalla.
Il camice rosa antico era ben stretto al corpo, e le maniche della camicetta bianca sollevate fino ai gomiti. Ai piedi portava i suoi fedeli tacchi neri, un tocco di classe che la rendeva giovane e signora al contempo.
Aveva chiamato l’idraulico perché potesse dare un’occhiata al riscaldamento, e lo stava aspettando. Non vedeva l’ora che arrivasse, lei e le colleghe non ne potevano più del freddo polare accumulato dentro quelle quattro mura intonacate di giallo limone.
Ad un certo punto, una testa bionda entrò dalla porta d’ingresso, facendo tintinnare il campanellino.
Esther ebbe un balzo al cuore, mentre si drizzava sui tacchi e pregava con tutta se stessa in un’ ologramma di Mary materializzato accanto a lei per tranquillizzarla. Si portò una mano al piercing, e prese a giocherellarci per scaricare il nervosismo.
Mark.
Lo seguì con lo sguardo fino a quando lui non sollevò la testa dinanzi a lei, con una decisione che la lasciò stupefatta.
Un volto vecchio e segnato dall’età le comparve davanti al naso arricciato.
Tirò un sospiro di sollievo interiore, sentendo gli allarmi dentro di sé spegnersi dolcemente.
No, non era Mark. Che stupida, l’ansia le stava davvero giocando brutti scherzi.
<< Sono l’idraulico. Portatemi da quel fottuto riscaldamento, ora gli diamo una sistemata. >>


 

Passò un’altra settimana, ma ora lavorare al caffè era diventato decisamente più emozionante da quando la temperatura al suo interno era ritornata calda e piacevole.
I clienti si erano riversati al bar in massa, occupando quasi tutti i tavolini presenti, e il loro vociferare sommesso e biascicato aveva reso l’atmosfera ancora più accogliente di quanto già non fosse.
Un intenso profumo di caffè e pancakes sciroppati d'acero impregnava l’aria, facendo brontolare persino gli stomaci di coloro che passavano indisturbati davanti al bar.
Ma che poi si vedevano costretti ad entrare, affamati come leoni
Insomma, il motore aveva ripreso a girare, e le casse ad aprirsi con voracità, bramose di soldi.
Di Mark ed Erik, però, nessuna traccia.
Da ben due settimane.
<< Peccato, ci avevo sperato… >> bofonchiò Mary, i lunghi capelli blu perfettamente raccolti in un ordinato chignon.
<< Meglio così, sai? Chi se ne frega di quei due, oh! >> Esther s’infilò nel giubbotto marrone e raccolse la borsa con un largo sorriso gravido di stanchezza. Il suo turno era finito, e non vedeva l’ora di tornare a casa per riposare; baciò Mary sulla guancia pallida, salutò le altre e passò dal tepore profumato del bar alla morsa gelida dell’inverno newyorkese.
Una spirale di vento le avvolse il collo nudo, ma lei continuò imperterrita ad avanzare.
Camminò tra quei volti tutti estranei ed uguali per minuti che le parvero anni, ignorando gli sguardi dei ragazzi e i commenti acidi delle femmine, quando un viso particolare parve spiccarle subito all’occhio, risvegliandola dal torpore silenzioso in cui era scivolata.
Un viso che conosceva bene.
Fin troppo.
Ma che non le era mai parso tanto diverso come in quell’istante.
Due luminose iridi color del mare le si posarono esattamente addosso, e la guardarono con un misto di stupore, sconcerto e consapevolezza.
Fu quell’ultima sensazione a farla tremare dentro.
Esther si sentì morire. Sentì la paralisi fermarle la circolazione sanguigna, le gambe, le braccia, tutto.
Quello era il viso di Mark, i suoi occhi. La stavano fissando.
Nessuno disse niente per un po’.
Poi lui fece un passo in avanti.
Un altro.
La ragazza rimase immobile sui tacchi a spillo, persa nel bagliore celeste di quelle iridi così chiare, limpide, sincere e leali che tanto l’avevano fatta fremere dieci anni prima.
Non sapeva come interrompere il contatto visivo.
Non ci riusciva, forse non voleva neanche.
Mark le stava venendo incontro e lei si era come imbambolata a guardarlo. Non fece caso a Erik accanto a lui, ne alle persone che lo circondavano.
Era come se esistessero solo loro due. Quello era il loro momento.
Kruger chiuse la distanza tra loro in pochi secondi, e quando Esther si ritrovò a fissargli il collo avvolto da una morbida sciarpa rossa, venne subito invasa dal suo profumo forte. Quello intenso della libertà, della vita che scorre nelle vene, mischiato a quello placido dell’inverno calato sulla città come una cappa protettiva.
Lo guardò, percorrendo con occhio sconvolto i suoi lineamenti forti, cesellati, le gote cinte da due folte basette color miele, i capelli arruffati scossi dal vento.
La frangia troppo lunga gli cadeva a ciocche ribelli sulla fronte corrugata, il naso lungo torreggiava su un paio di labbra sottili e vellutate.
Era cambiato tantissimo, sembrava a malapena lui. Era alto, tanto, e snello.
Lo ricordava fragile.
Lo ricordava diverso. Indifeso, un gambo spezzato sotto il peso di troppe responsabilità.
Dire che un tempo era stata lei quella alta, il “maschione” dalle spalle robuste.
Invece ora doveva ricredersi, al cospetto del corpo di Mark.
Si sentì una misera formichina, e vacillò sui tacchi alti.
<< Esther. >>
Le labbra dell’americano liberarono il suo nome con un sospiro esterrefatto. La sua voce era profonda e arrochita dal freddo, una melodia di suoni intensi.
Tintinnò come il nome più grazioso del mondo.
<< Mark… >>
Eagle si intromise nella conversazione, una smorfia divertita stampata nel volto dai lineamenti scaltri e dolci. << Che ti dicevo, Mark? >>
Il biondo rivolse un sorriso ad Esther, prima di prenderle le mani e stringergliele con un affetto sconcertante. C’era del distacco nelle sue azioni contenute, come se cercasse di trattenere la sorpresa di quell’incontro. La mora arrossì. Mark aveva delle mani stupende. Poteva sentire le sue vene pulsare calde, vive sotto la pelle color rosa. A fatica si reggeva in piedi, tanta era l’emozione. << Non potevo credere alle parole di Erik quando mi ha detto che lavoravi qui. Che eri qui. >> prese fiato, un rantolo febbrile gli sfuggì dalla gola a punta. << Non ti avevo vista l’altra volta. Non in faccia, almeno. Non potevo credere che fossi tu, io... >>
La mora notò come si era fatto pallido, ma come aveva lo stesso tenuto l’accento cantilenante della California.
Sorrise a quel particolare, sentendo l’ansia abbandonarla per lasciare posto alla serenità del momento. Aveva temuto peggio, perché? Non lo sapeva nemmeno lei. L’unica cosa di cui era consapevole in quel momento era di aver davanti il suo grande amore dimenticato, e quello bastava. << Sono contenta di vederti, Mark. >> lo ammise. Era davvero felice di averlo incrociato, finalmente.
Dopo un anno di vita lì.
<< Stavo proprio venendo a verificare con i miei occhi se ciò che aveva detto Erik fosse vero! Ma poi… ti ho incontrata per strada. >>
<< Fratello, dovresti fidarti di più. >>
Mark le lasciò andare le mani per agguantarle con delicatezza le spalle. Poi la avvicinò e la strinse con vigore, come si fa con le cose belle, le cose preziose. Quelle che non sai più lasciar andare, una volta che te le ritrovi per caso. Esther sentì di avvampare mentre sprofondava tra le braccia bollenti dell’amico. Quel movimento inaspettato le ricordò tanto il loro primo bacio, quando si erano chiusi nella camera di Mark, scarna di oggetti a causa dell’imminente trasloco, ma piena di lui ovunque posasse lo sguardo.
<< Mark, cristo, possiamo entrare da qualche parte? Io sto crepando di freddo. >>
Mark sembrò come risvegliarsi da un lungo sonno, e tutti e tre interruppero il momento per andare a ripararsi nel bar più vicino, cercando di sfuggire alla gelida morsa invernale.
Esther lo seguì diligente, camminandogli accanto come se si vedessero ogni singolo giorno.
Come se non fosse successo niente.
Le era mancato.
E non si accorse di avere gli occhi languidi fino a quando non presero a pizzicarle le iridi, dannazione.
Le era mancato da morire.


 

Mark si sporse in avanti non appena Erik si allontanò da lui ed Esther per andare a parlare con un dipendente. Il cappuccio fumante dinanzi alla sua sagoma disegnava volute appannate e intrise di profumo, e il liquido caldo si smosse appena quando il giovane si allungò verso di lei, battendo il gomito contro il tavolo. Era voglioso di sapere.
Esther glielo leggeva negli occhi, quel guizzo di curiosità che lo aveva da sempre caratterizzato brillava fulgido nelle iridi celesti. Era ora delle spiegazioni.
Smise di armeggiare con la fetta di toast imburrato, mettendola da parte.
<< Mi sono trasferita qui. >>
Parve sconvolto da quella notizia. Ma anche contento. Un mischio di entrambe le cose. << Da quanto? >>
<< Un anno, circa. >>
Il biondo tenne la schiena rigida, e gli occhi si fecero scuri sotto l’ombra della lunga frangia. Esther avrebbe tanto voluto passarci una mano, scostargliela dallo sguardo imperscrutabile per ammirarlo meglio. Rendersi conto di quanto fosse cambiato, leggere tutto nella sua pelle, nelle sue smorfie.
Senza bisogno di aggiungere ulteriori parole. E soprattutto, chiedergli il perché di quel silenzio lontano che tanto l’aveva ferita.
Ma non lo fece, ovviamente.
Non era il momento quello.
<< Come mai proprio New York? >>
<< Sognavo di poter aprire un bar all’estero. New York è stata un’occasione che abbiamo colto al volo, ecco. >>
<< Abbiamo? >>
<< Abbiamo, sì! Io e Mary, la ragazza che lavora con me! Faceva anche lei parte della Tripla C--
Vide Mark fare mente locale. Probabilmente non la ricordava. E probabilmente aveva gettato nel dimenticatoio anche lei, prima di riconoscerla in mezzo alla folla qualche minuto fa. Ma perché ora si comportava da mocciosa?
Chiuse in una scatola del cervello il coacervo di pensieri che le frullava in testa da diversi minuti, disturbata del fatto che non avessero smesso di darle tregua neanche un attimo.
<< Condivideva il mio stesso sogno. Viviamo in un monolocale insieme, ce la caviamo, devo dire, anche piuttosto bene considerando che siamo due sceme patentate.>>
<< Good. E questo? >>
Esther batté le ciglia diverse volte, confusa. << Questo cosa? >>
Con un lieve cigolio della sedia, Mark si sporse in avanti, le afferrò il mento e premette dolcemente il pollice contro il piercing, stupito.
Oh Dio.
Esther perse un battito, e un altro ancora. Sussultò, e le guance le si imporporarono di rosso a quel contatto quasi intimo e spavaldo, così inusuale per due ragazzi che erano stati lontani tutto quel tempo. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualunque cosa per interrompere tutto, ma non trovò la forza morale per ostacolare tante meravigliose sensazioni sbocciate all’improvviso nel suo petto eccitato.
La lingua le si sciolse in bocca. Era sicura di sembrare una totale scema, agli occhi dei pochi spettatori presenti.
Un bagliore divertito scosse le ridi di Mark, mentre un sorriso carico di malizia gli tagliava il mento maschile. Doveva essersi accorto del rossore dell’amica, tutti dovevano essersene accorti. Esther sbuffò appena; impossibile nasconderlo.
<< Il piercing. Stupendo. Sei diventata una ragazzaccia? Scommetto che vai in giro picchiando tutti quelli che ti fanno arrabbiare. >>
<< T-ti piace? E’ nuovo. Ha sei mesi. >>
<< Ti sta davvero bene. >> Mark le lasciò andare il mento, profondamente colpito da quel dettaglio.
Colpito da lei.
Esther Greenland era cambiata molto in quei dieci anni, e aveva acquistato una bellezza decisamente estrosa. Impossibile non notarla; magari non era la donna più splendida del mondo, vuoi per i tratti grossi, vuoi per l’altezza vertiginosa, o per quel seno troppo grande che le aveva donato sempre più anni di quelli che realmente possedeva. Ma aveva un carisma, una bellezza così prorompente in grado di catturare sempre qualche sguardo, ovunque osasse anche solo mettere tacco. I capelli le ricadevano lunghi sulle spalle eleganti, meno ricci di come li ricordava. Un’adorabile frangia le percorreva metà fronte, mettendole in risalto gli evasivi occhi color ebano.
E quel piercing appena sotto il labbro inferiore. Così piccolo e raffinato.
Quello era la ciliegina sulla torta.
Il tocco del maestro.
Ciò che la rendeva meravigliosa, unica. E dire che lui schifava i piercing, specie sulle donne.
Quando ritornò a focalizzarsi sul suo sguardo, però, colse un’ombra che prima non aveva notato. Sospirò, stendendo la larga schiena sulla sedia di legno. Non aveva bisogno di chiederle che cosa non andasse, per saperlo. Già lo immaginava.
Aprì la bocca per parlare, per spiegarle.
Esther lo capì dal suo sguardo fattosi serio, dalla sua mascella contratta.
Ma Erik interruppe la conversazione con un gesto della mano, facendo capire al compagno che per il momento la cosa doveva finire lì.
Purtroppo.
<< Shit. >> Mark finì il cappuccino in due rapide sorsate - Esther sgranò gli occhi dinanzi a tale superpotere -, estrasse dalla tasca del giacchetto un pezzo di carta e una biro senza tappo, poi iniziò a scrivere qualcosa in fretta e furia, con una calligrafia sbarazzina che la lasciò esterrefatta. La ragazza lo osservò con aria stordita. Non capiva cosa volesse fare, ma la risposta le fu chiara quando cominciò ad intravvedere dei numeri formarsi sotto il pugno chiuso del giovane.
Era il suo contatto di cellulare.
Mark glielo diede con un mezzo sorriso, poi abbassò la voce al minimo, perché potesse sentirlo solo lei. << Esther. >>
<< Sì? >> domandò la mora, alzandosi dal divanetto in pelle che l’aveva ospitata in quel breve lasso di tempo. Afferrò lo straccetto di carta con fare indeciso, prima di leggerne i numeri sbaffati.
Non sembrava molto convinta.
Non lo era. Affatto.
<< Questa volta risponderò. Te lo prometto. >>
Fu un attimo.
Esther sentì un fremito interiore nell’udire quelle parole, percepì la piccola se stessa ribellarsi dentro quei ricordi ancora troppo vividi, si vide sollevare la testa dal cuscino umido di lacrime e correre al cellulare per vedere se il suo grande amore adolescenziale le aveva risposto. Mark sapeva, Mark ricordava ed era intenzionato a darle delle risposte.
Il biondo la lasciò con un rapido abbraccio, prima di infilarsi in mezzo al freddo del crepuscolo insieme ad Eagle. Una debole luce dorata era calata sulle strade nere di New York, illuminando con i suoi tenui raggi solari le infinite finestre del vicino downtown.
Esther non sapeva come sentirsi. Percepiva una calma strana aleggiarle intorno, l’odore acre dell’inverno non era mai stato tanto intenso come in quel momento.
Trascinò i piedi stanchi fino all’auto, si chiuse dentro, confusa.
Mark…
Mark era lì.
Di nuovo con lei.
Intenzionato a ristabilire un legame, e le era parso deciso, nonostante conoscesse molto bene quanto il ragazzo stesso fosse stato l’allegoria della fragilità.
Si rigirò quel numero tra le mani, quel maledetto, fottutissimo numero di telefono che dieci anni prima l’aveva bellamente ignorata per mesi.
<< Basta comportarti da sciocca. E’ adulto anche lui. >>
Lo infilò nella borsa e mise in moto.
Mary doveva assolutamente sapere.

__________________________________________________________
 

Nda
eeee niente. Ciao. (?) so di aver detto che avrei pubblicato prima di partire per gli Stati Uniti, ma ho avuto da ottenere un po' di voti entro la data della partenza, e sono dovuta stare sui libri fino all'ultimo. Beh, è stato un viaggio fantastico, probabilmente ci ritornerò u.u.
Come va?
Io bene, a parte il fatto che sto affogando tra inglese, francese tedesco e quella fottuta matematica. By the way, finalmente Mark!
Aspettavo da una vita di poter parlare del mio pucci-pucci, come vi è sembrato? Allora cari tesori di pastafrolla (?), l'aspetto di Mark adulto non l'ho inventato - eh, VOLEVI! -, l'ho preso da una fanart di Mizuhara Aki - forse lo conoscete, è famoso per le sue immagini su Inazuma, ne fa a quantità industriale -, ve la lascio here below.

https://imgur.com/a/Ust26

Enjoy girls. (?)
Detto questo, fatemi sapere che ne pensate del capitolo - e di Mark obv -! Ci sentiamo al prossimo, bye <3

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inazuma Eleven / Vai alla pagina dell'autore: Lila May