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Autore: Servallo Curioso    28/06/2009    2 recensioni
Ham è un dio che vive in un pantheon fatto di ruoli assurdi. Lui, comunque, si sente costretto a quel ruolo fatto di studio e ricerca; privo di azione, fama ed esperienza. Non è capace di accettare la sua natura così impulsiva e sognante, all'opposto del suo ruolo: l'archivista che passa l'eternità nelle sue stanze. Conosce gli dei, conosce la storia, conosce qualsiasi cosa scritta fino a quel momento: ma non conosce il brivido di provare quelle avventure tanto sognate sulla propria pelle. Quando l'occasione finalmente si presenta, Ham, capisce di non essere adatto a quel genere di storie: quelle con l'azione, la paura della morte e il fragore delle armi di sfondo. Questa volta, però, non potrà decidere di ritirarsi: è scoppiata la guerra.
Genere: Drammatico, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2 – La notte del tempio

Era scesa la notte e l'unica luce proveniva dalle sale inferiori del tempio di Porcias. Quel santuario emanava una luce debole di candele in profondità. Era il ritrovo dei fedeli del peccato, così chiamati, che di notte si riunivano per svolgere il Kō. Tra tutti i riti religiosi, quello, era il più estremo.
Arrivava al limite della decenza divina. I fedeli si riunivano e chiamavano la loro dea più amata, Manius, che giungeva tra di loro facendo iniziare il rituale. Il Kō si svolgeva sempre lontano dagli occhi indiscreti, sia umani che divini. I fedeli della dea sapevano di dover scegliere luoghi nascosti o protetti dalla sua sacra benedizione. Una sola volta riuscii a scorgere uno di questi riti, dalle vetrate del Palazzo. Dovetti far arrivare il mio sguardo molto lontano, in un luogo talmente segreto da rendere perfino agli dei difficile l'accesso. Non appena ebbi la possibilità di osservare cosa stava avvenendo al suo interno subito ritirai l'occhio per lo stupore. Ero sconvolto, la mia giovane grazia divina non era pronta a simili visioni.
Quelli non erano riti: erano giochi perversi dei più disparati, anche se, a quanto si dice, gran parte delle volte si limitassero a orgie dove la dea si mescolava agli uomini di ogni terra.
Io non avevo mai conosciuto quella dea, l'avevo solo vista più volte nel Palazzo e ogni volta mi lanciava delle strane occhiate, come se immaginasse chissà che cosa con me a fare da protagonista. Lei era la dea di tutto ciò: della perversione e delle passioni carnali e forse dell'amore in ogni sua possibile forma. Quando il grande padre la creo pensò proprio a questo ruolo. Un ruolo adatto all'inclinazione degli umani, per liberare i propri istinti e dedicarsi alla carne.
Lei, per assecondare la sua posizione, possedeva il potere di mutare, cambiare aspetto. Il suo volto e il suo corpo potevano trasformarsi in qualsiasi momento e, ascoltando quanto dicevano i più, in qualsiasi cosa. Non era però dedita alla guerra e questo potere lo usava solo per mutarsi in uomo, o in donna, secondo le occasioni. Però nelle varie occasioni in cui incontrava gli dei, il suo aspetto era sempre il solito.
Appariva come una donna giovane e bella, dal fisico asciutto, quasi atletico, e la pelle rosea. I capelli erano lunghi e lisci, di un castano brillante, mentre gli occhi di tinta scura mutavano in continuazione. Inoltre era sempre vestita da uomo. Portava stretti pantaloni di pelle, nera soprattutto, e camicie immacolate sbottonate in più punti. Personalmente non posso dire con certezza che questo fosse il suo aspetto originale e neppure se fosse il suo genere, se mai sia nata con un aspetto e un genere. Posso assicurare che io l'ho vista quasi sempre in questo modo o comunque, l'ho sempre vista con quello sguardo perverso che scruta ogni cosa.
Durante i rituali, che si dividevano secondo il sesso delle persone presenti, lei mutava in continuazione il suo aspetto.
In quel momento si era appena scelta un partner con per continuare da soli, lasciando il gruppo restante a continuare il gioco di gruppo, quando i suoi occhi si mossero immediatamente individuando qualcosa in uno degli angoli della stanza. La pelle si fece fredda e ruvida e tutto il suo corpo s'irrigidì; poi l'attacco.
Il braccio destro scattò verso quel punto, cercando il bersaglio tra le decine di corpi presenti. Da robusto arto umano dalla pelle chiara si trasformò in serpente dalle tinte smeraldine. Questo saettò giungendo senza fallo alla vittima.
Il panico si creò nella sala di pietra illuminata appena dalle torce e ornata da mille tappeti e pellicce per evitare il freddo contatto tra la pelle e le pareti o il pavimento. Le persone schizzarono agli angoli, lontani da tutti, sia da quel serpente che si era mosso fulmineamente tra loro sia dal corpo probabilmente colpito. Urla, grida, lacrime e sguardi terrorizzati. Perfino quella donna, che si trovava sotto il corpo della dea, era immobile e incredula.
Manius ritirò il braccio e riacquistò, alzandosi, l'aspetto tipico con cui era facile incontrarla, quello con il quale era ricordata sulle statue. Il suo corpo nudo era illuminato appena ma la sua voce risuonò chiara tra quelle mura.
Come osi arrivare fin qui, profanando uno dei riti in mio onore?” era irritata e furiosa, quello sguardo sempre leggero e malizioso era ora carico di rabbia.
La figura allora si alzò, distinguendosi dall'ammasso di corpi che continuava a muoversi per allontanarsi. La luce era poca e i suoi contorni erano sfuocati. Si poteva dire che forse era una donna. Mentre rispondeva provò a coprirsi usando una delle pellicce che si trovavano a terra. “Hai un occhio attento. Pensavo di potermi introdurre liberamente in questi... 'riti', ma a quanto pare mi hai scoperto subito” rise un poco rivelando un tono acuto e spiacevole.
La dea perse una parte della sua rabbia acquisendo un tono meno duro ma ugualmente serio. “Puzzi. Certi odori saltano subito al naso. Non ho bisogno degli occhi, basta seguire la tua scia”.
Hai anche un bel coraggio a dire questo” disse offesa quella figura. “Forse il tuo naso ci ha fatto l'abitudine ma questa stanza non è certo un giardino di rose”.
Chiudi quella bocca!” esclamò Manius interrompendola. “Forse il tuo naso ci ha fatto l'abitudine ma è il tuo alito a puzzare tanto, Raffaella”. La dea sapeva già che il rito era ormai rovinato. Dopo un evento del genere le era passata la voglia di continuare. “Adesso vattene”
Gli uomini e le donne presenti nella sala sbiancarono e tentarono di nascondersi, muovendosi in massa alle spalle della divinità.
Non sei molto gentile e comunque non posso andarmene: sono qui per parlarti”
Non ho parole da spendere per te”
La sagoma soffiò scaldandosi per il tono della padrona di casa. “Aspetta che io abbia finito, prima di agitarti tanto. Sono solo poche parole”.

Maonis mi venne a svegliare prima che il sole sorgesse. Potevo dire che fosse ancora notte e il silenzio del Palazzo mi convinse di ciò.
La sua sagoma pelosa illuminata da una lanterna mi fece spaventare.
Il Grande Padre ti sta aspettando” mi disse solamente prima di mettersi a raccogliere i vari fogli e tomi sparsi a terra per ammucchiarli in un unico punto.
Se dovevo scrivere un riassunto delle vicende di Maonis mi sarei limitato a scrivere una storia dal titolo: “Il gatto grasso che imparò a parlare”. Alla fine era realmente così.
Era semplicemente un gatto troppo largo e lento per la sua specie, dal pelo nero e gli occhi cristallini. Sulla punta delle zampe aveva poi delle nuvole di bianco, sembravano degli schizzi di tintura sul pelo. Era una divinità anche lui ma nessuno se ne ricordava. Ricopriva il trono degli eccessi, però, ormai gli umani avevano preso l'abitudine di confondere questo ruolo con quelli già posseduti da Manius e arrivarono a dimenticarlo.
Maonis era comunque vivo e in pieno possesso dei suoi poteri. Era dispettoso e si mostrava agli uomini come un gatto affamato, smilzo e malridotto. Premiava chi si prendeva cura di lui e invece puniva chi lo allontanava, lo ignorava o sbeffeggiava. Alla fine, credo, possedesse dei poteri che andavano ben oltre il suo compito.
Rimaneva alla fine sempre un gatto, ruffiano e pigro, e passava gran parte del giorno a dormire nel Palazzo, soprattutto nelle mie stanze. Amava adagiarsi tra le pergamene e i libri rimanendo a farmi compagnia durante il lavoro. Io e lui eravamo in ottimi rapporti.
Quella notte mi ero addormentato sulla scrivania, usando un vecchio tomo ricoperto di pelliccia come cucino.
Se il Grande Padre voleva la mia presenza era per qualcosa di importante, forse voleva punirmi per il giorno precedente. Corsi tra le sale ancora mezzo addormentato e forse sbagliai strada più volte. Alla fine, comunque, giunsi davanti all'enorme cancello dalle porte celesti e piene di gemme incastonate, ognuna con un diverso colore brillante.
Il portone di apri da solo, lasciandomi entrare in una sala circolare. C'era un'aria strana, che inebriava la mia essenza. L'esistenza stessa di noi dei era confusa da quell'aria. La stanza era molto piccola, rotonda e decorata con figure divine sulla pietra. Sulla sinistra, subito dopo essere entrati c'era una sagoma. Era un cavallo, bello e perfetto, il cui corpo posteriore diventava quello di un serpente. Si ergeva sulla grande coda pronto a spaventare i nemici. Era il Servallo.
Alla destra, invece, c'era una sagoma diversa. Era un serpente, con le fauci spalancate e pronte a divorare una preda. Il suo corpo, circa a metà, si trasformava in una figura equina. Possedeva il corpo posteriore di un cavallo mentre busto e testa erano di serpente. Era il Servallo.
Nessuno poteva dire con certezza quale fosse la sua reale rappresentazione, noi sapevamo solo che il Servallo era nato dall'unione impura di un cavallo con una serpe. Come fosse il figlio era un mistero anche per noi divinità. Solo il nostro Grande Padre poteva saperlo e sospettavamo tacitamente tutti che lui stesso fosse il figlio di tale unione, custode di tutti i segreti del mondo.
Il pavimento era concavo, a formare una mezza sfera riempita d'acqua. Al centro c'era una piattaforma rialzata sulla quale dovevamo ogni volta salire.
Come al solito lo feci, cercando di bagnarmi il meno possibile. Appena fui sopra quell'altare, l'aria nebbiosa del santuario, si chiuse attorno a me raggiungendo lo spiraglio più profondo del mio spirito.
Hamuhamu” sospirò una voce. Quella parola risuonò nella mia mente.
Lui parlava con i suoi figli in maniere sempre diverse, per assecondare la loro natura. A Manius parlava tramite delle sensazioni, a Katyana tramite dei sapori e a me sembrava di leggere delle parole scritte, non che esse ci fossero veramente, ovvio.
Quello con cui mi aveva chiamato era il mio nome ancestrale, che usavamo solamente nelle occasioni solenni.
Non risposi: quel richiamo serviva a fare in modo che entrassi in contatto con lui.
Devi fare un piacere a me e ai tuoi fratelli” continuò. Io, a quel punto, mi rilassai, abbandonando l'agitazione iniziale. Ero sollevato dal sapere che non mi aveva chiamato per la mia lotta contro il demone.
Ditemi, Grande Padre”
Sta per accadere qualcosa. Devi abbandonare le tue stanze e sopravvivere”.
Perché questo, Grande Padre? Non riesco a capire”.
Attesi alcuni interminabili secondi la sua risposta.
Devi essere testimone degli eventi, Hamuhamu. Tu devi poter tornare e scrivere tutto ciò che hai visto”.
Sta per scoppiare una guerra, Grande Padre?”.
Non posso prevederlo, Hamuhamu. Neppure io posso vedere quello che accadrà con certezza. Il destino è mutevole. C'è un desiderio di vendetta, un antico rancore, che ha covato a lungo nel cuore del suo portatore e ora vuole risvegliarsi”.
Rimasi confuso. Non capivo cosa sarebbe potuto accadere. Forse stava per nascere un'altra inutile grande guerra tra gli uomini, cosa che io ogni volta dovevo osservare e descrivere con minuzia per gli archivi del Palazzo divino.
Mentre pensavo a queste cose, a capo chino, lui continuò: “Stai attento, Hamuhamu”.
A questo punto interruppe la nostra conversazione. Quando riaprii gli occhi, chiusi un attimo prima, mi trovai davanti alle porte di cristallo. Fuori dalla stanza circolare, con il portone ben chiuso. Nessuno poteva entrare senza essere chiamato.
Il Grande Padre non era né onnipotente né onnisciente, questo era certo. Lui era solo una creatura ancestrale, saggia e potente. Aveva creato noi dei, con i suoi poteri, per tenere sotto controllo il mondo affinché non cadesse nell'oblio del caos.
Rimasi paralizzato. Se un desiderio così grande stava per risvegliarsi, una cosa che lui non riusciva a controllare o prevedere, doveva trattarsi di qualcosa di grande e grave allo stesso tempo. Per un istante pensai che non solo gli uomini ne fossero coinvolti ma subito allontanai quell'idea.
Chi mai poteva puntare a noi dei?
Non avvertii nessuno, non ce n'era bisogno. Se il pericolo avesse riguardato gli altri allora il Grande Padre stesso li avrebbe chiamati. Io dovevo solo stare attento, ora. Scrutare l'orizzonte e informarmi su ogni cosa.
Corsi immediatamente verso le porte del Palazzo. La mia sagoma scivolava tra corridoi e saloni come se fosse una brezza leggera entrata da qualche apertura. Mi fermai solamente dopo aver superato il varco.
Il Palazzo divino, dalla facciata di pietra bianca si trovava su una montagna di roccia chiara, tinta di un grigio omogeneo. L'intera reggia era retta nel cielo dalla divina essenza stessa del Grande Padre e protetta da alcune leggere barriere. Non era raro, comunque, che alcuni demoni lo raggiungessero, approdando al molo di pietra.
Il molo era la parte più bassa del castello. Era un lungo braccio di pietra che conduceva a una strada in ripida salita, tra scalinate e piccoli santuari, alla fine della quale stava il Palazzo. Lo si poteva raggiungere usando dei portali magici o dei varchi casuali creati dalle distorsioni residue dopo un incantesimo di immane potenza. Qualsiasi strada, comunque, avrebbe condotto solo al molo di pietra; la stessa magia del Grande Padre rendeva quello l'unico approdo.
Dopo il molo c'era una lunga scalinata che seguiva inizialmente una linea retta e poi cambiava muovendosi appoggiata alle pareti rocciose. Dopo di essa c'era uno spiazzo, coperto di fiori e erba. Lì stava sempre Revery, colei che era incaricata di fare da guardiana e custode del regno divino. Nessuno poteva passare senza aver avuto il suo consenso.
Stava sempre appoggiata con la schiena a qualche colonna lucida e coperta di edera, oppure seduta ai piedi del grande e vecchio melo che stava ai margini del giardino. Sorrideva inizialmente chiedendo una presentazione agli estranei.
Io arrivai sulla cima dell'ultima scalinata, quella che portava alle porte del Palazzo dal quale ero appena uscito. Con una certa fretta raccolsi cinque sassolini da terra. Li strinsi con forza tra le mie mani infondendovi la mia energia affinché questi si trasformassero nei miei informatori. Quando aprii i palmi avevano assunto delle perfette forme sferiche, di diverse grandezze e iniziavano a mutarsi nella creatura finale. Cinque occhi.
Cinque bulbi oculati di colore azzurro che si sollevarono in aria e iniziarono a muoversi freneticamente. Erano appena diventati le mie spie.
Il Grande Padre mi aveva fatto questo dono. Mi aveva concesso la facoltà di avere occhi sempre vigili al mio servizio, nel verso senso del termine. Li avrei mandati nel mondo degli uomini a guardare dall'alto ogni cosa. Qualsiasi informazione raccolta si sarebbe aggiunta direttamente alla mia memoria. Seguendo un mio gesto, con il quale indicai ai miei tesori il mondo sottostante, i cinque osservatori scattarono verso il basso, sparendo presto dalla mia vista.
Pensai che forse nemmeno la guardiana si sarebbe accorta del loro passaggio.
Ora erano diretti in cinque luoghi diversi per guardare, nascosti, ogni cosa e poi spostarsi altrove. Si sarebbero fermati in alto, nel cielo, non tanto in alto da sfiorare le nubi ma neppure così bassi da farsi vedere dalle sentinelle delle torri. Loro sarebbero restati a metà e avrebbero monitorato tutto.
Dopo averli lasciati andare sorrisi. Ora nulla poteva accadere senza che io me ne accorgessi.

Nel frattempo al tempio di Porcias le cose sembravano essere alla svolta finale.
La notte stava perdendo le sue tinte nere, segno che si approssimava il sorgere del sole.
Il tempio era avvolto in uno strano silenzio. I fedeli erano tutti rimasti all'interno, protetti dalla benedizione di Manius. La dea, invece, aveva condotto il combattimento al fine di portare la propria avversaria all'esterno. Non voleva che i suoi servitori si danneggiassero in quello stupido scontro.
Facendosi inseguire, e lanciando rapide offese, aveva portato Raffaella nello spiazzo davanti al santuario.
Porcias si trovava in una radura ricoperta d'erba giallastra. Era piccolo e dalla base esagonale, sulla quale poi si sviluppava per una decina di metri d'altezza. Il grosso del complesso era sotterraneo, nelle sale adibite ai riti. La dea non ha mai richiesto dello sfarzo o delle decorazioni particolari, voleva solo essere in un luogo nascosto e riservato. C'erano le luci provenienti da qualche cittadina poco lontana, dalla quale venivano i fedeli, che si stava svegliando.
Manius sospirò. Quell'avversaria si era dimostrata coriacea e furba, e lei, che non amava il combattimento, era stata costretta a lottare troppo. Il suo braccio destro era diventato una frusta nera, sulla cui estremità era montata una punta, che ora sferzava l'aria nel vano tentativo di ferire quell'intrusa. Quando anche quella serie di colpi terminò, Raffaella poté finalmente fermarsi.
Guardandola adesso non sembrava più una donna. Il volto era spigoloso e chiaramente maschile, e il trucco pesante stava venendo via a causa del sudore. Anche il suo corpo, incredibilmente magro, assomigliava a quello di un uomo, comunque lei voleva che si usasse il femminile nei suoi riguardi. La pelliccia che aveva preso ora era legata intorno alla vita, per avere un minimo di decenza.
Raffaella era stata la dea del fallimento. Le persone si rivolgevano a lei affinché non portasse alla rovina i loro progetti. Alla fine, impazzì e, indifferentemente dai doni e dalle preghiere, si divertiva a distruggere qualsiasi cosa. Fu questo il motivo che portò il Grande Padre a cacciarla dal Palazzo. Io non riuscii a conoscerla ma non ho mai avuto nessun interesse nei suoi confronti.
Ora era in piedi, visibilmente stancata dallo scontro, ma con poche ferite.
Manius sembrava ancora carica di energie, immobile anche mentre la lunga frusta tornava a essere un semplice braccio. Aveva addosso il completo classico con il quale veniva alle riunioni divine, magicamente apparso sulle sue carni in qualche momento della lotta.
La dea era stupita di quanta forza potesse possedere un non-più-dio, cacciato dal pantheon. Alla fine, pensò, l'essenza divina continua a permeare il corpo rendendolo comunque potente. Non era al pari di un dio, se ne accorgeva, e se solo lei non avesse odiato così tanto il sangue e la lotta a questo punto la sua nemica sarebbe già caduta priva di vita in qualche punto del campo.
Durante lo scontro però avevano parlato, o meglio, la non-più-dea, era riuscita a dire ciò che voleva alla divinità protettrice del tempio.
La tua proposta non mi interessa” esclamò come fosse una risposta scontata. La sua avversaria sembrò comunque sorpresa.
Peccato, spero comunque di essere la benvenuta nei tuoi templi e nei...” il tono di Raffaella di fece più malizioso e provocante “...tuoi riti”.
Manius non si mosse, solo la sua bocca acquistò un'espressione contrariata, quasi disgustata. “Tu non sei mai stata la benvenuta e mai lo sarai!”
Peccato... tanto vale morire!” esclamò lanciandosi in un'ultima carica, facilmente prevedibile, verso la dea. Questa non si fece sorprendere né pensò troppo alla sua reazione: il suo braccio si portò in avanti in affondo trasformandosi in una lunga e resistente lancia che incontrò presto le carni della nemica in corsa. L'asta era lunga almeno cinque metri ma la dea teneva sollevato il braccio trasformato senza alcuna difficoltà, anche mentre il corpo di Raffaella scivolava lungo l'asse di legno verso Manius.
Ormai aveva vinto, in modo anche troppo facile. Uno scontro così arduo terminato in tale maniera? La dea si dimostrò sospettosa e furba rimanendo fuori dal santuario a scrutare, aspettandosi una trappola. Il tempo passava ma non accadeva niente. Lei lanciava le occhiate a quel corpo morto immobile e attorno a sé, scrutando l'erba mossa dal vento.
Era tutto talmente tranquillo che si convinse che non doveva trattarsi di una trappola.
Manius era comunque agitata, scossa fin nella più piccola piega della sua anima. Si accorse che era qualcosa di strano, troppo strano.
Ne avrebbe parlato con il Grande Padre.

Quando arrivò il mattino, con quel grande sole che compariva all'improvviso, Manius era già nella stanza circolare.
Il suo corpo era avvolto dalla nebbia e sentiva i messaggi del Grande Padre direttamente sulla pelle, come emozioni che invadevano il suo corpo. Forse comunque lui comunicava con la voce come a tutti, eravamo noi a 'sentirlo' in maniere differenti. Stavano parlando da qualche minuto e già si erano detti molte cose.
Amai, capisco quello che mi dici. Ho sentito dentro il tuo animo questa preoccupazione”.
Possibile che una divinità decaduta possegga tutto questo potere?” domandò lei.
La stessa essenza divina che permea una divinità è sede del potere. Anche se viene privata del titolo e della benedizione, una dea è sempre una dea”.
Credo che sarebbe opportuno stanarla e chiarire i conti”. Anche se la cosa la riguardava poco, o solo in parte, Manius, rispettava tutti i compiti divini tra cui anche il mantenimento della pace tra i mondi.
Credevo che tu l'avessi uccisa”
Lei rimase un po' stupita, quasi si aspettasse un'altra reazione. “Si, Grande Padre, ma sono convinta che fosse solo un corpo posseduto dal suo spirito”.
Ah!” sospirò il Grande Padre, allo stesso modo di un vecchio dopo che gli viene ricordata una cosa che già sapeva. “Avevo letto anche questo nel tuo animo”.

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Ringrazio per le recensioni ricevute.
Ringrazio Kanako91 per le correzioni e i complimenti. Sono sempre stato un po' poco attento a questi particolari ^o^ è un bene che qualcuno lo faccia notare.
Ringrazio anche Land of Dreams per aver inserito la storia tra le seguite ^o^
E ringrazio Cleo92 per i complimenti.

   
 
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