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Autore: Lau33    16/12/2018    2 recensioni
Tutti abbiamo paura. Tutti fuggiamo da qualcosa che non abbiamo il coraggio di affrontare.
La storia di una famiglia devastata dal dolore e dalla paura, che cerca di ricomporsi senza mai riparare le crepe.
---> Seconda classificata al contest 'Only daily life', indetto da 6Mikaki sul Forum di Efp
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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RIMPIANTO SCARLATTO




 

Infilo il casco e sollevo il cavalletto. Ancora una volta avevo sentito il bisogno di andarmene da lei. Da quella casa, che non faceva altro che ricordarmi anni di violenze e atrocità.

Tutto iniziò sette anni fa, quando avevo solamente dieci anni. Ero una bambina, e vedevo ogni giorno mio padre tornare a casa con uno strano colorito in volto, ondeggiando come se avesse avuto il mal di mare. Non sapevo nemmeno cosa fosse l’alcool. Ma imparai presto a riconoscerlo.

L’alcool è la scintilla che fa scatenare un incendio dirompente, che travolge inconsapevolmente le vite di chi lo assume e di chi gli sta vicino. Mio padre iniziò a bere, e poco dopo iniziarono le violenze su mia madre. Non dimenticherò mai le sue urla stridenti che l’accusavano di essere la causa delle sue sofferenze, che le intimavano di stare zitta o altrimenti…

O altrimenti? Nonostante stesse zitta, la picchiava comunque, e continua tuttora. E col tempo la sua figura diventava sempre più incomparabile con quella che la me bambina aveva sempre avuto nella testa. Una persona completamente diversa. Se all’inizio cercai di scacciare il pensiero di avere un padre alcolizzato, rinchiudendomi nella mia stanza e rifugiandomi nell’angolo più sicuro e protetto della casa, sperando che tutto ciò non fosse vero, col tempo non riuscii più a dissimulare la consapevolezza che non avrei mai potuto crescere con un padre su cui contare.

Che non avrei mai potuto avere un padre.

 

Quante volte ho cercato di fermarlo, ma le mie braccia deboli non reggevano il confronto con le sue. Quante volte l’ho pregato di smettere, ma sembrava avere il vino perfino nelle orecchie. Quante volte ho cercato aiuto, ma lui mi fermava prima che potessi farlo; ed era meglio non protestare.

Crescendo, diventai insofferente verso questa situazione. Non riuscii più a sopportarlo: nella mia mente continuavo a vedere l’immagine dei suoi pugni nell’addome di mia madre. Continuavo a vedere quel sangue scarlatto macchiare il pavimento.

Non cercai più di fermarlo.

Ho paura. Semplicemente, questo. Ho paura di lui, di come possa evolvere la situazione, di cosa possa fare a me e a mia madre, arrivato al limite. Ho paura di diventare come lui. Ho paura di ammettere ad altri e a me stessa che il mio vero padre, colui che avrebbe dovuto crescermi con tutto l’amore che un genitore può dare, è in realtà ciò che mi sta rovinando la vita.

E come me, anche mia madre ha paura, non solo di lui e delle sue azioni violente, dei suoi impulsi nervosi, dei suoi scatti di rabbia, ma anche di ciò che saremmo potuti diventare. Trasgredendo i suoi idolatrati ideali cristiani di famiglia perfetta, di amore, di rispetto. Mi sento immensamente diversa da lei, ma forse siamo uguali. Lei ha paura di infrangere quelle sue sacre leggi a cui si aggrappa come fossero verità universali. Io ho paura di dire a me stessa la verità, ho paura di accettare la realtà.

Abbiamo entrambe paura di quanto la nostra vita possa cambiare.

 

E come lei ha la sua fede in quel Dio, io ho la mia moto, per scappare da questo dolore. Sentire il rombo del motore quando accelero o lo stridere dei freni quando rallento. Amo tutto di lei.

In una di queste sere, salire sulla sua sella è indispensabile per me. Devo fuggire da questa vita, in qualche modo. Un po’ come fa anche lui…

Tutti scappiamo da qualcosa. Ognuno ha i propri peccati.

Sento il vento macchiarmi di velocità, di quell’unica colpa che non riesco ad espiare, di quell’unica certezza che mi rende, agli occhi di un qualsiasi altro essere umano, viva. Attraverso lo spesso vetro della visiera vedo la candida luna che si riflette sull’asfalto; la luna sembra così lontana da questa vita.

Ripenso a ciò che ho detto a mia madre. A quanto avrei voluto un’altra vita e a quante volte mi sono chiesta perché non potessi averla. Perché dovessi seguire quel Dio di mia madre, che tanto dolore aveva previsto per me nella vita. Con la mia moto mi sembra di sfuggire a quel suo volere onnipotente, con la velocità mi sembra di vivere secondo le mie regole. In libertà.

 

Ho deciso di fuggire da Dio, ma non mi sono mai chiesta quale dei due sia più veloce. Forse è davvero più veloce di me.

 

Non faccio in tempo a sterzare, la macchina che mi viene incontro viaggia a una velocità pericolosamente alta; non faccio in tempo a frenare, la macchina che mi viene incontro ondeggia, come mio padre quando torna a casa. Ondeggia come lui, proprio perché c’è lui dietro al volante. E non si è accorto di me, né della doppia linea continua dipinta sull’asfalto.

 

L’esplosione percuote il silenzio della notte e infrange il suo buio infuocandolo di rosso. Scarlatto, il colore delle fiamme vive.

 

Mi chiesi se Dio avesse deciso tutto questo per noi. Mi chiesi perché. Ma Dio non rispose alle mie domande, forse perché non c’erano risposte.

 

Credo di aver perso conoscenza per qualche minuto, mi risveglio in una nube di fumo, con la vista annebbiata. Non credo di aver mai sentito un dolore così forte. Cerco di trattenere il respiro, che sembra infilzare il mio addome come una lancia. Cerco di non pensare al fatto che non ho sensibilità nelle gambe e che avverto un dolore lancinante alla testa. 

Solo ora sento l’acuta sirena dell’ambulanza rimbombarmi nelle orecchie e percepisco le mie mani strette in due morse. Sono i miei genitori.

I miei genitori mi stanno stringendo le mani, sono uno accanto all’altro, vicini, senza grida o aggressioni. Stanno piangendo.

 

Vorrei chiedere a mia madre se il suo Dio mi potesse salvare, ma non lo faccio. Dalle sue mani congiunte, capisco che lo aveva già chiesto lei; dai suoi occhi pieni di lacrime, capisco che nemmeno a lei era stata data risposta. Sto morendo.

 

Alzando gli occhi, pesanti come macigni, mi resi conto che, anche quella notte, mia madre indossava quel maglione. Quel maglione rosso che aveva nella fotografia di dodici anni fa. Il maglione sanguigno, come ciò che sgorga dal mio addome come un fiume in piena. Un rosso scarlatto. Come l’amara nostalgia che provo perdendomi tra i fili di lana. Il suo maglione, quello a cui mi aggrappavo da bambina come fosse un appiglio ed io una scalatrice. Come fosse una sicurezza su cui arrampicarmi. Un vecchio maglione, ricucito innumerevoli volte da mia madre dopo essere stato strappato nelle lotte quotidiane, ma che ogni volta acquistava più fascino, forse perché, proprio come si crede in Giappone, un oggetto rotto ha più valore di uno integro. In Giappone, le fenditure dei vasi infranti si impreziosiscono con l’oro.*

Ammirai la bellezza di quel maglione pieno di crepe, come la nostra famiglia. Mi resi conto di non aver mai provato a ricucirle, di non aver mai provato a vedere dell’oro in quel dolore. Non abbiamo mai provato a vedere il dolore degli altri. Le paure degli altri.

Anche mio padre ha paura, anche mia madre ha paura, anche io ho paura. Perché non ci siamo mai aiutati?

 

«A-abbiate il coraggio di affrontare la paura.»

 

La mia mano si avvicina febbrilmente a quella manica rossa che ora è così difficile distinguere dal resto. Sento l’intreccio della lana carezzarmi i polpastrelli. E tiro con tutta la forza che mi rimane, come se fosse il mio ultimo compito. Credo lo sarà. Tiro un filo di lana dalla manica del maglione di mia madre, come fosse una corda spessa. È un movimento quasi istintivo. Ho bisogno di quel filo. Ho bisogno di un pezzo di infanzia, di forza e di spensieratezza da portare con me, ho bisogno di un ultimo appiglio prima di arrampicarmi sulla grande montagna dell’oblio. Ho bisogno di aiuto per affrontare la grande paura.

Mia madre e mio padre mi stringono la mano, io stringo quel filo.

Mi aggrappo a quel rimpianto di vita non vissuta e di dolore mai affrontato, per non ripetere questo errore. Spero che i miei genitori l’abbiano capito, e che il nuovo grande dolore della mia morte dia loro la forza per superare il precedente. Sento le urla di mia madre nelle orecchie e le lacrime di mio padre sulla pelle. Sto morendo.

Ma questa volta non è una fuga pavida, ma coraggiosa. Sorrido. 

Finalmente ho trovato quella forza di cui avevo bisogno. Sono pronta ad affrontare la paura.

Immaginavo che la grande fuga avesse un sapore diverso, acre o amaro. Invece, è immensamente dolce.

 

 

 


*Kintsugi: l’arte di riempire con l’oro le crepe degli oggetti in frantumi.

  
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