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Autore: Mary P_Stark    11/02/2019    2 recensioni
Clearwater, Canada. 2018.
Il pellegrinaggio forzato di Irish Walsh ha una battuta di arresto a causa di un banale pneumatico forato. Ma, grazie a questo incidente - o al destino -, ciò le permetterà di scoprire particolari di un passato che non conosce e di una vita che non ha voluto ma che le è stata imposta da mani disattente.
Clearwater sarà il punto d'inizio di un viaggio di ri-scoperta di se stessa e delle sue radici ancestrali e, grazie ad altri come lei, depositari dell'antico sangue di Fenrir, i misteri di un passato comune e antico avranno finalmente una risoluzione.
Niente però avviene con facilità, e lunghe ombre si addenseranno su di loro, complicando un cammino di per sé già impervio. Starà ad Iris e ai suoi nuovi compagni di viaggio, riuscire a fare in modo che nulla interferisca con la scoperta della verità. - Segue le storie de La Trilogia della Luna
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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Aprile 2018 – Nei pressi di Clearwater (Columbia Britannica)

 

 

 

D’accordo, doveva decidersi a fermarsi.

Diversamente, il suo camper l’avrebbe abbandonata prima del tempo, lasciandola a metà strada tra Grande Roccia Rossa e Immensa Cascata Blu.

Aveva sempre avuto l’abitudine, in tenera età, di dare nomi idioti a ciò che vedeva intorno a sé ma, a essere onesta, quei luoghi dispersi nel nulla non la aiutavano a smettere quell’infantile gioco.

Non v’era anima viva da miglia e miglia, le uniche cose che poteva vedere dal parabrezza erano alberi, rocce e cascate, perciò…

Insomma, non era interamente colpa sua se le veniva spontaneo sproloquiare con se stessa e inventare cose a caso.

Per lo meno, Iris si disse questo, quando vide un ponte di tronchi e vi passò sopra a velocità ridotta, pensando immediatamente ad accampamenti indiani, falò e penne al vento.

«Ponte Capo Indiano…» mormorò tra sé, riprovando per l’ennesima volta a recuperare una stazione radio decente, in quella marea infinita di montagne e foreste che era la Columbia Britannica, in Canada.

Erano ormai due anni che girovagava senza sosta, con il suo fido e gigantesco camper, un Liner Plus 1130GMax della Concorde.

Alla ricerca di un luogo in cui stabilirsi o, almeno, in cui tentare di vivere per un po’ di tempo, aveva iniziato il suo viaggio da Los Angeles, spingendosi dapprima verso le Montagne Rocciose e poi verso nord, zigzagando, fino a oltrepassare il confine canadese.

Da quando i suoi genitori erano morti in un incidente stradale causato da un pazzo al volante, il mondo le era crollato addosso, ammaccandola ben bene.

L’aggressione subita poche settimane prima di quell’evento tragico, le era apparsa irrilevante, al confronto con quello che era avvenuto a suo padre e sua madre.

L’averli persi entrambi, e a causa di un paio di ragazzini della Los Angeles bene strafatti di cocaina, era stato traumatico, per lei. L’aveva mandata davvero a terra.

Solo la presenza degli zii e delle cugine, l’aveva salvata dalla follia… e da ciò che era seguito all’aggressione notturna di cui era stata vittima a poca distanza dal suo appartamento in Venice Beach, a L.A.

Ormai non pensava più a quel delinquente – mai trovato dalla polizia, tra l’altro – ma, su di sé, avrebbe portato per sempre il suo marchio, il suo lascito oscuro.

Iris lanciò solo una brevissima occhiata al taglio slabbrato che aveva sull’avambraccio destro, prima di dedicarsi nuovamente alla strada, che si stava inerpicando lungo la valle come un lungo serpente senza fine.

Stava costeggiando il North Thompson River pur senza vederlo, visto che si trovava oltre un basso dirupo a strapiombo e, entro breve, avrebbe incontrato la cittadina di Clearwater, dove avrebbe cercato un meccanico.

Nel frattempo, si sarebbe persa in contemplazione delle sue splendide cascate, dei meravigliosi laghi del Parco Nazionale della zona e dei suoi paesaggi mozzafiato. Dopotutto, quel luogo era famoso proprio per le sue meraviglie naturali.

Forse, se le fosse piaciuto il posto, avrebbe deciso di fermarsi per un po’. Viaggiare le piaceva, ma era anche gradevole poter scambiare quattro chiacchiere con i propri simili, ogni tanto.

Quando infine imboccò il Clearwater River Ridge, seppe di essere arrivata a destinazione, per quel giorno.

Aprì quindi il finestrino per inspirare l’aria frizzante di quel luogo – era un miracolo che non stesse nevicando, visto che la primavera stentava ad arrivare – e ne ammirò il meticoloso ordine.

Come tutti i paesini canadesi era pulito, ben organizzato, e la gente non sembrava pazza o sotto l’uso di sostanze stupefacenti, mentre guidava.

Inoltre, nessuno usava il clacson come estensione della mano sul volante.

Grazie al GPS integrato, individuò subito un meccanico, in cui avrebbero potuto sicuramente controllare quanti secondi di vita avesse ancora il suo pneumatico anteriore destro.

Da quello che aveva potuto constatare alla sua ultima fermata, tutti i santi del Paradiso dovevano essersi messi a intonare benedizioni, visto che era da circa settanta miglia che viaggiava come sulle uova.

D’altra parte, non ne aveva caricata una di scorta – accidenti a lei! – e l’unico sistema per sopravvivere era stato raggiungere il primo paese degno di tale nome che potesse averne di ricambio.

Quando, perciò, inforcò il cortile dell’Insight Tirecraft, si concesse un sospiro di sollievo… esattamente come lo pneumatico, che esalò l’ultimo respiro prima di esplodere.

Con un pssst a fare da colonna sonora al suo arrivo, e un progressivo affossamento del camper verso destra, Iris bloccò il suo mezzo nei pressi del parcheggio e, soddisfatta, uscì per ammirare il danno.

In quel mentre, uno dei meccanici raggiunse l’esterno – attirato certamente dal suono dello pneumatico – e, nel notare la giovane accanto al camper e il suo sguardo divertito, esordì dicendo: «A quanto sembra, ha tirato le cuoia al momento giusto.»

Sorridendo spontaneamente, Iris annuì all’indirizzo dell’uomo, barbuto e dal volto abbronzato, e disse: «Erano settanta miglia circa che viaggiavo con il patema d’animo, e i sensori del mio camper non mi hanno aiutata, ricordandomi con le loro lucette le condizioni pessime della gomma. Meno male che non ho dovuto fare delle salite impervie.»

«Non devo neppure chiederle se devo cambiarle lo pneumatico» ironizzò l’uomo, allungandole una mano. «Wilford Johnson, molto piacere. Sono il proprietario della baracca.»

Iris strinse la sua mano protesa, asserendo: «Iris Walsh, piacere mio. Sa per caso se, al Clearwater/Wells Gray Camping abbiano posto, in questo periodo? Camper a parte, mi piacerebbe fermarmi per un po’.»

Sorridendo, Wilford replicò: «Mio nipote e mia cognata gestiscono il campeggio. Provo a chiamare subito.»

«Molto gentile, grazie. Il posto è molto bello, e credo valga la pena di visitare questo scorcio di Canada» dichiarò Iris, poggiando le mani sui fianchi e guardandosi intorno.

Sì, quel posto le piaceva e, per qualche tempo, avrebbe potuto essere la sua casa.

Wilford, allora, chiamò uno dei suoi ragazzi perché si prendessero cura del camper di Iris e, nel contempo, telefonò a suo nipote per avere lumi circa le prenotazioni al camping.

All’okay di Wilford, Iris si tranquillizzò.

Non sapendo che altro fare – gli operai stavano uscendo per il break di mezzogiorno e il camper non sarebbe stato pronto che nel pomeriggio – si incamminò a piedi verso il centro, così da trovare un posto dove sgranocchiare qualcosa.

Dopo aver camminato con passo quieto per qualche centinaio di metri, si fermò dinanzi all’ingresso dello Strawberry Moose, un localino dall’aria affascinante e curiosa. L’insegna, oltre a essere enorme, era abbellita da una buffa renna rosa che sembrò darle il benvenuto.

Iris lasciò quindi che i morsi della fame avessero la meglio su di lei – come al solito – ed entrò nel locale in legno e vetro con un sorriso speranzoso in viso.

Ancora una volta, si era spinta a mangiare più tardi del necessario, indebolendosi più di quanto non avesse bisogno. Avrebbe dovuto darsi una regolata o, prima o poi, l’avrebbero trovata sdraiata in mezzo a una strada, priva di sensi.

La grande sala da pranzo era interamente in legno e, pur se un po’ spartana, denotava pulizia, ordine e  un senso di gradevole benvenuto. Apprezzò subito il tepore che le accarezzò la pelle, oltre all’indubbio aroma di cibo di quel luogo.

Il localino era davvero grazioso, e l’onnipresente renna rosa la faceva da padrone, così come i menù sfiziosi e coloratissimi posizionati a ventaglio su tutti i tavolini.

Una cameriera in tenuta bianca e rosa e con i pattini ai piedi si avvicinò a lei tutta sorridente e, palmare alla mano, la accompagnò a un tavolo prima di prendere la sua ordinazione e schettinare via veloce.

Iris sorrise di fronte a quella scena in stile anni ‘80 e, nel curiosare volti e persone presenti, cominciò a farsi un’idea del posto.

Era mezzogiorno passato, molti stavano fermandosi per il pranzo e, ben presto, quel locale sarebbe stato caotico e pieno di persone tra le più disparate.

Un luogo ideale per capire se, tra quella gente, avrebbe potuto sentirsi a proprio agio oppure no. Aveva davvero bisogno di capirlo, o non avrebbe potuto fermarsi in nessun modo, neppure in quel luogo apparentemente così grazioso.

Circa dieci minuti dopo aver ordinato, la stessa ragazza in rotelle tornò con il suo vassoio e, sempre sorridendo, le consegnò una bistecca al sangue e una generosa dose di verdura cotta.

Dopo averle lasciato lo scontrino, si involò verso uno dei tavoli che stava riempiendosi e, subito dopo di lei, altre due ragazze uscirono dalle cucine, tutte dotate di pattini.

Una di loro, aveva persino le corna rosa della renna dell’insegna.

Al bancone del bar comparve un giovane sui trent’anni, alto e piacente, dalla chioma fulva e gli occhi azzurri come il cielo che, immediatamente, ci diede dentro con la macchina del caffè.

Le chiacchiere presero a crescere d’intensità, come una marea che monti lentamente ma senza scampo e Iris, sorridendo tra sé, decise di lasciarsi travolgere.

Dando libero sfogo alla sua fame, lasciò che quel chiacchiericcio le facesse compagnia e, dopo il primo morso – la carne era ottima –mangiò di gusto e sperò che la fame passasse così come era venuta.

Scalpiccio di piedi, voci possenti, gran risate e dialoghi disparati la accompagnarono per tutta la durata del suo pranzo, ma fu solo quando giunse un piccolo tornado in miniatura, che levò il capo per la curiosità e il divertimento.

Una bimba dai capelli nerissimi e lisci, su cui spiccava un berretto da baseball, salutò con ampi gesti le cameriere per poi piazzarsi sicura a un tavolo d’angolo.

Lasciò quindi cadere la cartella a terra assieme al borsone della palestra e, tutta contenta, sorrise all’uomo al suo fianco, di certo più ombroso e serioso rispetto a lei.

Iris ne curiosò il volto abbronzato e dai lineamenti forti, in parte nascosti dalla barba scura e dai capelli lasciati un po’ lunghi e selvaggi intorno al collo taurino.

Era imponente, constatò dopo un attimo.

Le spalle erano davvero ampie, forse dovute al lavoro che svolgeva, o forse a causa di una cura maniacale per il proprio corpo, Iris non poteva saperlo.

Di sicuro, era un lavoratore indefesso; le sue mani apparivano ruvide e con le unghie cortissime. Portarle anche solo un poco più lunghe, avrebbe voluto dire rompersele di continuo.

Uno spaccalegna, forse?

Iris ipotizzò fosse possibile, visto che in zona erano presenti molte falegnamerie e piccole botteghe di artigiani del legno.

In ogni caso… perché continuava a fissarlo?

Tornando in fretta alla propria bistecca, Iris non poté comunque esimersi dall’ascoltare il trillante cicaleggio della bimba. Esso galleggiava nell’aria come un profumo speziato, solleticandola e incuriosendola.

Sorrise perciò spontaneamente quando, simile a una radio, ella iniziò a raccontare tutto della sua giornata a quello che, come Iris scoprì durante il suo monologo, era il padre.

Per tutto il tempo, Iris si aspettò di veder comparire anche la madre della ragazzina, ma nessuna donna giunse, se non una cameriera più intraprendente delle altre, che salutò la bimba prima di fissare con insistenza l’uomo.

La bambina le dispensò un sorriso cauto, mentre l’uomo si limitò a un ‘ciao, Alyssia’, e poco altro.

La giovane parve sospirare spazientita ma prese l’ordinazione e, poco dopo, questa venne servita da una delle ragazze dotate di schettini.

Molto più tardi e diversi monologhi dopo, a pranzo fu terminato, Chelsey – come scoprì Iris verso la fine del loro interludio – balzò dalla sedia e passò di tavolo in tavolo, salutando tutti i presenti.

Il padre la lasciò fare, guardandola con amorevole esasperazione.

Evidentemente, lì la conoscevano tutti, e quello strano ficcanasare non dava fastidio a nessuno.

Iris si aspettò di essere bellamente esclusa da quello strano rituale, essendo un’estranea, ma si sbagliò di grosso.

Tutta impegnata a finire le sue verdure, la giovane si sorprese, infatti, quando nel suo campo visivo comparvero gli stivaletti lucidi di Chelsey.

Levando il capo per la curiosità – la bambina profumava di muschio e di fiori – Iris le sorrise cordiale e disse: «Ehi, ciao…»

«Ciao a te. Sei nuova, vero?» rispose per contro Chelsey, inclinando il capo di scuri capelli per scrutarla con aperta curiosità con i suoi profondi occhi nocciola.

«Colpita e affondata. Vengo da Los Angeles» asserì allora Iris, accentuando il suo sorriso.

La bambina sgranò gli occhi, a quella notizia, esalando un ‘wow’ sorpreso e ammirato.

Già sul punto di chiederle altro, il vocione profondo del padre la fece sobbalzare, e un lento rossore si impadronì delle gote naturalmente bronzee della bimba. Che avesse sangue indigeno nelle vene?

Volgendosi entrambe in direzione del suono di quella voce – il padre si trovava al bancone del bar, intento a pagare le loro consumazioni – Chelsey sorrise contrita e disse a mezza voce: «Non disturbo, davvero!»

Poi, volgendosi speranzosa in direzione di Iris, aggiunse: «E’ vero che non disturbo?»

Iris sorrise maggiormente di fronte a quella richiesta di aiuto e, nell’annuire, lanciò poi un’occhiata all’uomo e disse: «Va tutto bene, sul serio.»

«Se le dà fastidio, la cacci pure. Chelsey deve imparare a farsi gli affari propri» brontolò l’uomo, tornando a parlare con il giovane al bancone del bar.

A quel punto, Iris e Chelsey si guardarono divertite e quest’ultima, afferrando la sedia libera al fianco dell’adulta appena conosciuta, asserì: «Papà non ama molto che io mi impicci degli affari degli altri, ma in fondo non faccio nulla di male, no? Tu avevi finito, vero? E due chiacchiere fanno piacere a tutti. Poi, qui a Clearwater girano un sacco di turisti, ed è bello sentire da dove vengono, cos’hanno fatto prima di venire qui e…»

Chelsey continuò per diversi minuti quel monologo sfacciato quanto delizioso, e Iris si perse in contemplazione di quegli occhi nocciola colmi di eccitazione e curiosità.

Non tentò minimamente di interromperla, annuendo alle sue esternazioni e rispondendo brevemente alle sue domande.

Era letteralmente affascinata da quell’autentica esplosione di energia formato bambina e, quando un’ombra calò su di loro, si sorprese non poco, sobbalzando in risposta.

Non si era affatto accorta dell’arrivo del padre di Chelsey!

Levando il capo fin quasi a farsi dolere al collo – quell’uomo era davvero alto! – Iris gli sorrise cauta e disse: «Sua figlia è un’autentica forza della natura, sa?»

«Un modo carino per dire che è una radio senza interruttore per lo spegnimento» replicò l’uomo, sorridendo per contro alla figlia, che non se la prese per il lieve rimbrotto.

«Ci rivedremo ancora, Iris Walsh di Los Angeles, allora? Sono sicura che il parco ti piacerà molto. Le cascate piacciono a tutti!» esclamò a quel punto la bambina, balzando via dalla sedia per afferrare la mano del padre.

L’uomo fissò scocciato la figlia, e Chelsey fece la lingua come per scusarsi.

«E’ un’impicciona. La scusi» brontolò a quel punto l’uomo, lanciando un’occhiata distratta a Iris.

«Nessun problema, davvero» replicò però la giovane, salutando poi con una mano Chelsey, che stava trascinando via con sé il padre. «A presto!»

«Ciao!» esclamò la bambina, sbracciandosi con la mano libera.

Il padre scosse il capo e, ancora, non la redarguì ma, nell’uscire dal bar, le ricordò alcune regole sull’educazione prima che lei gli ridesse in faccia con ironia.

Iris li seguì con lo sguardo finché non svanirono oltre l’angolo del risto-bar e, a quel punto, non trovò altri motivi per restare.

Pagò il tutto, ringraziando per il buon pranzo dopodiché, a passo tranquillo, tornò verso l’officina e si appoggiò al guard-rail per aspettare la riapertura.

Lì, lasciò che il sole le illuminasse la lunga chioma color biondo platino rilasciata sulle spalle. Suo padre le aveva sempre detto che sembravano raggi di luna.

Sospirando, Iris desiderò parlare con lui, in quel momento.

Le sarebbe piaciuto discorrere del suo viaggio, delle sue decisioni – indecisioni, per meglio dire –, di come avesse deciso giorno per giorno il suo itinerario, ma tutto ciò era ormai impossibile.

Il suono del suo cellulare la ridestò da quei tristi pensieri e, quando Iris notò chi fosse all’altro capo, sorrise spontaneamente.

«Zio Richard… ciao» esordì Iris, lanciando uno sguardo attorno a sé.

La foresta si inerpicava selvaggia su per i pendii, mentre il via vai delle auto procedeva placido e tranquillo, lungo la statale. Sì, era davvero un luogo pacifico e senza grosse pretese.

«Allora, come sta la mia nipote preferita?» replicò l’uomo all’altro capo.

Iris rise, asserendo: «Sono la tua unica nipote, zio. Comunque, sto bene. Sono in Canada, ora. Columbia Britannica.»

«Sei a caccia di vampiri, tesoro?» ironizzò l’uomo.

«Quelli sono a Forks, zio, nello Stato di Washington» ironizzò Iris, rammentando bene quanto Richard l’avesse presa in giro, a suo tempo, per la sua cotta per uno degli attori di Twilight.

«Oh, giusto. Strano che tu non sia lì. Non avevi detto che vi avresti fatto tappa?»

«Alla fine ho fatto il giro lungo, ma conto di andarci, prima o poi» dichiarò Iris, sistemandosi distrattamente una ciocca dei capelli ribelli.

Una folata di vento glieli aveva scompigliati e, visto che mal sopportavano qualsiasi tipo di elastico, spilla o altro, non poteva che portarli slegati.

«E… per l’altra cosa, come siamo messi?» si informò allora Richard, calando di un’ottava il tono della voce.

Iris dubitava che stesse chiamando da un luogo in cui altri avrebbero potuto sentirlo, ma sapeva bene quanto lo zio fosse turbato dal suo scomodo segreto.

In fondo, lo era anche lei.

Non sapeva un accidente di niente del suo involontario quanto ingombrante lato oscuro, e non aveva la più pallida idea di come avrebbe potuto risolvere il problema.

Non si trovavano dei cartelli, lungo la strada, dove stava scritto ‘sciamano pronto a tutto per voi’, oppure ‘studioso di stranezze, che più stranezze non si può’.

Il suo viaggio era iniziato anche per questo, non solo per tenere nascosto a parenti e amici ciò che le era successo quella notte, quando era stata aggredita.

Richard – e anche Iris, alla fine dell’opera – aveva pensato sarebbe stato meglio per lei sparire per un po’, inventarsi quel viaggio con la scusa di riprendersi dalla morte dei genitori.

Schiarirsi le idee era stato imperativo in ogni caso ma, in cuor suo, aveva anche sperato di poter trovare qualcuno con il suo stesso problema.

Costui – o costei – avrebbe potuto aiutarla a venire a capo di quel guaio e, magari, anche guarirla.

Nessuno dei due sapeva se esistesse una cura a ciò che entrambi definivano ‘disturbo’, ma era una cosa da tenere assolutamente nascosta.

Una notizia simile avrebbe scatenato il panico nell’opinione pubblica, Iris sarebbe quasi sicuramente finita in qualche laboratorio d’analisi, e la ditta ne avrebbe risentito.

Iris era la prima a non voler danneggiare ciò che i genitori avevano messo in piedi con così tanta fatica, e sapere che lo zio se ne stava prendendo cura, la rincuorava.

Essere l’azionista di maggioranza non l’aiutava, e ormai gli altri membri del Consiglio cominciavano a mordere il freno, sapendola lontana, ma lo zio era stato bravissimo a gestire ogni cosa.

Non poteva, in ogni caso, permettere che le cose proseguissero a quel modo a oltranza. In un modo o nell’altro, avrebbe dovuto trovare una soluzione al suo problema, oppure tornare a casa con esso, e con tutti i suoi dubbi a farle da mantello.

«Diciamo che, per ora, gironzolare per riserve indiane è servito a poco. Anche se ho fatto delle conoscenze interessanti» riassunse Iris, scrollando le spalle anche se lo zio non poteva vederla.

«Sono sicuro che, prima o poi, troverai qualcuno. Come è successo a te, sarà successo anche a qualcun altro, ti pare? Anche se immagino che nessuno pubblicizzi la cosa» tentò di rincuorarla lo zio.

«Per lo meno, ho degli indubbi vantaggi sul piano personale. Non devo temere che qualcuno mi infastidisca» cercò di ironizzare la giovane, scrutando la propria mano libera con espressione dubbiosa.

«E’ l’unica cosa che mi fa stare tranquillo, sapendoti lontana, anche se… come va, in quei giorni

«Me ne sto alla larga da tutti, non temere. Non voglio rischiare di fare del male a qualcuno. Anche per questo, ho sempre scelto destinazioni lontane dalle grosse città» rabbrividì leggermente Iris, rammentando fin troppo bene cosa era successo la prima volta che il problema si era palesato.

Aveva dato di matto, quando si era risvegliata il mattino seguente, nel bel mezzo del suo appartamento… distrutto da cima a fondo.

Incredula, aveva subito controllato le registrazioni del circuito interno delle telecamere che aveva fatto installare, e ciò che aveva visto l’aveva quasi mandata al manicomio.

Per giorni si era chiusa in se stessa, evitando le chiamate preoccupate dei genitori e dei parenti e, quando finalmente si era decisa a parlare, papà e mamma erano morti.

Il mondo si era frantumato sotto i suoi piedi e, quando aveva visto zio Richard in ditta, pronto a dirigere il Consiglio degli Azionisti per quella riunione straordinaria, aveva ceduto.

Gli aveva detto tutto, pur se all’inizio lui non aveva voluto – o potuto – crederle.

Già presagendo una simile reazione, gli aveva mostrato le registrazioni e, alla fine del video, lo zio era quasi svenuto sulla sua poltrona, incredulo e spaurito.

In silenzio, aveva poi estratto il disco dal computer, lo aveva chiuso nella sua cassaforte e le aveva fatto promettere di mantenere il segreto.

Naturalmente, Iris aveva accettato, lieta che lui le avesse creduto e non l’avesse scacciata come il mostro che era diventata.

Richard, allora, le aveva consigliato di partire, di stare alla larga da L.A. per un po’, di capire cosa le fosse successo senza dare troppo nell’occhio, mentre lui si sarebbe occupato della Walsh Inc.

Iris aveva assentito piena di gratitudine e, presenziando alla sua prima riunione come azionista di maggioranza – avendo ereditato le azioni dei genitori –, aveva lasciato la gestione delle sue quote associative nelle mani dello zio.

Al Consiglio era stato detto che Iris avrebbe continuato a seguire l’azienda in remoto, mentre Richard avrebbe presenziato fisicamente anche per lei alle riunioni.

Iris veniva per questo costantemente aggiornata sull’andamento aziendale e, prima di ogni consiglio direttivo, le copie degli ordini del giorno le venivano mandati sul suo palmare.

Se non ci fosse stato suo zio, quell’intero viaggio sarebbe stato infinitamente più complesso, forse impossibile da portare avanti.

«Sei una ragazza in gamba, Iris. Sono sicuro che ne salterai fuori» le ricordò Richard con tono affabile.

«Oppure, mi costruirò una baita in Alaska e svernerò lì per il resto dei miei giorni» replicò lei, salutandolo prima di chiudere la comunicazione.

Sospirando, Iris lanciò un’altra occhiata ai boschi, inspirò con forza il profumo della resina dei pini, ascoltò lo stormire delle fronde mosse dal vento… e lo scalpiccio di alcuni cervi muli nel bosco.

Poco importava, per una come lei, che fossero a diverse miglia di distanza, rispetto a dove si trovava in quel momento.

Un lupo mannaro poteva fare un sacco di cose, a ben vedere tranne, forse, vivere una vita normale.


 





N.d.A.: come promesso, eccoci all'inizio di una nuova avventura, stavolta incentrata su licantropi che non sanno nulla del proprio passato, e che devono imparare davvero 'da zero' a essere ciò che sono, con tutti i rischi che questo comporta.
In questo caso, sarete voi gli/le esperti/e, e non loro e, spesso e volentieri, vi ritroverete a dire 'ma perché non fa questo, o quello?'
La dura battaglia del sapere è dunque iniziata... vedremo chi ne uscirà vincitore! Buona lettura!
  
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