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Autore: _Malila_Pevensie    11/04/2019    2 recensioni
Prima storia della serie "Le Saghe di Finian"
Il mondo di Finian non conosce giustizia da quasi cento anni, fin dall'istante in cui la tirannia della Regina Mirea ha avuto inizio.
Freya non l'ha mai vissuta in modo diretto, protetta dalla quiete delle Foreste di Confine in cui sua madre l'ha cresciuta. Le è stato fatto l'immenso dono della libertà e lei non ha mai pensato di lasciare il luogo che l'ha vista diventare ciò che è.
Aran, Principe alla corte di Errania, non ha mai visto in Mirea null'altro che la propria salvatrice. La sorte gli ha concesso ogni ricchezza e privilegio, ma gli ha lasciato anche un fardello d'immense bugie in cui non sa di star affondando sempre più.
La verità, celata dietro quelle esistenze che sembrano destinate a ripetersi sempre uguali a loro stesse, si rivelerà presto in tutta la sua schiacciante realtà.
Il loro destino, racchiuso in una Profezia antica di un secolo e ultimo lascito dei draghi, si presenterà proprio nell'instante in cui le loro vite entreranno inaspettatamente in collisione.
Il Tempo del Silenzio è giunto alla fine e il momento di scegliere si fa sempre più vicino.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO 1
-AL RIPARO DAL MONDO-


Guardò la radura. Attorno a essa si estendeva il bosco da cui proveniva solo il fruscìo  del vento e il verso di qualche animale ben nascosto nell'ombra.
Gli alberi, così alti da sovrastarla più di qualche braccio, lasciavano intravedere solo uno scorcio di cielo, di un celeste così pallido e delicato da sfumare quasi nel bianco delle nuvole.
Il potere che emanava da quel suolo s'irradiava ovunque, sembrava persino filtrare attraverso le suole dei suoi stivali; sapeva da dove proveniva tutta quell'energia.
Si girò verso il centro esatto della radura e una folata di vento leggero le scosse i lunghi capelli ramati. A pochi metri da lei vide il grande obelisco stagliarsi nella fioca luce che filtrava; l'aura che lo circondava era una prova di tutta la magia che doveva contenere.
Lungo la pietra che lo formava si avvolgevano spirali, sette per la precisione. Si avvicinò lentamente, quasi con religiosità, e ne vide i colori.
All'interno di quelle scanalature, modellate con chissà quale incanto, correvano le scie di sei pietre. La ragazza le riconobbe.
L'agata muschiata, intrisa di ogni sfumatura del verde ; il diamante, limpido e cristallino, solido e invincibile;l'ametista, di quel viola meraviglioso intriso di sfumature interne che si espandevano quasi come volute di fumo; lo smeraldo, brillante, intenso e di quel verde che trasmetteva una sensazione di profonda comunione con la linfa vitale del mondo, della terra e della natura; il quarzo rosa, delicato e profondo, con qualche sfumatura bianca a screziarne la superficie; infine il rubino, rosso come la forza vitale, il fuoco interiore, un'antica e inestinguibile fiamma.
Un solco vuoto s'incrociava con i percorsi delle altre pietre, privo di qualsiasi gioia e colore; nel vederlo, senza una precisa ragione, una profonda tristezza la colse.
Le spirali s'incrociavano tra loro come a simboleggiare un infinito intreccio di destini.
Freya ne seguì il percorso con lo sguardo, fino a vederle culminare: lì, una luce più intensa colmò il suo sguardo. La settima pietra brillava intensamente.
La luce del granato era fulgida, sopra di lei, come la vedeva quasi ogni notte in quel sogno. Solo quella pietra era in grado di mantenere l'equilibrio, solo essa poteva bucare la corazza di oscurità che permeava la loro terra. Quella consapevolezza l'attraversava ogni volta e ogni volta lei non riusciva a comprendere da dove potesse venire.
Quella luce le dava speranza, la sentiva crescere dentro di sé, anche se sapeva che presto lo scenario della visione sarebbe mutato.
Così fu. Una folata gelida le soffiò sulle spalle e con un tremito di paura si voltò. Come tante altre volte in precedenza, lei era lì.
Guardò la figura ammantata che avanzava lentamente sul terreno muscoso, ma non con il profondo rispetto che aveva avuto lei. In ogni suo passo c'era brama, brama di conquista, come se il pilastro fosse la meta della sua vittoria. E forse lo era.
Quella figura trasmetteva un senso di paura sconcertante.
La sua lunga tunica nera fluttuava nell'aria fredda e tetra; la ragazza poteva scorgere i suoi occhi ridotti a due fessure sotto la maschera lucida e nera, incorniciata dal cappuccio del mantello, nero anch'esso, un po' come lo stava divenendo tutto.
Persino il cielo si era coperto.
La studiava con una calma apparentemente normale, mentre in mano stringeva uno scettro sormontato da una grande prisma in pietra d'onice. Freya sapeva cosa sarebbe accaduto ma non si mosse comunque, spinta dal desiderio di proteggere quella gemma così importante per l'equilibrio del loro mondo.
Di nuovo un pensiero che non pareva proprio appartenerle.
Ancora qualche passo verso di lei e la figura spalancò gli occhi.
La ragazza li vide fissarsi nei suoi e fomentare il suo terrore, gelandola con quel colore così chiaro da essere quasi più trasparente del ghiaccio. Con un ampio movimento del braccio la sinistra presenza portò lo scettro davanti a sé. Un'enorme sfera violacea esplose dal grande onice.
Freya la sentì colpirla al petto e inondarla di una scarica di dolore. Mentre la vista le si annebbiava, pensò che avrebbe dovuto assolvere meglio il proprio compito.

Sentendo un colpo al cuore, Freya si svegliò di soprassalto.
Non appena si fu messa a sedere le mancò il respiro e dovette sforzare al massimo i polmoni per inalare aria. Si mise una mano sul cuore e sotto il palmo lo sentì battere furioso.
Terrore. Era l'unica sensazione che provava mentre le scene di quel sogno le ripercorrevano la mente, confuse, come sempre. La radura, un pilastro intarsiato sormontato da un'immane bagliore, la figura nera, la morte che sopraggiungeva rapida.
Tutto questo le appariva in una miriade di frammenti sconclusionati, che lentamente andavano a ricomporre le immagini che avevano tormentato il suo sonno. La sola cosa buona che restava alla sua anima era l'immensa speranza provata, anche se tanto fugace.
Quello stesso incubo la perseguitava da fin troppo tempo per poter ricordare, insinuandosi nella sua testa quasi ogni volta che chiudeva gli occhi.
Riacquistò la percezione dell'ambiente circostante bruscamente; solo a quel punto riuscì a udire il forte ululato del vento all'esterno, che scuoteva il suo albero facendolo dondolare paurosamente.
Piano si girò nel letto e non appena posò i piedi a terra la sensazione del legno sotto le piante dei piedi le diede sollievo. Si alzò e barcollò indolenzita verso la porta; le bastò scostare la tenda ricamata che copriva l'uscio per essere accolta da sprazzi del cielo pieno di stelle che si mostrava attraverso le fronde dell'albero.
Una balconata di legno le si mostrò dinnanzi, sospesa fra i rami di quell'enorme quercia secolare;  avanzò a piedi nudi, senza timore. Quella era la sua casa da tutta la vita.
Aveva sempre vissuto tra gli alberi della foresta che si estendeva sotto i suoi occhi, protetta da tutto quello che infuriava all'esterno, ma nemmeno quel luogo che tanto amava sembrava poterla difendere da quelle assurde visioni.
Rabbrividì all'ennesima folata di vento che la investì e scrutò il nero manto celeste attraverso il fogliame che ombreggiava tutto intorno. Conosceva molto bene la solitudine, era diventata la sua unica compagna da anni, ma era solo in quegli istanti che tornava a pesarle come nei primi tempi. Solo in quei momenti di profonda vulnerabilità scopriva di ricordare nitidamente ogni singolo giorno che aveva passato aspettando sua madre.
Cercò disperatamente di rievocare il suo volto, ma come sempre più spesso le accadeva l'immagine le apparve sfocata, nascosta nelle pieghe del tempo che trascorreva inesorabile; quella era la sofferenza più grande, l'idea di star dimenticando la persona che più aveva amato in tutta la sua esistenza.
Riportando a galla quelle immagini non poté fare a meno di ripercorrere ciò che era successo; lo sguardo corse inevitabilmente alle proprie mani, intirizzite nel gelo della tempesta. Erano state quelle stesse mani la causa della scomparsa di Eleana, o almeno ciò che da esse scaturiva.
Non ne avrebbe mai potuto ricevere conferma né l'aveva mai detto ad alta voce, ma sapeva che ciò che era successo quel giorno di oramai sei anni prima era il fulcro di tutto ciò che era accaduto in seguito.
Era stato solo un momento, una brevissima e quasi invisibile scintilla. Stavano cogliendo erbe selvatiche nel sottobosco, quando senza sapere come un potere sconosciuto era sgorgato dalla punta delle sue dita.
Rammentava ancora quale meraviglia le fosse cresciuta dentro nel comprendere che era proprio lei la fonte di quel bagliore etereo, che pareva provenire da un altro mondo; il suo primo pensiero era stato di aver ereditato i poteri da Incantatrice di sua madre.
Poi Eleana le si era avvicinata e in un sussurro, quasi temesse di essere udita da qualcuno, le aveva detto che era arrivato il momento di tornare alla loro casa. Una volta al sicuro tra le fronde dell'albero, le aveva fatto un lungo discorso su quanto fosse importante che questa cosa la tenesse per sé e non la usasse come un gioco; Freya aveva annuito alle parole della madre, chiedendosi a chi mai avrebbe potuto rivelarlo se nella foresta non c'era mai stata anima viva all'infuori di loro e qualche bestia selvatica. La sua reazione le era sembrata insolita, ma si fidava di lei e e perciò si era trattenuta dal far domande.
All'epoca non immaginava che stava per perdere la persona che più amava al mondo; non l'aveva capito nemmeno quando, un paio di giorni più tardi, Eleana le aveva detto che sarebbe dovuta partire e che lei avrebbe dovuto cavarsela da sola per un po'.
Freya aveva nascosto alla madre la sua inquietudine perché immediatamente aveva compreso che quel viaggio era davvero importante. Aveva ascoltato con calma le ansiose raccomandazioni di Eleana, che le aveva detto di preoccuparsi solo nel caso in cui fosse trascorsa una luna dalla sua partenza e lei non fosse ritornata.
L'ultima immagine che aveva di lei era la sua esile figura che si allontanava a piedi nel sottobosco, umido della molta pioggia caduta in quei giorni, poi era iniziata la sua vita solitaria.
Quel mese era stato meno pesante di ciò che avesse creduto: la madre le aveva lasciato tutti i viveri necessari, in modo da costringerla a scendere dall'albero solo per procurarsi l'acqua necessaria a lavarsi e a rifocillarsi; nella parte coperta della loro dimora la ragazza aveva tutti i preziosi libri carichi di conoscenza che la donna aveva posseduto fin da quando lei aveva memoria. Aveva anche tutte le erbe necessarie a confezionare impacchi e infusi medicamentosi e sapeva già come utilizzarle.
Ma quando quelle quattro settimane si erano trasformate in due cicli lunari e poi in tre, lei aveva capito che la promessa che sua madre le aveva fatto prima di andarsene, la promessa che presto sarebbe ritornata da lei, non era stata mantenuta e non di certo per sua volontà.
Doveva essere successo di certo qualcosa, ma lei non poteva far nulla per sapere cosa o per cambiarlo. Quel senso d'impotenza era stato quasi impossibile da sopportare e forse per quella ragione ora cercava sempre una soluzione, qualcosa da fare, quando le si presentava un problema dinnanzi.
Il dolore, misto a un acuto senso di perdita. l'aveva colta e da allora l'aveva sempre accompagnata, anche se crescendo era diventato solo come una spina che ogni tanto la pungeva quando faceva un movimento troppo brusco. Aveva trascorso intere sere appollaiata sui rami della sua quercia a scrutare il nord, l'orizzonte dal quale sarebbe dovuta ricomparire sua madre, ma la foresta era rimasta muta di fronte alla sua supplica silenziosa.
Le era sembrato di essere destinata a vivere così, sola e in attesa, per un tempo eterno.
Eppure alla fine, in un modo o nell'altro, la vita era continuata: si era alzata da quella maledetta balconata e aveva deciso che sarebbe sopravvissuta a ogni costo, che in qualche maniera avrebbe dato un significato alla sua esistenza.  Fin da quel momento, le sue mani non si erano mai più illuminate di nuovo e lei non aveva mai più fatto nulla per tentare di evocare quei poteri che evidentemente dimoravano in qualche profondo recesso del suo essere; in lei era nata la convinzione che se a causa di quei poteri sua madre era partita in cerca di risposte e non era mai più tornata, non avrebbero mai potuto portare a nulla di buono.
Le sue stranezze, però, non terminavano lì. Fin da quando era stata abbastanza grande per capire qualcos'altro aveva popolato le sue notti, oltre a quella terribile visione. Non era un incubo, al contrario, ma era qualcosa che non avrebbe potuto definire nemmeno sogno; si trattava di null'altro che una voce. Una voce calda e profonda, venata di una sfumatura mascolina e ancestrale, che sempre le era venuta a parlare nel sonno, soprattutto nei momenti in cui aveva pensato di non potercela fare.
Aveva creduto di stare impazzendo quando si era resa conto di udirla e soprattutto quando aveva realizzato di non averla mai sentita durante le ore da sveglia, ma quando l'aveva detto a Eleana lei aveva sorriso e le aveva semplicemente risposto: “È solo il tuo spirito guida. Hai una grande strada davanti a te e lui è lì per aiutarti a percorrerla.”
Quella risposta enigmatica era riuscita in qualche strano modo a chetare le sue paure e Freya aveva così accettato anche quel piccolo particolare fuori dalla norma. Il suo Spirito Guida, così aveva sempre continuato a chiamarlo, l'aveva salvata in molte situazioni e le aveva impedito di perdere se stessa nel dolore e nella rabbia; fosse reale o meno, le aveva costantemente salvato la vita.
Lui, chiunque fosse, era sempre stato solo una voce, ma quando si svegliava in quelle notti fortunate Freya continuava a sentire la sua strana ed aleggiante presenza ancora per lunghi istanti e in qualche modo la paura scivolava via.
Quella notte, però, lo Spirito Guida non si era fatto sentire e lei era sola; studiò ancora per qualche lungo istante le stelle prima di dirsi che stava inziando a rimuginare troppo e decidersi a trovare un occupazione.
Sapeva già alla perfezione cosa avrebbe voluto fare in attesa della luce dell'alba. Si diresse verso la casa e rientrò, lasciandosi alle spalle il vento impetuoso e lo scintillio delle stelle; oltrepassò la sua stanza, in cui la luna gettava i suoi pallidi raggi di luce, ed entrò in quella adiacente.
Lì, come l'aveva lasciata lei sei anni prima, c'era la stanza di sua madre. Il suo letto semplice e ammantato solamente da una coperta color bronzo, un cassettone abbozzato nel legno e uno scrittoio perfettamente ordinato. Non aveva cambiato di posto nessun oggetto appartenuto a lei, come se sperasse che questo l'avrebbe mantenuta più viva nei suoi ricordi.
Con passi sicuri si diresse verso una lama d'ombra tra la parete in legno e lo scrittoio e di lì trascinò fuori un grande baule di legno chiuso da un chiavistello finemente lavorato; lentamente lo aprì.
Era completamente occupato da libri di tutte le dimensioni, pergamene e pile di fogli che la ragazza era certa di aver letto almeno una volta ciascuno. Sua madre era una donna molto colta e le aveva insegnato quanto il sapere e la conoscenza fossero fondamentali; erano le basi della vera libertà, le diceva sempre.
Era per questo che nonostante vivessero in mezzo alle Foreste di Confine le aveva insegnato a leggere, a scrivere e a far di conto; le aveva anche parlato di canti e miti e le aveva insegnato un poco di geografia, anche se davanti a una cartina aggiornata avrebbe probabilmente perso l'orientamento. Solo sulla storia si era mantenuta sempre piuttosto vaga, accennando a malapena qualche avvenimento di scarsa importanza avvenuto secoli e secoli prima e tenendola lontana dagli eventi più recenti, evitando le sue molte domande.
L'unica cosa che doveva sapere, le era stato risposto, era che il loro era purtroppo un mondo di tirannia e che questa tirannia portava un solo e unico nome: Mirea. Colei che con l'ausilio di sconosciuti poteri oscuri stava soggiogando lentamente l'intera Finian.
Era proprio per la realtà del mondo in cui vivevano che l'aveva istruita a combattere, contando soprattutto sull'arco che le aveva fabbricato, anche se fino ad allora non aveva mai avuto motivo di utilizzare quel tipo di abilità se non per procurarsi il cibo. Il pericolo che Mirea rappresentava le era sempre parso nebuloso e lontano, al sicuro fra le fronde delle sue amate Foreste.
Si sedette sul letto e prese il suo libro prediletto tra le mani; oltre a libri di studio, Eleana aveva conservato romanzi e scritti di leggende antiche, forse perdute, ma che lei oramai sapeva a memoria.
Il tomo che aveva tra le mani era il più elaborato e, con tutta probabilità, prezioso contenuto lì dentro: la copertina era rilegata in cuoio e su di essa correvano incise figure di animali mitologici, che per quanto sapesse non si vedevano nelle terre di Finian da almeno un secolo.
Era chiuso da una piccola serratura intagliata a formare un drago su un lato e un grifone sull'altro. Le zampe delle due creature s'incontravano sulla chiusura del chiavistello.
Prese una catenina che le pendeva al collo e una volta che se la fu sfilata si ritrovò a stringere tra le dita una piccola chiave non più grande del suo pollice. Ogni volta che la prendeva ricordava l'istante in cui sua madre gliel'aveva lasciata, l'ultima volta che le loro mani si erano toccate.
Con attenzione la mise nella serratura e la girò. Con un piccolo scatto le zampe di drago e grifone si separarono, lasciandole libero accesso alle pagine in pergamena ingiallita dal tempo.
Non appena sollevò la copertina sentì l'atmosfera intorno a lei cambiare; quel libro era avvolto da un'aura particolare che l'aveva sempre affascinata.
Non sapeva da dove venisse né dove sua madre fosse riuscita ad averlo, perché il volume era davvero molto antico: racchiuso lì dentro c'era tutto il loro mondo, la sua descrizione più autentica, quella che la tiranna Mirea non permetteva a nessuno di narrare da molto, troppo tempo.
Persino sua madre, sempre dolce e generosa, le aveva insegnato a non fidarsi per nessuna ragione delle truppe della tiranna. Eleana aveva ideato dei sistemi di copertura per la loro casa, atti a fare in modo che non la notassero i soldati che viaggiavano attraverso le Foreste e lungo il confine con quello che una volta era il grande Regno di Emeral, il territorio degli elfi.
Rimase lì a sfogliare delicatamente le pagine, sorridendo di tanto in tanto per qualche passaggio che amava particolarmente e leggendo di tutti i popoli di Finian; lesse con avidità soprattutto il capitolo riguardante i draghi. Apprendere dei loro poteri e delle loro peculiarità era qualcosa che l'aveva aiutata ad immaginare che, da qualche parte nella vastità del loro mondo, quelle meravigliose creture esistessero ancora; non sapeva per quale ragione, ma il solo pensiero che davvero fossero definitivamente spariti la riempiva di una struggente malinconia che le cresceva dentro come una marea che lentamente la soffocava.
Si ritrovava a vagare con la mente e a pensare quanto sarebbe stato meraviglioso visitare le loro terre, ma da quando Mirea aveva preso il potere non si sapeva nemmeno se la loro isola, Rubea, esistesse ancora nell'immenso Oceano Norn.
Altrettanto affascinante era il capitolo dedicato ai grifoni che, al pari dei draghi, sembravano appartenere a un passato lontano che mai sarebbe potuto tornare.
C'era solo una cosa che non era mai riuscita a capire di quel libro: alla fine di ogni sezione faceva puntualmente capolino una serie di pagine completamente bianche, apparentemente prive di alcun senso. Non era mai riuscita a comprenderne l'utilità, ma le piaceva credere che potessero celare in realtà un qualche mistero.
Spaesata da quelle strane emozioni scosse il capo, cercando di scacciare quei pensieri in grado di portare la sua mente alla deriva. La luce più intensa dell'alba la investì e si rese conto solo in quell'istante di avere mani e piedi intorpiditi. A malincuore richiuse il libro a chiave, lo ripose con cura nel baule che rimise al suo posto. Poi, gettando un ultima occhiata alla stanza, uscì richiudendosi la tenda alle spalle.
Rientrò nella sua camera e si tolse di dosso la camicia e le braghe di lana che usava per dormire così da potersi vestire. Anche gli abiti che indossava abitualmente di giorno non erano particolarmente femminili, ma con la vita che conduceva non si poteva certo permettere di indossare  fronzoli che l'avrebbero solo intralciata. Indossò così un paio di calzoni resistenti, una camicia e una giacca di pelle scura di cui allacciò le fibbie per proteggersi dal freddo della mattina. Infilò poi i suoi stivali, in pelle anch'essi, raccolse la parte superiore dei capelli per levarseli dalla faccia e prese l'arco e la faretra posati in un angolo, mettendoseli a tracolla.
Infine, uscì a grandi passi che rimbombarono sulle assi inchiodate all'albero e non appena fu al limitare della lunga balconata, spiccò un balzo verso il ramo più basso che trovò davanti alla sua vista. Lo afferrò saldamente e in meno di un respiro fu in equilibrio di su di esso: era così che preferiva muoversi, passando al di sopra di qualunque pericolo potesse presentarsi a terra.
Già la sera prima, preparando uno dei suoi soliti pasti frugali, si era resa conto che le scorte scarseggiavano: aveva quindi deciso che il mattino seguente sarebbe andata a pesca. Si era allenata a compiere anche quell'operazione usando il suo arco, perciò non le serviva altro, e sin da piccola aveva imparato come rendere conservabile il cibo che si procacciava. Spendeva molte giornate in quelle attività, tanto che oramai scandivano la sua vita più dell'alternarsi del giorno e della notte: erano ciò che le aveva garantito la sopravvivenza e la giovane aveva fatto in modo di affinarle quanto più possibile.
Senza esitazione, si avviò al fiume. La tempesta si era chetata e finalmente il cielo si stava schiarendo, ma un delicato sentore di pioggia saliva ancora dal sottobosco, molto più in basso. Era uno dei profumi che più amava; forse, per quella ragione si accorse subito che un'altro odore, molto più deciso, si stava facendo strada alle sue narici.
Si arrestò e, seguendo il proprio naso, guardò davanti a sé: un sottile filo di fumo si stagliava contro il cielo limpido d'estate. Come in risposta a quella vista, i suoi muscoli s'irrigidirono. Quasi sicuramente erano soldati di Mirea: non era raro che drappelli dei suoi uomini viaggiassero attraverso le Foreste di Confine. Piuttosto strana era invece la loro posizione: nessun contingente si era mai accampato tanto vicino al suo albero.
Assalita dal dubbio, Freya tentennò. Andare a controllare avrebbe potuto rivelarsi una follia, lo sapeva bene; eppure, qualche istinto misterioso le diceva che doveva farlo. Fosse curiosità o semplice desiderio di anticipare un possibile pericolo, non avrebbe saputo dirlo. Spinta da quella forza sconosciuta, iniziò a seguire quella traccia evanescente.
   
 
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