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Autore: Old Fashioned    16/04/2019    16 recensioni
Inverno del '44, la guerra volge alla fine. Due giovani assi della Luftwaffe si incontrano e sembrano trovarsi come le due metà di platonica memoria. Fra loro nasce immediatamente un'amicizia che presto diventa qualcosa di molto più profondo e intenso.
La guerra però non lascia scampo e i due sono chiamati a combattere un'impari lotta contro gli stormi di bombardieri che si susseguono sulla Germania.
Storia romantica, in cui amore, guerra e morte si intrecciano. Da leggere solo se piace il genere.
Prima classificata al contest Coincidenze perdute, appuntamenti mancati, scelte difficili: Sliding Doors Contest indetto da missredlights e Shilyss sul forum di EFP
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ed ecco qui, signori, abbiamo finito anche questo mappazzone. Il più cliccato di sempre, nella mia pagina, il che vuol dire che perlomeno ha riscosso un po’ di interesse.
Ringrazio tutti quelli che sono passati da queste parti a dare un’occhiatina, ringrazio molto chi mi ha messo in qualche lista e moltissimo chi è stato così gentile da lasciarmi anche un parere.
Alla prossima!






Terza parte

Essendo entrambi gravemente feriti, i due vengono inviati a un tranquillo ospedale nelle retrovie, dove rimangono fino alla guarigione. È lì che apprendono tramite un telegramma di aver ricevuto una settimana di licenza-premio.
“Che meraviglia, così ti posso invitare alla tenuta come ti avevo promesso!” esclama Siegfried. Si è perfettamente ristabilito, i suoi movimenti sono tornati agili e fluidi come quelli di un felino, i lineamenti sono distesi e gli occhi non più febbricitanti e lucidi di dolore.
Fissa Friedrich con aspettativa. “Ti ricordi che te l'avevo promesso, vero?”
“Certo.”
“E allora cosa farai? Verrai da me?”
Lützow abbassa gli occhi. Siegfried è di nuovo una statua crisoelefantina, di nuovo una lama affilata. Non ci sono ombre, in lui, né lunari lati oscuri. È un sole che irradia luce e calore con noncurante generosità.
Si morde il labbro. Ecco ricomparire la soglia, oltre la quale estasi e perdizione lo attendono. Cosa succederebbe se la varcasse? Quali sarebbero le conseguenze? Sa – lo sente, col cuore e con tutto il corpo – che il rapporto con lui non sarebbe solo un’amicizia, e al di là di tutti i discorsi sul Männerbund che gli hanno ripetuto fin dai suoi primi giorni nella Hitlerjugend, sa cosa succederebbe se la cosa venisse scoperta.
Perché la vita non è solo puro cielo in cui involarsi: c’è anche la grigia terra, abitata da persone che non capirebbero e condannerebbero. Persone che prenderebbero il giovane falco e lo trascinerebbero nel fango.
Proferisce parole ferali: “Vorrei passare a vedere i miei.”
Il sorriso scompare dal volto di Siegfried lasciando il posto a un’espressione costernata. “Avevi promesso,” mormora incredulo. I suoi occhi limpidi, incapaci di falsità, sono colmi di smarrimento.
“I miei genitori,” argomenta Friedrich, incapace di guardarlo in faccia. “Devo vedere come stanno. I bombardamenti, capisci anche tu. Il razionamento...” Si interrompe. Spinge la mano a sfiorare quella di Siegfried, che rimane immota. “Sono pur sempre i miei.” Alza su di lui uno sguardo speranzoso.
“Certo, capisco,” risponde in tono incolore von Kleist.
“Anche tu vorrai vedere i tuoi, immagino,” tenta Lützow.
Siegfried alza le spalle. “Non ce li ho più, i miei.”
Ora è Friedrich a rimanere costernato. “Cosa?”
Di nuovo un’alzata di spalle. “Acqua passata, nemmeno me li ricordo più.” Poi solleva come sua abitudine la testa e la scuote come farebbe un puledro. I suoi occhi sono di nuovo limpidi, liberi dal velo di malinconia che li aveva per un istante offuscati.
Friedrich non replica. Ormai conosce l’amico – qualcosa di più di un semplice amico – e sa che l’argomento è chiuso. “Potrei...” comincia.
In un istante, lo sguardo di Siegfried gli si punta addosso. Lui alza il proprio a incontrarlo e il cuore gli salta un battito. “Potrei stare dai miei un paio di giorni e poi venire da te.”
Appena pronunciata quella frase, capisce che non ci sarà ritorno: il suo compagno non conosce esitazione, non conosce dubbio. È luce pura, è fuoco e ardimento.
Decide di donarglisi. In cuor suo del resto sapeva già che non avrebbe potuto essere altrimenti. Spiega a sua volta le ali, preparandosi a solcare quell’azzurro che sarà estasi e rovina per entrambi.
“Solo un paio di giorni e poi sarò...” avrebbe voluto dire tuo, si accontenta di ripetere da te.
Siegfried sorride. Se anche lui sia consapevole di ciò che li attende, non è dato sapere. Forse sì, ma sua è la noncuranza dell’eroe, immune dai timori piccoli dell’uomo comune. “Ti aspetterò,” dice semplicemente, e questo è tutto. La sua mano ora stringe quella di Friedrich, il suo sguardo guizza a cogliere quello del compagno, poi corre al cielo solcato di nubi che si vede dalla finestra.

È un'elegante Mercedes nera che li va a prendere all'aeroporto di Tempelhof. La guida un dignitoso autista in livrea, che chiama Siegfried signor conte e gli porta con deferenza la valigia.
Vagamente impacciato, Friedrich si accomoda accanto al compagno su un sedile morbido, che odora di cuoio fine e colonia, e la vettura si avvia.
Tra i palazzi si allargano voragini sempre più ampie. Spesso l’autista è costretto a compiere deviazioni, perché in molte strade ci sono squadre di ragazzi della Hitlerjugend che sgombrano macerie.
I due si scambiano un’occhiata consapevole, quindi simultaneamente volgono lo sguardo al cielo, in quel momento coperto di pesanti nubi.
La Mercedes procede inoltrandosi nel quartiere popolare in cui risiede Lützow. Al suo passaggio, la gente rimane a seguirla con lo sguardo e i bambini smettono di giocare. Qualcuno saluta col braccio teso, forse scambiandola per l’auto di qualche membro del Partito.
Il palazzo di Friedrich, uno scuro caseggiato popolare del secolo precedente, è ancora intatto. La macchina vi si ferma davanti, l’autista spegne il motore, scende e apre la portiera.
Lützow guarda lo sportello aperto come se fosse il portellone di uno Junkers 52 in volo, poi volge lo sguardo al compagno.
Questi si limita a sorridergli incoraggiante. “Quando torno a prenderti?” gli chiede, come se lo stesse lasciando davanti a un grande magazzino per qualche compera.
“Verrò io da te,” risponde Friedrich, gli occhi di nuovo fissi sul tratto di marciapiede grigio che lo sportello aperto incornicia. Più oltre, dentro il portone, al di là del cortile, c’è la scala che porta al suo appartamento. Può quasi sentire l’odore di cavoli e liscivia che vi aleggia perennemente, gli pare di udire un’eco delle canzonette che la sua vicina di pianerottolo ascolta sempre alla radio.
Pensa a sua madre. La vede china sui fornelli, intenta a cucinare qualcosa di buono. Avverte di colpo una dicotomia profonda, quasi dolorosa, tra quell’immagine di tranquilla quotidianità e tutto ciò che ha attraversato negli ultimi tempi. Si sente un estraneo, o più propriamente un iniziato, che ormai guarda il mondo con occhi nuovi. Rivolge ancora lo sguardo a Siegfried, cerca la sua mano con la propria. “Verrò io da te,” gli sussurra all’orecchio.
E poi si butta, come dal portellone dello Junkers 52, aspettando che l’ombrello del paracadute si gonfi dietro di lui. Non si volta per seguire la Mercedes che si allontana, per cercare di carpire un ultimo lampo della nuca bionda di Siegfried nel lunotto posteriore, altrimenti è certo che non riuscirebbe più a raggiungere la sua vita precedente. Si allontana caparbio, i pugni stretti in fondo a braccia così rigide da far male, e si ripete che era l’unica cosa da fare, che è stato meglio così. Che volare troppo vicino al sole porta unicamente alla rovina.

Tenendosi appena fuori dal rettangolo di sabbia del maneggio, in tono forbito il maggiordomo annuncia: “Signor conte, la cena attende che lei si compiaccia.”
Siegfried interrompe la figura di dressage che stava eseguendo, smonta da cavallo e consegna l’animale a un garzone di stalla, quindi precede il domestico all’interno della villa.
La sala da pranzo è così grande che ogni rumore si scompone di migliaia di echi sull’alto soffitto. Lungo le pareti affrescate, cariatidi di donne in armi lo scrutano mute e severe. C’è un solo coperto, a capotavola. Dietro la sedia attendono immobili due camerieri in livrea.
“Buona sera, signor conte,” lo accoglie il più vecchio dei due.
“Buona sera, Johann,” risponde Siegfried, quindi si siede, spiega il tovagliolo e se lo pone sulle ginocchia.
In quel silenzio, il rumore del vino che viene versato nel calice è quello di una gora impetuosa, l’acciottolio lieve delle stoviglie fa pensare a sassi che rotolano lungo il fianco di una montagna.
Siegfried sposta con la forchetta ciò che ha nel piatto, assaggia un boccone di malavoglia, beve un po’, ma gli sembra che niente abbia sapore.
Sarà stato trattenuto dai parenti, si dice, avrà dovuto restare più del previsto. Fa scorrere lo sguardo sulla lunghezza del tavolo vuoto. Non si intende molto di parenti, per la verità: i suoi genitori quasi non se li ricorda più. Dei suoi tre fratelli, uno è caduto per la Patria all’inizio della guerra e gli altri due sono al fronte. È tanto che non li vede.
Si rende conto di non ricordare un’occasione in cui ha visto quel tavolo completamente occupato.
Abbassa gli occhi sul piatto, ripensa a quando lui e Friedrich si sono divisi una tavoletta di cioccolato alla caffeina prima di allontanarsi dal fienile diroccato.
Nonostante il dolore, la stanchezza e la paura di quel frangente, sorride fra sé e sé al pensiero.
Sarà stato trattenuto, pensa di nuovo. Gli sfugge di mano la forchetta, il rumore improvviso quasi lo fa sobbalzare.
Nel profondo del suo cuore, segreto, doloroso, alberga il timore che Friedrich possa non arrivare. Che lo consideri uno scioccherello fatuo, non alla sua altezza. Un ragazzetto viziato che fa bravate per il solo gusto di farsi notare.
Abbassa lo sguardo come per un rimprovero.
Rievoca con nostalgia i lineamenti del compagno, i suoi occhi profondi e seri. Lo immagina con elmo e scudo sui bastioni di una fortezza, la croce nera sul petto, armato del tranquillo coraggio della fede.
Allontana il piatto ancora pieno, vi depone accanto il tovagliolo e si allontana a grandi passi.

La signora Lützow si asciuga le mani nel grembiule e fissa pensosa il figlio. “Che c’è, non hai fame?” gli chiede preoccupata. “Eppure ho fatto la zuppa di patate come piace a te.”
Friedrich alza gli occhi sulla donna: ha più rughe rispetto all’ultima volta che l’ha vista, più capelli grigi. Sicuramente avrà dato fondo alla tessera del razionamento per offrirgli quel piatto. Sorbisce qualche cucchiaio, più che altro per farle piacere, ma la minestra sembra non avere alcun sapore.
Allontana la scodella, si alza e dice: “Scusa, mamma. È buonissima, ma non ho fame.”
“Che c’è, non stai bene?”
Friedrich scuote la testa. Non sta bene, in effetti, ma certo sua madre non capirebbe il genere di malessere che lo affligge. Non capirebbe il dolore e il senso di vuoto che lo stanno letteralmente mangiando dentro, che gli tolgono il sonno, l’appetito e la tranquillità. Emette un lungo sospiro e semplicemente dice: “Perdonami: devo andare.”

Arriva al piccolo centro vicino a Potsdam dove abita Siegfried su un camion di militari della riserva, scende nella piazza del paese e non ci mette molto a trovare la villa della famiglia von Kleist: è un’imponente costruzione barocca circondata di querce secolari, ammantata delle prime nevi.
Si ferma per qualche istante davanti al cancello di ferro battuto, deglutisce con la bocca secca e il cuore che gli batte all’impazzata. La metaforica soglia su cui tante volte si è affacciato, affascinato ma anche timoroso, se l’è già lasciata alle spalle; l’attimo di immobilità senza peso ha ceduto il posto alla folle caduta della vite e lui ormai sa solo una cosa: che oltre quelle sbarre c’è Siegfried.
Ci sono i suoi movimenti eleganti, la sua temerarietà, il suo fuoco. Inspira di nuovo profondamente, socchiudendo gli occhi come per distoglierli brevemente dalla contemplazione del palazzo settecentesco. La luce sta già calando, il cielo sta assumendo la tonalità opulenta dell’ora blu. Pallida, ancora sbiadita, una falce di luna sembra una pennellata data per sbaglio, uno sbaffo che rovina invece di abbellire.
Friedrich la guarda e di nuovo gli torna in mente la frase sul lato nascosto che tutti dovrebbero avere. Colpevolmente ricorda gli ultimi eventi e si rende conto di averlo lui stesso. Un lato cauto, calcolatore, che soppesa rischi e conseguenze. Che si preoccupa di quello che potrebbe pensare la gente.
Se rivolge lo sguardo al palazzo, invece, ha quasi l’impressione che dalle finestre filtri la luce di Siegfried: una luce pura, adamantina, senza ombre.
Un rumore di passi lo fa sussultare. Un uomo con una redingote scura si sta avvicinando. “Il signor tenente desidera?” gli chiede fissandolo serio.
Friedrich deglutisce. “Sono un camerata di Siegfried von Kleist,” risponde, e all’alzata di sopracciglio dell’altro si corregge: “Del conte von Kleist. Lui… voglio dire, il conte mi sta aspettando.”
“Attenda un attimo, prego.”
L’uomo si allontana verso una costruzione poco distante. Friedrich, che al suo arrivo aveva fatto un passo indietro, torna ad aggrapparsi alle sbarre. Al di là c’è un viale coperto di ghiaia, bianco nella luce ormai cupa del crepuscolo, e più oltre la sagoma scura della villa.
Cerca di immaginare in quale punto di quella massa nera si trovi Siegfried, si augura che lui ci sia, che lo stia ancora aspettando.
Che non lo disprezzi per aver esitato.

“Signor conte?”
Siegfried alza la testa dal libro che sta leggendo. “Che c’è, Johann?”
“Un ufficiale chiede di lei, signor conte.”
“Cosa? Un ufficiale?”
“Un tenente. Ha detto che è un suo camerata, signor conte. Mi sono preso la libertà di farlo accomodare nel salotto verde e...” non fa in tempo a finire la frase: Siegfried butta il libro da una parte ed esce di corsa dalla stanza.
Divora il corridoio, scende a precipizio le scale.
Friedrich. Lui lo sa che è Friedrich. Verrò io da te, ha detto.
Raggiunge il salotto verde e spalanca la porta.
Lui è lì. È in piedi a una certa distanza dalle poltroncine di velluto, come se le disdegnasse. Con le mani dietro la schiena, sta osservando un quadro appeso alla parete.
Gli corre incontro, lo abbraccia con tale impeto da obbligarlo a fare un passo indietro per mantenere l’equilibrio, poi si sente cingere da lui, stringere così forte che quasi gli manca il respiro. Ma non basta, non più. È passato il tempo degli sguardi carichi di desiderio, il tempo delle distanze dolorosamente mantenute.
È passato il tempo delle cose che non si possono fare.
Alza il viso verso di lui, va a cercare le sue labbra con le proprie. Friedrich risponde con un bacio che sembra il tracannare di un assetato: profondo, intenso, colmo di un lancinante anelito.
Incuranti di qualsiasi cosa crollano sul divano, le bocche ancora unite, le mani che si fanno sempre più audaci, mentre l’eccitazione cresce come una marea che spazza via qualsiasi cosa.
Alla fine è Friedrich, ansante, scarmigliato, con il volto arrossato e umido di baci, che mormora: “Andiamo... da qualche parte.”
Siegfried annuisce come se non stesse aspettando altro. Si libera agile dal suo abbraccio, si alza e semplicemente ripete: “Andiamo.”
Basta quella semplice parola per descrivere quello che sarà: andiamo, lasciamoci dietro tutto, noi siamo già oltre.

Friedrich lo segue per i corridoi oscuri con sicurezza, come se davvero a guidarlo fosse una luce. Ripensa a una frase di Nietzsche: ciò che viene fatto per amore accade sempre al di là del bene e del male.
Si chiede se sarà così anche per loro.
Lo schiudersi di una porta lo distoglie dal suo ragionamento: oltre la soglia vi è una camera da letto morbidamente illuminata da un’abat jour. Sul tappeto c’è un libro aperto.
Si buttano dentro. L’anta sbatte dietro di loro, serrata con forza nella frenesia di gettarsi di nuovo l’uno fra le braccia dell’altro. Crollano avvinghiati sul letto ansimando, divorandosi di baci. Sfilate da mani che l’urgenza rende imprecise, le uniformi si ammucchiano sul pavimento.
E poi sono insieme: pelle contro pelle, le bocche per l’ennesima volta unite, i respiri che si mischiano. Se anche razionalmente non hanno idea di cosa si debba fare, i loro corpi e i loro istinti sembrano saperlo da sempre. Essi li guidano: come ali potenti, li sollevano verso le vette di un piacere che non ha nome, ma li lascia storditi ed ebbri come adepti cui è stato concesso di contemplare il Sublime.
Quando l'atto giunge a compimento, essi si abbandonano l'uno contro l'altro esausti, con la consapevolezza che tra loro sia successo qualcosa cui erano da sempre destinati.

È la luce che filtra dalle tende a svegliarli. Nessuno è venuto a bussare alla porta del signor conte: forse è ancora troppo presto, o forse i domestici immaginano che vedrebbero cose impossibili da ignorare e preferiscono rimanere fuori.
La cosa non li sfiora nemmeno, sono di nuovo i corpi a dettare legge. Il mondo scompare mentre ancora una volta le ali potenti della passione li spingono verso il nitore delle vette.
Quando ridiscendono verso terra, non ci sono parole umane che possano descrivere il sentimento che li pervade.
Si limitano a scambiarsi un lungo sguardo silenzioso, con la consapevolezza che dopo aver raggiunto l'acme non potrà che esserci l'inesorabile caduta. Un aereo non può restare fermo nel cielo, e anche loro sono così, destinati ad attraversare tutto a folle velocità senza potersi fermare. Guardare il mondo dal punto di vista degli dei ha un prezzo, del resto.

Qualche giorno è concesso ai due. Un assaggio di vita segreta dalla quale tutto il resto è escluso, sulla quale nessuno può esercitare controlli, porre veti. Un mondo in cui esistono solo loro.
Come purosangue tenuti a freno per troppo tempo, essi sono ansiosi di dar sfogo a tutta l’energia accumulata, avidi di libertà, traboccanti di desiderio.
Si amano. Totalmente, in maniera assoluta. Se fosse possibile, si amerebbero ogni giorno di più, ancora di più, sempre, fino a un parossismo, fino a che la fiamma che arde in loro non li consumasse in un lampo abbagliante.
Morire così, in un'esplosione di luce accecante, insieme, sarebbe una dolce morte.
Ma la guerra non tarda a ricordarsi di loro. Il suo artiglio li ghermisce dove si sono rifugiati, nella villa barocca, tra i campi innevati della tenuta.
Giunge sotto forma di un telegramma, che i due trovano al rientro da una cavalcata. Siegfried se lo vede recapitare con solenne deferenza dal maggiordomo.
Quale decadente eleganza, gli viene fatto di pensare. Al signor conte la morte giunge su un vassoio d'argento.
Ancora prima di aprirlo sa cosa contiene. Solo il luogo e l'ora non gli sono noti, ma quelli in fondo non sono che vili dettagli.
Strano non aver sentito rumore di zoccoli. La Morte cavalca un morello nero come il carbone, non è così che dicono gli antichi versi?
Alza il viso, fa girare lo sguardo su tutto ciò che lo circonda: il palazzo avito, la campagna che si stende fuori, il suo destriero, il sole, il vento. Sta prendendo commiato.
Infine ferma gli occhi in quelli di Friedrich e il suo sguardo è limpido e saldo.
“È inutile perdere tempo,” dice, “voglio la mia migliore uniforme.” Si rivolge ironico al compagno: “Questa è un'occasione in cui non ci si può mostrare sciatti, non ti pare?”
Fa un sorriso tirato, ma gli occhi sono indomiti, fieri. E la testa è orgogliosamente eretta.
“Andiamo, Friedrich. E' ora di volare. È ora di staccarsi da terra. Siamo nati per il cielo in fin dei conti.”

Vanno. Non c'è tempo per gli addii strazianti, e forse è bene che sia così. Sarebbe solo zavorra inutile per due rapaci che si apprestano a combattere nei cieli.
Vengono accompagnati all'aeroporto di Tempelhof dalla Mercedes nera. Decisamente, la Morte tratta bene il signor conte.
La Morte evidentemente è sensibile ai titoli nobiliari. E' raro infatti che sia così forbita. Di solito ghermisce e strazia, non invita così compitamente.
E Siegfried accoglie anche quei discutibili privilegi come se fossero le cose più naturali del mondo. Sembra muoversi a suo agio come nel salone delle feste di casa sua.
Lui e Friedrich si presentano al comandante dello stormo, ascoltano le consegne, si fanno indicare i loro aerei. Non c'è altro da dire.
Centinaia di Fortezze Volanti stanno giungendo da ovest, a momenti saranno su Berlino per scaricare tonnellate di morte e distruzione su civili inermi. Compito dei cavalieri è proteggere i deboli, anche a costo della vita.

Il falco avanza risoluto. Passa davanti alla fila dei piloti silenziosi guardandoli uno per uno, come per motivarli, per dar loro un esempio.
Spavaldo, temerario. Testa alta, per prima cosa. Anche la morte - anzi, soprattutto quella - si deve affrontare con fermezza.
Si avvicina al suo aereo. Un Focke Wulf 190 D. Un ottimo caccia. Sorride soddisfatto, farà un buon lavoro. Ne porterà parecchi con sé.
Accanto a lui, con un aereo analogo in dotazione, c'è Friedrich. Pacato, tranquillo. Lo sguardo sereno e al tempo stesso carico di una consapevolezza straziante.
Siegfried lo fissa, negli occhi gli passa il consueto guizzo. Si fa avanti con un balzo agile. È nel piazzale, davanti a tutti, ma lo abbraccia stringendolo a sé.
“Friedrich,” mormora, “io... volevo dirti che...” Si ferma, deglutisce. Un attimo di commozione glielo possiamo anche concedere, non è facile abbandonare la vita e l'amore a poco più di vent’anni con la leggerezza con cui si butterebbe un pugno di terra dietro le spalle. Anche se ti chiami Siegfried, anche se la tua famiglia combatte da secoli contro i nemici della Germania.
Posa la testa fra la spalla e il collo dell'altro.
Un abbraccio può durare un'eternità?
O forse quello diventa l'eternità, cristallizzata, immobile, quando si sta per affrontare la morte.
Cosa c'è dopo non lo sa nessuno, nessuno è tornato a raccontarlo. Si conosce solo la paura ancestrale di fare il grande salto.
Se fossi certo di ritrovarlo di là, pensa Siegfried con il volto contro il collo dell'amato, se ne fossi certo, allora non mi importerebbe di morire. Quello che mi strazia è il terrore di finire in un'oscurità gelida, solo, per sempre senza di lui.
Ma testa alta, innanzitutto. Siamo nati per morire, non è così che si legge in ogni caserma?

Troverà la morte su una macchina d'acciaio e alluminio sparata nel cielo a seicento chilometri l'ora e lo sa perfettamente. Fa solo che sia breve, mormora tra sé.
Un'ultima occhiata all'amato, un ultimo sorriso e va.
Sono tanti come lui, cavalieri del cielo che si lanciano contro le orde di invasori. Sa già che combatteranno fino all'estremo sacrificio. Ma così dev'essere. Sta finendo l'era dei cavalieri, comincia quella dei ratti.
E allora è meglio così. Che mondo è quello dove un cavaliere è sopraffatto da un'orda di ratti? Un mondo dove non è poi così desiderabile vivere.
Se non fosse per Friedrich che lo sta guardando, forse non sarebbe neanche male andarsene così.
“Facciamo a chi ne abbatte di più?” chiede prima di chiudere la capote. “Peccato solo che non potremo confrontare il bottino.”
L'altro si ferma per un attimo, il braccio teso a sostenere a sua volta il tettuccio. “Lo confronteremo nel Walhalla, Siegfried.” Sorride fiero, orgoglioso. “Per cui fa' del tuo meglio, non vorremo presentarci a mani vuote.”

Ma è finito il tempo delle parole, ora si deve combattere. Le fortezze sono quasi sulla periferia della città. Uno dopo l'altro i caccia si involano rapidi e spariscono verso l'orizzonte nel cielo di smalto.
Anche Siegfried e Friedrich sono in volo, nella formazione tipica di capopattuglia e gregario.
Le comunicazioni radio si sovrappongono in un magma concitato.
“Viermot a ore dodici, Hanni 2000.” Questa è l'unica notizia che vale la pena di tenere in considerazione.
Di Viermot ce n'è da oscurare il cielo.
Sono centinaia e ognuno di essi porta nel ventre tonnellate di morte.
Quanti ne potranno distruggere? Quanti di quell'orda immane?
Quanti? Tutti quelli che capiteranno davanti alle loro mitragliatrici.
Siegfried dà tutta manetta, il caccia schizza in avanti, si inclina, guizza verso i primi bombardieri. Viene accolto da un uragano di fuoco, spara contro la carlinga del più avanzato, cabra, si disimpegna.
Il primo dei Viermot punta verso terra.

Il suo aereo è Bianco Tre. Lo si può vedere guizzare come uno squalo fra i nemici. Colpisce, abbatte, si sgancia.
Un meccanismo perfetto. O almeno dovrebbe esserlo
Ma se diamo retta a von Clausewitz, già è difficile vincere una battaglia contro forze nemiche doppie. Figuriamoci qui, dove combattono dieci a uno. E anche una belva, in un branco di cani, soccombe.
Una raffica colpisce la fusoliera di Bianco Tre. L'attraversa di taglio, da davanti in alto a dietro in basso come una sciabolata. Da come vibra l'aereo, il pilota è stato colpito. Un altro Mustang cade sotto le sue mitragliatrici, però. Si era fatto troppo spavaldo, attirato dalla preda facile. Paga con la vita il suo errore.
Come un cinghiale incalzato dai cacciatori, Bianco Tre indietreggia, si difende, ma nulla può contro forze così soverchianti.
E infine sembra rimanere per un istante immobile nel cielo mentre un'altra raffica lo coglie nel mezzo di un'elegante virata sfogata.
La virata non si compirà mai. L'aereo cade in vite e si schianta in un delirio di fuoco e fiamme.

Ma un altro aereo ci interessa, è Bianco Quattro. Un altro fiero combattente, i Mustang d'argento hanno imparato a rispettarlo.
Loro così tracotanti, che si credono i padroni del cielo perché sono dieci volte più dei tedeschi.
Il caccia guizza fra loro facendo vittime come il Tristo Mietitore, ma anche in questo caso la battaglia è persa in partenza. L'unica cosa che può fare è perderla con onore.
Ci sono i Viermot. Quelli devono andare giù, loro e il loro carico di morte.
Il caccia si porta in posizione d'attacco, spara, cabra e si disimpegna, ma non è facile fare manovre del genere in uno stormo di bombardieri.
Bianco Quattro viene preso nella turbolenza di scia dei grossi aerei, sbanda, perde quota. Nell'attimo un caccia nemico ne approfitta per prenderlo di coda. Bianco Quattro si disimpegna, ci vuol altro, ma nel frattempo ne arrivano altri, e tutti si accalcano per buttarglisi addosso.
La battaglia fa presto a finire: una raffica gli tronca un'ala e gli attraversa la fusoliera come una fascia.
Chi avesse buon colpo d'occhio potrebbe notare la capottina schizzata di sangue all'interno, dunque il mostro d’acciaio aveva un cuore pulsante.
Ma è tardi ormai, il Focke Wulf senza più controllo butta il muso verso il basso ed entra in vite. Pochi secondi e la campagna del Brandeburgo accoglie il suo figlio prediletto.
In cielo la battaglia continua, la guerra non si ferma per così poco.

O viandante, annuncia agli Spartani che qui
noi morimmo obbedienti al loro comando.



   
 
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